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NUOVO TEATRO |
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Il nuovo teatro italiano 1975-1988
La ricerca dei gruppi: materiali e documenti
di Oliviero Ponte di Pino
La casa Usher, Firenze, 1988
© copyright Oliviero Ponte di Pino, 1999Parte 6
Corpi e fantasmi
FALSO MOVIMENTO TEATRI UNITI1982: per Falso Movimento è l’anno di Tango glaciale, lo spettacolo-rivelazione che impone il gruppo napoletano all’attenzione del pubblico e della critica, in Italia e all’estero. Ma quella perfetta e accattivante macchina spettacolare, con le sue intricate sovraimpressioni di filmati e diapositive, con la precisione dei gesti e delle immagini, con la coinvolgente e ammiccante colonna sonora, con il ritmo incalzante del montaggio, è solo il punto d’arrivo di un lungo percorso, di una puntigliosa esplorazione dei meccanismi della società dei mass media e della simulazione diffusa. E una tappa esemplare di un processò mimetico che sembra aprire nuovi orizzonti: non a caso Tango glaciale diventa immediatamente il manifesto della "nuova spettacolarità", l’esempio di una possibile alleanza tra la comunicazione teatrale e quella elettronica.
Ma da sempre, negli spettacoli realizzati da Mario Martone e soci, si muovono anche altre e più profonde inquietudini, che restano però mascherate da un paradosso che occulta l’impostazione ideologica dietro la pratica estetica, in un itinerario che sembrava muoversi sulla falsariga di un esasperato culto della superficie.
Ecco le estetiche del postmoderno messe a punto in anni di lavoro e applicate a una riscoperta della narratività che attraversa Verdi (Otello) e addirittura il Brecht dell’Opera da tre soldi (Coltelli nel cuore). Ecco l’indagine sui diversi livelli dell’operare artistico, con l’omaggio a Picasso (Il desiderio preso per la coda). Ecco infine l’azzeramento di tutte queste esperienze nella costruzione di un vero e proprio kolossal teatrale, come Ritorno ad Alphaville, in cui si intrecciano cinema, video e teatro, misticismo e astrazione matematica, cibernetica e teorie del linguaggio. Fino a ribaltare queste tematiche con un’ultima (finora) svolta, una sorta di ritorno all’origine centrato su un impegnativo progetto sulla tragedia greca.
Senza rinunciare a misurarsi con le diverse forme della modernità, Falso Movimento (o meglio, i Teatri Uniti che li accomunano ora al Teatro Studio di Caserta di Toni Servillo e al Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller) sembra così voler portare allo scoperto le inquietudini e le riflessioni che hanno accompagnato, spesso segretamente, le sue esplosioni spettacolari.
CONVERSAZIONE CON MARIO MARTONE
Quali sono stati gli inizi del gruppo?
Falso Movimento ha un’origine "preistorica", che non fa nemmeno parte della teatrografia ufficiale del gruppo: un Faust, il primo lavoro che ho fatto, nel ’76, in cui c erano tra l’altro Angelo Curti, Pasquale Mari e altre persone che sono poi diventate Falso movimento. Mi è difficile ritornare a quello spettacolo. Era un lavoro molto complesso, c’erano vari piani. Da un lato, degli esperimenti scientifici che venivano inscenati in modo tale che non si realizzassero, non prendessero forma: fino all’ultimo, la quadratura del cerchio, che veniva invece realizzata. Dall’altro, un piano pittorico in cui si lavorava sul ciclo di sant’Orsola del Carpaccio, ricostruendone alcuni frammenti che alla fine formavano una visione d’insieme. Contemporaneamente scorreva il Faust. Alla fine, questo era il senso dello spettacolo, ciò che mi rimane: la "dannazione dell’attore", affrontare il teatro come una dannazione. Infatti c’era anche il Kean di Dumas.
Il testo era un collage?
Era un grande collage letterario, pittorico, sonoro, visivo. Tra l’altro, non avevo nessuna formazione teatrale, non poteva assolutamente venirmi in mente di affrontare un testo: sono problemi che mi pongo ora, a più di dieci anni di distanza dall’inizio del mio lavoro. Mi ricordo, in particolare, la caotica scena del finale: Angelo urlava il monologo del Kean, la dannazione di Faust alla fine coincideva con quella dell’attore, con la scelta del teatro. Era il segno che stava alla base del lavoro.
