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Il nuovo teatro italiano 1975-1988
La ricerca dei gruppi: materiali e documenti
di Oliviero Ponte di Pino
La casa Usher, Firenze, 1988
© copyright Oliviero Ponte di Pino, 1999

Parte 5
Dove gli orizzonti si allargano
CENTRO PER LA SPERIMENTAZIONE
E LA RICERCA TEATRALE Dl PONTEDERA

Come è possibile che una cittadina della provincia toscana diventi una delle capitali della cultura teatrale internazionale? Come è possibile coniugare una continua ricerca e la sperimentazione di forme di comunicazione sempre nuove con il recupero di antiche tradizioni popolari? Roberto Bacci e i suoi collaboratori sono riusciti, prima con il Piccolo Teatro e poi con il Centro di Pontedera (senza dimenticare l'esperienza parallela del Festival di Santarcangelo) a muoversi contemporaneamente su questi due binari, senza farsi paralizzare dalle contraddizioni, per utilizzarle invece come terreno di crescita.

La realtà di Pontedera è l'esempio di una evoluzione costruita per continui ampliamenti d'orizzonte, per contatti e incontri. Per anni, il Piccolo teatro di Pontedera è stato, in Italia, il punto di riferimento dell'intera area del "terzo teatro". Ne ha vissuto gli entusiasmi e le vicissitudini, senza però costringersi in una formula: fino a dissolversi, come gruppo, per reinventarsi come luogo di incontro, come possibilità di costruire una cultura del teatro. Un teatro che è prima di tutto scambio di esperienze, e che ha trovato i suoi luoghi deputati nelle diverse articolazioni del Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale (che è tra l'altro la sede del Centro europeo di Jerzy Grotowski).

Di queste scelte, delle inquietudini che le sostengono, Roberto Bacci è stato protagonista e artefice: con la sua capacità di costruire situazioni di confronto, muovendosi sul sottile limite tra l'istituzione e la spontaneità, con la sua tensione a cogliere l'essenza dell'evento teatrale per ridefinirla continuamente, con la sua capacità di pensare il teatro come proiezione della memoria nel futuro. E con i suoi spettacoli: spesso sofferte occasioni di riflessione sulle inquietudini di una generazione, sui suoi slanci e le sue debolezze; sempre proiettati alla costruzione d'un rapporto personale, quasi intimo con il pubblico, alla ricerca di una verità dell'evento teatrale alla quale è possibile approdare soltanto dopo aver ridiscusso i codici della comunicazione.
 

CONVERSAZIONE CON ROBERTO BACCI

Quando si parta del Piccolo teatro e del Centro di Pontedera, si usa spesso una meta/ora: quella dell'ecologia. Mi piacerebbe fare con te un discorso sull'ecologia del teatro in generale, e su quella di un gruppo teatrale.

Il teatro, per me, è stato la ricerca di un modo per far crescere, "al di sotto" di questa parola, qualcosa di molto personale: una miniera di incontri e di esperienze, a volte di domande e di inquietudini. Ma, essendo una persona pratica ed incline a non accontentarsi dei risultati ottenuti, so che esistono due direzioni essenziali per sviluppare in profondità il proprio lavoro: avere dei d avere dei colleghi che facciano il tuo stesso viaggio. I maestri, con la senza e le loro storie concrete, sono un antidoto alle teorizzazioni e ogia; i colleghi sono quegli occhi in più e quelle mani in più che bisogna avere nell'azione pratica. I maestri, inoltre, obbligano alla coerenza verso se stessi, che ritengo fondamentale: una forza che ti è necessaria atti verso il mondo, nell'avvicinare gli altri e nel darti il coraggio di avanti, malgrado lo spirito dei tempi. Spesso è stata questa coerenza, quasi "biografica", che mi ha colpito anche più delle tecniche utilizzate lavoro.

I maestri che hai cercato, o trovato, sono stati maestri che trasmettono inquietudini, non solo certezze o tecniche.

Il maestro è la ricerca di un punto di arrivo e di partenza insieme, la possibilità di avere un filtro che permetta di accettare la propria diversità. Nella prima fase in cui si cresce, la diversità è più un atteggiamento che una strada: allora si cerca di attenuarla, per essere come gli altri, o si cerca di combattere quella degli altri per accentuare la propria. Una scelta vera ancora non c’è stata. Sono gli automatismi che decidono per noi.

L'attrazione che ti dà un maestro è invece come quella del vuoto: ti getti dalla finestra sperando di incontrare qualcuno durante il volo. Non una immagine, ma qualcuno vivente che ti tocca, ti blocca, ti spinge, ti parla all'orecchio quando ti fermi, perché hai paura di continuare la caduta. E mentre cadi, ti accorgi lentamente che sei più leggero, che stai imparando a volare.

Un maestro non deve necessariamente essere consapevole di esserlo...

No, ma non bisogna neppure scambiare l'esistenza di un maestro con l'aneddotica o con i suoi risultati artistici, anche se sono importanti. L'uso e la ricerca di tecniche si lega sempre a percorsi umani, personali, che stanno fuori dagli spettacoli, dai prodotti. Le scelte artistiche, quando assumono un'importanza universale, sono sempre generate da domande, da inquietudini che esistono fuori dal teatro. Anzi, molto spesso, proprio orientandosi su qualcosa che sta al di fuori di esso, i grandi maestri lo hanno trasformato. E con questa attenzione, quindi, che bisogna ricercare o trovare il proprio maestro. Altrimenti quello che può accadere è di diventare un epigone, cioè di ripeterne maldestramente lo stile.

Un altro strumento del mio viaggio verso e dentro il teatro è stato costruire una relazione con altre persone, in questo caso il gruppo originario del Piccolo teatro di Pontedera: un nucleo che possedesse una specie di ecologia interna, in cui le relazioni fossero dichiaratamente stabilite dal punto di vista etico e professionale. La necessità era quella di formare con il gruppo una cellula, o più cellule, che costituissero una specie di tessuto, per respirare verso l'esterno e contemporaneamente nutrirsi verso l'interno. E stato un periodo di chiusura, di autodifesa, ma anche di creatività e di incontri. Per crescere, un organismo deve pur combattere verso l'esterno. E come un'iniziazione.

Misurarsi con l'esterno è importante, perché ci si costruisce anche per differenze...

Ad un certo punto, però, la differenza comincia a lavorare contro dite: è come se lo strumento che ti sei creato diventasse il fine. Allora il teatro comincia a scivolare su una china pericolosa: ci si rinchiude in un linguaggio, in un modo di esprimersi. La differenza non è più una ricchezza, ma diventa una questione fine a se stessa che ti condiziona nelle tue scelte, piuttosto che liberare la tua potenzialità. Molto nuovo teatro, secondo me, ha vissuto la propria diversità più come una rendita di posizione verso l'esterno che come una radicalità necessaria da riconquistare continuamente nell'azione.

Il prodotto è un po' il punto di arrivo di un processo: quindi, nel momento in cui lo offri, il processo l'ha già bruciato, mentre tu già ti sei incamminato in un'altra direzione.

C'è un altro aspetto molto importante. Il teatro è uno strumento, una tecnica: come in tutte le tecniche, a volte il "come" prende il sopravvento sul senso, sul "perché". Come dice Copeau, si tratta di costruire una tradizione reale, in cui la "tradizione" abbia il senso delle origini: occorre mantenersi coerenti al proprio "perché" iniziale. Il "perché" si trasforma, ma la radice da cui rinasce continuamente il nuovo deve rimanere la stessa.

Ad un certo punto mi sono accorto che per noi il teatro rischiava di diventare solo una specie di linguaggio: gli altri ci riconoscevano, riconoscevano nei nostri lavori uno stile, una poetica, ma la forza vitale era ormai più nelle richieste degli altri che nella nostra decisione di continuare su quella strada. Eravamo agli inizi degli anni ottanta e vivevamo all'interno di un organismo, come il Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera, che era di per sé un luogo aperto. Occorreva allora trovare altre strade, altre risposte, per non essere costretti, come gruppo, a mentire. Bisognava che ricominciassi da capo, anche a rischio di porre fine alla storia del Piccolo Teatro di Pontedera. Ritengo ancora il gruppo uno strumento formidabile di indagine, di autonomia e di intervento; tuttavia, in questi ultimi anni del Piccolo, la seconda "radice" di Pontedera, quella del Centro, è stata predominante.