5ei partito quindi dalla dannazione dell’attore: ma tu hai scelto di fare il regista.
Con "attore" intendo il teatrante in generale. Già in Faust non facevo l’attore, già allora ero escluso da questa possibilità. La scena era divisa a metà e tutte le azioni venivano realizzate sia davanti che dietro, in perfetta sincronia, come se fossero viste allo specchio. Da un lato dellà scena c’era il pubblico, dall’altra un fondale, un elemento divisorio aperto nel mezzo che consentiva la visione, un diaframma che ritorna continuamente nei miei lavori. Le azioni si svolgevano da una parte e dall’altra, assolutamente identiche: lo spettatore aveva la sensazione che fra le due ci fosse uno specchio. E alla fine, quando tutte le linee confluivano, calava uno specchio vero.
C’erano quindi due scene, una dietro l’altra...
Erano due scene identiche: quindi le persone vestite uguali, gli stessi oggetti, gli stessi movimenti fatti come specchiati. Lo spazio era già molto sconvolto rispetto alle logiche tradizionali. E di fronte c’era una pedana su cui avveniva la ricostruzione del ciclo del Carpaccio.
E dopo questa dannazione iniziatica?
Dopo Faust è passato del tempo, alcuni mesi: c’era stato un processo di purificazione, come se lo spettacolo fosse stato una catarsi. Da quel momento mi è sembrato di vedere in maniera più chiara: così è nato Nobili di Rosa, in cui già c’era Andrea Renzi, che allora aveva quattordici anni, andavamo a scuola insieme. Il primo lavoro che consideriamo "ufficiale" è stato Avventure al di là di Thule, una installazione. Era un lavoro sul vuoto, sulla ricerca di un’essenza teatrale, elementare: gli elementi erano pochissimi, i rapporti tra di essi mini-mali. Quello che cercavo era un senso teatrale, il senso di uno zero teatrale.
Un punto di partenza?
Un punto di partenza vero, autentico. Non un testo, né la tradizione borghese del teatro, né l’avanguardia, che allora poteva essere rappresentata da Memè Perlini, dal Carrozzone: tutti i punti di partenza ci apparivano già stratificati, il risultato di un percorso. Mentre mi interessava il grado zero della scrittura teatrale.
In genere, quando si parla di questo grado zero, si pensa a una sorta di ancestralità, lo si ricollega a esperienze vagamente mistiche, di ricerca portata all’interno dell’uomo. Questo punto di inizio io lo cercavo invece con un altro sistema: attraverso un vuoto, nell’eco del grande rumore dei mass media. E come se il mondo contemporaneo, il suo rumore - rumore inteso come il prodotto di una stratificazione totale - producesse un eco: e c’è un punto in cui quest’eco si va a perdere, in cui ha la sua ultima sonorità udibile. Questo riverbero, questa dimensione si trova quindi al di fuori dell’uomo e non al suo interno: è nel suo rapporto non con la natura "naturale", quanto con una natura artificiale, prodotta dal rumore dei mass media, in cui comunque esiste un fondo ancestrale.
Un fondo ancestrale che ti riporta dunque all’origine?
Che ti dà il senso di un’origine e che ti fa sentire i tempi. In quegli anni era possibile sentire che il tempo in cui si viveva non era necessariamente un tempo conclusivo, ma era addirittura il momento in cui iniziava qualcosa; qualcosa che comunque vorrei continuare a sentire, che mi sforzo di continuare a sentire. Ancestrale quindi in questo senso: perché rimanda a un’origine continua. La vicenda dell’uomo è una vicenda di inizi che riecheggiano sempre lo stesso inizio, e ogni volta nella cavità di questo inizio senti risuonare l’inizio. Sempre lo stesso. Affronti scenari sempre diversi, come se cambiassero continuamente i territori che attraversi, ma in realtà mantenendo la stessa natura. Tutto questo per me avveniva nel teatro. Non avevo nessuna esperienza teatrale, non avevo fatto nessuna scuola; a teatro non ci andavo nemmeno se mi pagavano, perché mi addormentavo dopo dieci minuti.
E allora, perché il teatro? Perché è l’arte più rappresentativa dell’uomo in quanto immutabile, perché in fondo il teatro è sempre lo stesso: attraversa questo vuoto, questo continuo riecheggiare, trasformando di volta in volta l’ambiente che ha intorno, per cui cambiano lo scenario, i costumi, le sonorità, le voci, ma l’elemento costante dell’attore, della presenza umana in scena, rimane. E questo elemento a affascinarmi: il teatro è l’arte più eversiva, non può essere piegato da nessun mezzo di comunicazione, da nessun intervento tecnologico.
È una dimostrazione che negli anni successivi hai costruito per paradoss4 facendo un teatro che utilizzava un grande apparato tecnologico, che si perdeva nel presente, nell’attualità o addirittura nel futuro.
Si trattava esattamente di fare i conti con tutto questo. Per me, scegliere un altro tipo di grado zero significa pensare al teatro come a qualcosa di avulso dal mondo, che riguarda un uomo solamente presunto, che può compiere un rito che ricorda l’origine. Ma questo non mi interessa, significa rendersi estranei a tutto quello che c’è intorno.
C’è dunque una contrapposizione tra un teatro che cerca di recuperare attraverso il rito il senso dell’origine, e un teatro che cerca di rivivere e ricostruire quest’origine in termini attuali.
Quest’origine è il teatro. Questo senso dell’origine l’ho cercato, in quei primi anni, come dicevo prima, nell’eco, nel riverbero prodotto dai mass media. Questo significava prendere di petto il teatro, la dimensione della falsificazione, della simulazione continua, per riuscire a dimostrare una differenza:
il fatto che il teatro non poteva essere riproponibile con mezzi tecnologici. Non mi stanco mai di ripetere che non abbiamo mai fatto uso di mezzi tecnologici: abbiamo usato semplicemente elementi di tecnologia domestica, gli oggetti che tutti hanno costantemente tra le mani. La tecnologia viene forse utilizzata a Broadway per fare i musicai, ma non ha niente a che fare con il teatro. Quello che invece ci interessava era un sistema visivo-sonoro-scenico che simulasse un determinato tipo di comunicazione, ne prendesse dei pezzi, ma che nel simularlo usasse il suo stesso codice.
In teatro c’è sempre una certa simulazione, dal naturalismo all’epicità brechtiana. Diverso da tutto questo è l’universo " tecnologico " della simulazione, cioè adottare una tecnica presa in prestito dal mondo della comunicazione, dal cinema o dalla televisione, da cui derivano una serie di tecniche secondarie, che però sono costitutive di questo universo della simulazione. Da tutto ciò deriva il nostro uso del montaggio, il rapporto con le scene, con le luci. Da un lato si tiene ovviamente conto delle lezioni del teatro del Novecento, dall’altro ci si instrada in una dimensione completamente diversa, quella della simulazione.
Quindi si tratta di confrontarsi con un panorama che è cambiato drammaticamente, e in qualche modo appropriarsi di alcuni dei suoi meccanismi?
Questa è stata la nostra scommessa fino al 1982-83.
Puoi precisare le tappe di questo percorso?
Prima di Falso Movimento e nei primi anni del gruppo, fino a Dallas 1983, non facevamo dei veri e propri spettacoli ma delle installazioni: spettacoli semplicissimi in cui l’attore era presente come pura presenza umana, e quindi non doveva recitare.
Iniziò poi una fase diversa, cominciata con Dallas 1983 e passata attraverso Rosso Texaco, Controllo totale e chiusa da Tango glaciale, quattro spettacoli teatrali in cui c’era un cambiamento. In questi lavori l’origine trovava uno scenario, quello metropolitano, a cui ci siamo riferiti in quegli anni: quindi, la città e comportamenti metropolitani. Quella che all’inizio era una ricerca alchemica trovava il modo di esprimersi.
Parlavi di un uso di "tecnologie domestiche": come funzionavano all’interno degli spettacoli?