Il Centro, come luogo di produzione, di costruzione ed ideazione di esperienze ed esperimenti eccezionali, di indagine storica e di riflessione intellettuale sul teatro, di luogo in cui fondare una politica alternativa a quella del mercato, è stato lo strumento trainante della rifondazione anche artistica del nostro teatro. La formazione di alcuni colleghi dei primissimi anni, come ad esempio Carla Pollastrelli, non essendo strettamente legata alla produzione, aveva tenuto viva una miniera di esperienze e di domande a cui poter attingere. Sta in questo, ad esempio, uno dei motivi per cui oggi possiamo ospitare il Centro di lavoro di Jerzy Grotowski.

Il Centro di Pontedera è stato anche uno strumento con il quale un gruppo di persone ha frantumato alcuni luoghi comuni sul teatro e sulle istituzioni che lavorano per il teatro. Intorno alla nostra esperienza si è coagulato un intero ambiente di gruppi, di artisti, di operatori, di storici del teatro, un piccolo sistema ecologico fondato su ruoli ed autonomie differenti. Ad esempio, il modo con cui abbiamo imparato a ripensare la storia dello spettacolo è stato fondamentale. Pubblicare una collana di libri come "Oggi, del teatro", non è stato mettersi un fiore all'occhiello, bensì il rendersi conto che, ogni volta che arrivi in un posto, da lì sono già passate intere generazioni di uomini di teatro:

e questo ti spinge a cercare anche dietro dite. C'è una frase di Peter Handke, nell'ultimo film di Wenders, Il cielo sopra Berlino, che dice: "Sono le tracce più antiche quelle che portano più lontano". Ma che cosa c'è dietro di te?

Per rispondere a questa domanda, che ritengo fondamentale, occorre tornare a quello che dicevo prima: tutte le grandi rivoluzioni, nel teatro. Sono avvenute quando gli artisti si sono orientati su qualcosa di diverso dal loro specifico. Guardarsi alle spalle significa comprendere attivamente questa semplice verità. Oggi, fare il teatro è diventato un po' come guidare l'auto con lo stereo a tutto volume: tutti sanno che è pericoloso, ma è anche piacevole perché stordisce> distrae dalla fatica. Guardarsi alle spalle può voler dire, a volte, anche incamminarsi a piedi, in silenzio, magari in salita. A volte si è portati a credere che il futuro del teatro sia la razionalizzazione in questa società. Non ci si rende conto che è esattamente il contrario.

Il Centro e l'esperienza di Santarcangelo sono stati per me due villaggi: due villaggi ai limiti del deserto, in cui civiltà diverse hanno portato le loro conoscenze, i loro prodotti. Penso di aver scoperto, attraverso questi due villaggi, la relatività dell'esperienza teatrale: perché, generalmente, nel teatro si vive per compartimenti stagni, in cui chi si trova dentro ad un sistema non conosce l'altro sistema> e ne ha paura. Il futuro del nostro teatro è fatto o da un arcipelago di esperienze sopravvissute a loro stesse per motivi non certamente culturali e artistici, oppure da meteore che appaiono e scompaiono, esattamente come i divi televisivi o i cantanti. L'esperienza organica che sta dietro al bisogno di teatro è invece un'esperienza che uno si porta dentro: se è autentica> dovrebbe essere una specie di viaggio che finisce nel momento necessario della morte. Mentre invece ci si accorge che> nel nostro sistema teatrale, le cose ad un certo punto spariscono e non si sa più dove siano andate a finire, perché il sistema ha fretta e quindi vuole che si raggiunga al più presto la morte: ovvero, si stimola una nascita precoce che equivale alla morte, come l'aborto.

Nel momento in cui privilegi il prodotto, inevitabilmente arrivi a queste conseguenze.

C'è sempre stata la tentazione di affrettarsi, per farsi riconoscere il più presto possibile. Ci sono gruppi che si suicidano per questa fretta. Nel teatro, più che sulle autostrade, ci vorrebbe il limite di velocità. Tutti i cartelli, invece, ti invitano a correre. L'unico che ha messo il limite di velocità è stato il Ministero> ma con ben altri scopi... Anzi, quello è addirittura un divieto di circolazione!