Ho sempre trovato insopportabile usare le diapositive in quanto tali, con una funzione descrittiva ("proietto quindi indico"), un procedimento "minimalista" che non mi è mai piaciuto. La diapositiva mi interessava invece come scenografia di luce, eterea, bidimensionale. Mi interessava soprattutto il lavoro sulla bidimensionalità: Tango glaciale è indubbiamente uno spettacolo bidimensionale. Ma era una bidimensionalità falsa. Innanzitutto lo spettacolo era ovviamente tridimensionale; ma c’era anche una apertura dello spazio come un respiro: si apriva e si chiudeva continuamente, come una macchina pulsante, per cui non c’erano solo i tre piani normali, ma venivano continuamente moltiplicati e richiusi. Si trattava quindi di accettare il confronto con il piano della simulazione dei mass media, per svelarne l’illusorietà, esaltando invece la concretezza teatrale.
Un lavoro che procedeva per paradossi: portare una tecnica alle estreme conseguenze per svelarne il meccanismo.
Era un lavoro sulla differenza: voleva essere deviante rispetto al sistema della comunicazione, lo assumeva come terreno di confronto senza temerlo, se lo caricava addosso, sulla propria pelle, e ne svelava tutta l’illusorietà. E infatti Tango glaciale aveva un finale quasi tragico: con il personaggio del sassofonista schiacciato dalla casa. Poi è venuta una terza fase, che inizia con Otello: la ricerca di una narrazione. Da quel momento si apre un rapporto con il teatro come sistema, con il teatro e la sua storia, con la sua letteratura e con le sue problematiche più interne.
Tango glaciale aveva avuto un notevole successo di pubblico. Questa svolta è stata un ripiegamento o un passo avanti?
Si era messo in moto un meccanismo che in soli cinque anni aveva già cambiato il volto delle cose: i mass media avevano mostrato l’aspetto vorace del proprio meccanismo, di essere in grado di divorare qualunque tentativo di devianza che potesse in qualche modo scalfirli. Anzi, hanno dimostrato di essere in grado di nutrirsi di tutto questo.
Poiché il gioco della simulazione può essere portato all’infinito, c’è sempre la possibilità di fare la simulazione della simulazione della simulazione.
E’ quello che è successo, schiacciando una dimensione non solamente teatrale: tutto un mondo artistico che si era mosso in quegli anni su questo piano è stato omologato, divorato e digerito dal sistema. Chi si è posto questi problemi in termini dialettici nei confronti della società è evidentemente stato costretto a una riflessione. Ma se penso a Otello, la narrazione non era ancora il terreno di riflessione: ci muovevamo ancora all’interno del sistema di simulazione.
Otello era, credo, un tentativo di applicare alla narrazione le tecniche che avevate messo a punto.
Ma si produceva così un altro effetto, allora sicuramente inconsapevole: la fantasmaticità dei personaggi, degli attori sulla scena. Nel mio lavoro l’attore è sempre stato al centro di un combattimento, di un duello: sostiene una battaglia con il sistema e in questa battaglia riafferma continuamente il proprio essere uomo. Quanto più alzi il livello dello scontro, tanto più ne esci vincitore, e tanto più affermi la tua identità come uomo nei confronti di questo sistema. Con Tango glaciale questo avveniva senz’altro: si trattava veramente di corpo, sangue, sudore e lacrime.
Il corpo era una macchina all’interno della grande macchina teatrale?
Il rapporto con il corpo è stato equivocato come danza. Invece era un rapporto di combattimento all’interno della macchina: quindi se la macchina ha dei ritmi, tu devi tenere gli stessi ritmi. Questo ha fatto pensare alla danza, ma non è danza: è la sfida, è la battaglia, su un terreno diverso, da parte dell’attore, che si pone ritmi e obiettivi assolutamente diversi. Questo succedeva in Tango glaciale. In Otello esisteva invece una storia: e quindi affioravano i personaggi, e personaggio significa un affiorare di sentimenti, di rapporti, di pensieri e così via. Gli attori, all’interno di questo sistema, diventavano automaticamente fantasmi: le tecniche producevano fantasmi. Questo era allora inconsapevole, ma è stato importante: sono i limiti di ogni esperimento, ma è anche vero che proprio nel terreno brutalmente vergine puoi vedere cose che altrimenti non vedresti. Devi accecarti per vedere: solo così si può far nascere qualcosa che rimane, quando la considerazione diventa analitica, riflessiva.