La nostra ottica è diversa: non c’è da arrivare da nessuna parte! La coscienza di non dover arrivare da nessuna parte toglie immediatamente l'angoscia: è come se ti facesse vedere le cose in maniera più chiara e serena. Non c'è bisogno di vivere per gli altri, grazie agli altri: quello che fai lo puoi fare per te e per le persone che senti vicine> inclusi gli spettatori. E ciò che permette di cambiare> di trasformare completamente il tuo modo di sentire le cose senza rischiare di scomparire. Quanta gente vorrebbe cambiare e ormai non può più! In questo Barba e Grotowski sono stati per me grandi maestri.

E evidente che devi esser furbo: devi conoscere la tecnica, il modo di confrontarti con il mondo. Quello che dico non è romantico o ingenuo. La mia biografia fa fede che non sono uno che si tira indietro dallo scontro politico:

anzi, credo che occorrerebbe provocarne di molto più radicali. Gli uomini di teatro oggi sono spesso ingenui, troppo superficialmente rivendicativi o ancorati alla difesa di privilegi che ormai nessuno ha più intenzione di riconoscere.

Pensa, per esempio, a come molti amministratori pubblici gestiscono privatisticamente il denaro per la cultura> che di solito è il settore meno controllabile nei risultati. Abbiamo ottenuto importanti successi negli anni passati, partecipando al rinnovamento culturale di tanta parte della società> e oggi ne paghiamo le conseguenze. Chi ha offerto alla macchina della politica culturale solo spettacolo e non ha tutelato anche i "processi di lavoro"> oggi è scavalcato da quella stessa macchina che, diretta dagli amministratori, riproduce la stessa domanda di spettacoli di alcuni anni fa> ma questa volta finalizzati al consenso. Chi ha seminato solo spettacoli, oggi raccoglie programmazioni gestite dai politici. Gran parte del teatro è in trappola. Quanti artisti dirigono delle istituzioni culturali? In base a quali criteri sono scelti?

Devi anche conoscere molto bene alcuni meccanismi, per riuscire ad entrare nelle crepe.

Come dice Grotowski: "Puoi mangiare la minestra insieme al diavolo, ma devi avere un cucchiaio con il manico molto lungo". Il problema è, allora, come costruire questo cucchiaio dal manico lungo: oggi penso di aver capito come funziona, questo manico. In definitiva, la mia è una situazione molto privilegiata che permette di ospitare, di produrre lavorando... e di prendermi anche dei periodi in cui posso vivere lavorando senza dovermi impegnare a farmi vedere o riconoscere dagli altri. Il mondo può aspettare... del resto è distratto da tante altre cose...

Dopo la fine del Piccolo Teatro di Pontedera mi sono tornati in mente gli incontri della giovinezza: il parateatro, le riflessioni teoriche e storiche sul teatro, la pedagogia teatrale, il teatro di strada: A quel punto, il problema di mantenerne vivo il senso era di non chiuderlo in un'altra forma, in un'altra tecnica. Allora ho giocato tutto il bagaglio della mia esperienza teatrale, e l'ho giocato su un numero solo: è stata l'anomalia dell'esperienza di Volterra, con il Porto e il gruppo dell'Avventura, diretto da Fausto Pluchinotta. Erano tutte persone che avevano seguito Grotowski per un pezzo della sua strada e che poi si erano rese autonome. Un'esperienza completamente anomala, di artisti che definivano il proprio lavoro "cultura attiva", o "pratiche in attesa di teoria". Ci sono state decine di definizioni, per una cosa che nella pratica era molto chiara: ma quando una cosa è molto chiara nella pratica, nella teoria è molto difficile da definire.

Era un gruppo di diseredati, nel senso di persone che non aveva nessun tipo di riconoscimento. Non si capiva che cosa facessero, perché la loro attività non era considerata "utile", perché lavoravano con dieci persone per volta, mentre oggi la qualità si trasforma sempre più in quantità. Il mio incontro con loro come regista, come persona che aveva determinate tecniche da usare e una visione non consueta del teatro, ha prodotto una vera spinta in avanti, cioè verso le origini. Nel lavoro con queste persone, Laggiù soffia e poi Era, ho ritrovato un elemento sostanziale, che facendo il "teatro", si rischia di perdere: il rapporto con lo spettatore, il rapporto fra l'azione e lo spettatore.

Puoi specificare la differenza tra azione e attore, che sta alla base di queste esperienze?