La tecnica utilizzata in Otello riguarda il mondo qual è e quale si dà intorno a noi. La televisione e il sistema delle comunicazioni producono fantasmi, cioè corpi privi di profondità, senza spessore, pura apparenza e superficialità, mancanza di corpo e di forma: come possiamo immaginarci sia un fantasma. Anni fa potevo vedere il mondo e considerare che esprimesse corpi reali. Nel momento in cui il sistema ha avuto invece la capacità di annullarli e di divorarli, sono automaticamente diventati fantasmi. Credo che chiunque conservi una qualche sensibilità, si renda conto che oggi, intorno a noi, vagano le pure apparenze; lo si vede anche nell’impossibilità di scegliere concretamente delle forme di battaglia politica.
Perciò, le tecniche e il linguaggio elaborati in quegli anni non mi sembrano affatto scavalcati sul piano espressivo, non mi sembrano da rifiutare. Anzi, oggi più che mai, mi sembrano l’unica possibilità per portare sulla scena il mondo qual è: un mondo che produce fantasmi. Se il teatro deve essere, come credo debba essere, in continua frizione con la realtà, deve comunque avere un rapporto con questa realtà. Non mi interessa il teatro avulso. E non c’è altro modo: non puoi raccontare in una forma drammaturgica tradizionale un fantasma, che sfugge a ogni definizione, a ogni sistema filosofico o politico. Probabilmente può definirlo solo un sistema espressivo, artistico, che imita, che simula. Che, ripercorrendone il meccanismo, è in grado di riprodurlo sulla scena.
Sintetizzando, le tecniche e i linguaggi sono stati sviluppati in anni in cui si credeva di dar luogo, attraverso queste tecniche e questi linguaggi, a dei corpi. La successiva trasformazione ha dimostrato che, invece, non danno luogo a dei corpi, bensì a dei fantasmi. In questo momento, per me, queste tecniche e questi linguaggi restano di importanza fondamentale. Prima potevo adoperarli con un’adesione totale. Ora invece intendo usarli per dar luogo a quegli stessi fantasmi e per contrapporre a quei fantasmi degli uomini. Questo è Filottete, ma già Il desiderio preso per la coda si muoveva in questa direzione.
In che senso parli di recupero del corpo al di là del fantasma, in questo spettacolo?
Il desiderio è il primo spettacolo in cui ci si pone questo problema. Non a caso è lo spettacolo che viene dopo Otello, ma a distanza di più di due anni. Vi si manifesta, in maniera molto esplicita, il senso della battaglia, del duello: da un lato raggruppando intorno a Andrea Renzi le figure fantasmatiche provenienti da un testo surreale come quello di Picasso, e quindi simbolizzando intorno a Andrea il sistema del linguaggio e delle tecniche che fino a quel momento avevamo costruito; e ponendo dall’altro, dialetticamente, Antonio Neiwiller (questo inserimento è stato il primo seme dei Teatri Uniti) che, provenendo da un’esperienza diversa, lontana dal sistema e dalle tecniche dei mass media, si poneva dalla parte della concretezza pittorica, scultorea, del rapporto tra il corpo e l’oggetto.
Ovvero il senso della materia... mentre la vostra forza è stata l’immagine.
La tridimensionalità moltiplicata che riesce a farsi bidimensionalità: quindi aria, impalpabili scenografie di luce. Il lavoro di Antonio viene invece da una riflessione, da un atteggiamento, anche esistenziale, completamente diverso. Questo mi piaceva molto, in un momento in cui cominciavo a sentire il peso di quel sistema fantasmatico e mi interessava invece rivedere uno stesso oggetto in un modo diverso.
Come si materializzava questa situazione nel Desiderio preso per la coda?
Il riferimento era alla Parigi dell’occupazione nazista, cioè al momento in cui Picasso aveva scritto il testo; si immaginava una grande casa, una grande stanza distrutta, abitata da un soldato, un personaggio completamente inventato. Al di là della grande finestra di questa stanza c’erano un piccolo vicolo e un palazzo con molte finestre: da lì si affacciavano le presenze irreali evocate dal testo di Picasso. Quindi non si trattava, in realtà, della messinscena di un testo, ma del testo di Picasso usato come personaggio.
C’era, come nel Faust, una doppia scena.
E un procedimento che adopero spesso.
Spesso la "seconda scena" è lo spazio della verità, oltre la unzione. In questo caso, invece, lo spazio dei fantasmi è il secondo.
Con lo "spazio dei fantasmi" del Desiderio preso per la coda incomincia il modo espressivo con cui sto lavorando ora, in cui adopero la narrazione teatrale. In questo momento sto facendo realmente un lavoro interno al teatro, in cui gli elementi in gioco, come i personaggi o il loro senso simbolico, prendono comunque dei riferimenti molto forti dalla realtà. Da un lato c’è la produzione di fantasmi, che corrisponde per me ai fantasmi che vengono prodotti dal mondo qual è in questo momento; a questo contrappongo ostinatamente, e disperatamente, in tutti i modi possibili, gli uomini: quindi personaggi e storie costruiti in un modo completamente diverso, che ha molto a che fare con l’analisi e il rigenerarsi di una tradizione teatrale.
Un ulteriore punto di svolta è stato Ritorno ad Alphaville, in cui questa drammaturgia ha trovato una /orma scenica, da kolossal teatrale
Tutto questo lavoro aveva a che fare con la parola: un terreno scottante per un teatro che proveniva invece dall’afasia della simulazione. Il desiderio aveva risolto bene questo rapporto, ma già in Coltelli nel cuore il problema si era acuito. Non è un problema di tecnica, come certa critica reazionaria ha banalmente scritto: si tratta di un problema di assunzione della parola sul proprio corpo. A quel punto, poiché la maniera per affrontare i problemi, per chi fa teatro, deve essere il teatro, ho pensato che si dovesse fare uno spettacolo su tutto questo. Le tecniche e i linguaggi che avevamo iniziato a studiare dieci anni prima esprimevano, è vero, una fantasmaticità. Però, se non si vuole essere reazionari, questa fantasmaticità va vissuta anche come possibile creazione di un mondo nuovo.
Mi interessava pensare a un popolo fatto di fantasmi; ma fantasmi che sapessero sviluppare al proprio interno delle suggestioni, delle sensibilità, delle possibilità; ora non le vediamo, sono avvolte come da una nebbia, ma potrebbero diventare condizioni di vita per il futuro. Accanto a questo popolo di fantasmi, ecco la presenza dell’uomo, con il suo passato. E, nei due casi, la parola: da un lato come vagito, come creazione di un linguaggio dal nulla, come balbettio...
Una promessa per il futuro.
Ovviamente il bambino non sa recitare come l’attore adulto, ma sta cercando dei suoni. Dall’altro lato c’è invece il teatro con la sua memoria, con la sua forza, che in questo caso corrisponde all’incontro con Toni Servillo. Anch’egli è stato segnato da una trasformazione del suo lavoro: parallelamente alla nostra, la sua storia si evolveva in un universo di emozioni, di racconto, legato a una memoria vissuta e rielaborata. Tutti questi elementi hanno dato luogo a Ritorno ad Alphaville: moltiplicando i punti di vista artistici, si sono moltiplicati automaticamente i punti di vista scenici.
Falso Movimento ha sempre lavorato raccogliendo persone che avevano diverse competenze.
E una delle cose più belle che abbiamo vissuto: avere creato un gruppo che, a distanza di anni, ha ancora molta voglia di lavorare insieme. Il gruppo è formato da competenze diverse proprio perché si è trattato di un teatro che lavorava sulla scenografia, o sulla colonna sonora, allo stesso livello del lavoro sulla recitazione: un teatro in cui non c’era alcun elemento prioritario. Scenografia, musica, recitazione sono elementi strutturali del linguaggio teatrale, almeno per quanto ci riguarda. Gli artisti che di volta in volta hanno collaborato hanno avvertito un senso di continuità, di evoluzione del proprio lavoro:
tutte le fasi della costruzione dello spettacolo sono state sempre seguite da tutti i componenti, ognuno dal proprio punto di vista. Se io sto seguendo un certo percorso teatrale, è anche vero che Andrea Renzi si evolve parallelamente come attore e così Lino Fiorito per la scena e Daghi Rondanini per il suono; piani individuali che seguono una evoluzione comune e che si intrecciano continuamente. Credo che nel lavoro teatrale la comunità sia fondamentale.
Allo stesso modo, in Ritorno ad Alphaville, l’incontro con Neiwiller e Servillo non è stato di tipo burocratico: non erano scritturati, ma autori con proprie linee che entravano in rapporto dialettico con il nostro lavoro. A quel punto il gruppo ha cominciato a prendere una forma diversa: veniva in mente il teatro d’arte, dove infatti non esiste più il gruppo come forma produttiva, così come si è configurato negli anni Sessanta e Settanta, all’interno di un preciso fronte ideologico. I gruppi sono nati come sistema di aggressione, alternativo al sistema teatrale convenzionale, come Davide e Golia: questa è la sconvolgente importanza dei gruppi, dal Living in poi. Nel momento in cui tutto questo si rende evanescente, perché quel fronte non c’è più, dovrebbe giungere il momento dell’analisi.
Nel momento in cui il fronte si dissolve, per un gruppo ci sono due possibilità: sciogliersi oppure rendere ancora più forte la propria identità.
Però, a quel punto, diventa necessario reinventare il gruppo. Non so fino a che punto paghi la dimensione dell’arroccamento, fino a che punto consenta una felicità, un’armonia rispetto a se stessi. Se tu sei in un gruppo, nel momento in cui "gruppo" significa qualcosa di molto forte, di molto preciso, vivi in armonia con la tua dimensione anche se devi sostenere grandi battaglie, infiniti dispetti: perché hai un preciso senso del tuo ruolo. Nel momento in cui invece questo non esiste più, e la dimensione del gruppo è un’identità ormai priva di senso, ti accorgi che non è più possibile neppure quell’armonia. Questo ti porta alla chiusura, alla riformulazione sul piano espressivo di modelli immutabili, ripetitivi. Il problema allora è proprio come l’identità di gruppo possa trovare una nuova dimensione. Teatri Uniti è questo: cosa debba essere non lo so, né voglio saperlo, perché sto cercando insieme agli altri di costruirlo giorno per giorno. Non mettersi a tavolino e decidere di fare quella o quell’altra cosa ma, partendo da un dato concreto, cercare di capire quello che già c’era, che era nato sulle tavole del palcoscenico e ormai si stava definendo.
Si tratta di mettere in moto un meccanismo che porti alla creazione teatrale, partendo dalla definizione di un organico il più possibile omogeneo, che con senta di costruire un teatro d’arte: uno spazio che raccolga persone con una propria individualità (e questo è fondamentale rispetto al gruppo, in cui spesso le individualità sono schiacciate); un teatro in cui tutte queste individualità vengano fatte risaltare in maniera assoluta, anche con il continuo laboratorio comune, con la fusione continua nel lavoro; un teatro che permetta la prosecuzione e l’ulteriore sviluppo di prospettive che si riconoscono come scelte, e non come occasioni.
Torniamo a Alphaville. Lo spettacolo comincia con un attore in carne e ossa, che riceve l’incarico di recarsi sul pianeta Alphaville da un monitor televisivo che trasmette, tra l’altro, le immagini del vecchio film di Godard. Su questo pianeta assiste allo scontro tra la popolazione dei "fantasmi" che cercano di arrivare a una nuova vita, e una popolazione di "sopravvissuti" che vivono delle proprie memorie. Questa sostanzialmente è la trama, distribuita su quattro palcoscenici.
Alphaville era uno spettacolo conclusivo, e infatti si chiudeva con una domanda. Se dividi il lavoro di Falso movimento in due parti, la prima fino a Tango glaciale e l’altra fino a Alphaville, scopri che la prima si conclude con un’affermazione, la seconda con una domanda. E poiché ogni volta c’è da ricercare un’origine, non resta che chiederci: qual è il destino del teatrante? Rimettersi in cammino, ricominciare il percorso da una nuova origine che possa dar luogo a affermazioni diverse. Ovviamente tutto questo da un luogo preciso, il teatro. Abbiamo percorso campi molto diversi, ma ho sempre guardato al viaggio come a un’unica linea: tutto questo non passa assolutamente attraverso il rifiuto di quello che ho fatto.
Non è un ritorno all’ovile del teatro?
Assolutamente no. Sicuramente oggi sono in una posizione diversa. Prima ero ai bordi del teatro e infatti quei confini si toccavano con quelli delle arti visive, con la musica, con il cinema ecc. In questo momento, invece, la mia posizione parte dal centro del teatro: guardo dal centro, dall’origine, dal problema del rapporto con la narrazione, come mio problema di regia. Per quanto riguarda il lavoro con gli attori, parto dal problema del personaggio. Narrazione come spettacolo e personaggio come lavoro dell’attore: sono i due punti di riferimento su cui si sposta l’asse del nostro lavoro. Però non sono affatto sparite o ripudiate le tecniche e i linguaggi a cui abbiamo dato vita. Si è solo aggiunta la consapevolezza che la produzione di fantasmi, di apparenze, viene ora adoperata coscientemente per produrre sulla scena quello che esiste fuori, il rapporto che viviamo, in maniera anche sofferta, con il sistema di comunicazione che ci circonda. Questo sistema sfugge con tale forza... Allora sulla scena riproduciamo lo stesso conflitto, ci muoviamo al suo interno. Infatti dopo Ritorno ad Alphaville, c’è Filottete, che è esattamente questo.
Una caratteristica di questo sistema di produzione di fantasmi è di disintegrare e distruggere la comunicazione. Il teatro può essere il luogo in cui è possibile ricostruire la comunicazione.
Sicuramente lo è. E infatti oggi, non a caso, sto lavorando sul mito, sulla tragedia greca; adopero modelli narrativi antichi, e per di più modelli mitici, quindi in qualche modo immutabili. Ma la narrazione è naturalmente, come sempre, anche lavoro di lettura, e quindi di ricreazione del mito: è chiaramente questo che mi interessa. Mentre non mi interessa minimamente la messinscena della tragedia greca: nonostante io sia assolutamente dentro il teatro, la mia posizione non è di regista ma di autore, lo è sempre stata. Si è trattato quindi, ad esempio, di reinventare il Filottete: ma di reinventarlo completamente dentro il testo di Sofocle, con un lavoro che non è fatto di aggressione dall’esterno, come poteva essere in Otello, dove io, dai confini, sceglievo Verdi e non mi ponevo affatto il problema di Shakespeare, ma aggredivo, dall’esterno, qualcosa che non conoscevo e che non volevo conoscere. Ora invece voglio conoscere profondamente Sofocle, il suo testo, sentirlo fino all’ultima eco, per reinventare magari un Filottete che, al contrario di quello che il mito consegna, non incontra i personaggi che lo vengono a prendere, ma li sogna: come fantasmi, come apparenze. Cosa è, simbolicamente, Filottete? E l’ultimo eroe, l’ultimo uomo, uomo fino in fondo. È l’uomo con tutta la sua dirittura etica, che non si piega assolutamente, contrapposto all’universo di Odisseo: l’universo della simulazione, delle apparenze.
Prendiamo una lunghissima linea che da Odisseo porta al Quattrocento, a Machiavelli, alla prospettiva: cos’è questo mondo occidentale se non la prosecuzione di quella linea? Noi parliamo di apparenza, di illusione: dovremmo pensare a un processo che è iniziato con l’invenzione della prospettiva, il primo grande fantasma, rispetto alla sconvolgente corporeità della pittura medievale.
Si potrebbe leggere il percorso di Falso Movimento come un tentativo di restituire una terza dimensione, rimossa dall’avvento della prospettiva.
Battersi là dentro come se tu fossi dentro a una superficie bidimensionale e tentassi in tutti i modi di romperla, di dare il senso della rottura. Ma nel momento in cui la rompi c’è una bidimensionalità più "spessa" che ti richiude. Allora non hai veramente altra strada: scappare, con la mobilità che ti deve contraddistinguere rispetto alla fissità del sistema, facendoti sempre trovare dove non dovresti essere. E quindi, a questo punto, essere dentro il teatro e lì riprodurre quello stesso meccanismo che ti chiude, ma mettendolo in rapporto dialettico con l’altra dimensione che invece è fatta di corpo, di sostanza scenica dal punto di vista della narrazione, del personaggio, dell’approfondimento di tutto ciò che è interno al teatro.
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