L'azione, come è intesa nel nostro lavoro, è un'alternanza di tecniche per "vedere e far vedere" e di tecniche per "essere visti". Si utilizzano tecniche particolari in cui l'"attore", oltre ad essere in alcuni momenti un personaggio, è anche un danzatore, un narratore, un cantante, è anche una "guida", cioè colui che trasmette agli spettatori, con la sua azione. un modo di vedere extraquotidiano. Queste tecniche, utilizzate in una struttura narrativa, è come se offrissero allo spettatore la possibilità di "agirla" individualmente, anziché di "leggerla", come si fa in teatro.

E strano spiegarlo, ed anche difficile> ma è come se la richiesta che si fa allo spettatore fosse quella di usare tecniche nuove per comprendere mentre egli stesso agisce. Forse un piccolo esempio può essere d'aiuto. Durante Laggiù soffia, opera che si articola in diversi movimenti, tratta dal Moby Dick di Melville, un attore-guida invita i cinque spettatori che dovranno seguirlo in un percorso della città. Durante il percorso, la guida, utilizzando su se stessa tecniche particolari del teatro di strada (per "vedere"), che di solito non sono percepibili dall'esterno, usa il libro di Melville come un arpione metaforico, per colpire, attraverso l'apertura e la lettura casuale del libro, aspetti della realtà che in quel momento e in quel luogo si manifestano. Il "quotidiano", colpito da quest'azione, entra a far parte della struttura complessiva del racconto, conservando la propria autonomia (non si modifica meccanicamente la realtà), ma svelandosi altresì al di fuori dei propri automatismi. Lo spettatore, con la sola propria testimonianza, agisce così sul racconto "vedendo" aspetti della realtà che in una situazione normale non avrebbe colto e contemporaneamente inserendo questa visione nel racconto generale del proprio Moby Dick. Per realizzare questa azione, l'attore-guida utilizza tecniche "per vedere" particolari, e questo differenzia completamente, nella sostanza e nei risultati> la sua azione da quella di chiunque altro. Come trovare la pagina? come incontrare al momento giusto quel frammento di realtà per fissarlo nella sua attenzione e in quella degli spettatori? Forse è facile a dirsi, ma è molto più difficile a farsi efficacemente. L'attore invece, di solito, usa tecniche per "essere visto"> e questo è profondamente diverso.

Nel nostro lavoro attuale le tecniche per "vedere" e quelle per "essere visti" sono in rapporto tra loro come l'espirazione e l'inspirazione in un organismo vivente. In questo caso l'organismo dello spettacolo. Questo è ciò su cui sto indagando negli ultimi anni.

Prima dicevi che lo spettatore teatrale ha una serie di abitudini percettive attraverso le quali costruisce il personaggio. Credo che il problema, oggi, non sia solo quello dei pregiudizi teatrali, ma quello di pregiudizi percettivi molto più diffusi e meno coscienti. Il Living Theatre, per esempio, poteva permettersi di dire che il teatro è vita e /are cose straordinarie, scardinando l'organizzazione sociale dell'esistenza. Credo che la vita che cerchi con esperienze come Laggiù soffia sia ad un livello diverso: a livello della percezione e del rapporto con il mondo della singola persona.

Il Living Theatre diceva che il teatro è vita, ma la vita che proponeva era qualcosa di straordinario rispetto alla quotidianità. La vita è qualcosa di così diverso da quello che noi, purtroppo, siamo abituati a considerare tale!

La più bella metafora che ho trovato per il teatro, che è poi la metafora del cammino verso la conoscenza, è quello di René Daumal nel Monte Analogo. Daumal parla della ricerca di questo monte, "che da qualche parte deve pur esistere"; una volta che la spedizione arriva alle sue pendici, inizia la scalata. Ogni sera il gruppo accende dei fuochi per segnalare la sua presenza a coloro che seguono, e così fanno coloro che già sono più in alto. L'esperienza concreta dell'alpinismo, la scalata con le sue tecniche e le sue difficoltà, è forse l'immagine migliore del tipo di sforzo necessario, l'esempio migliore di una solitudine necessaria, di un'attenzione ai particolari da cui dipende la sopravvivenza stessa; e, soprattutto, è la giusta metafora dell'ignoto che ci attende sulla cima, oltre la quale già da ora non sappiamo come continuare. Questo monte accomuna, credo, gli artisti e tutti gli altri uomini, in un tentativo comune. Riportando quest'ultimo particolare al teatro, è come se la funzione, direi il "lavoro" dello spettatore, riacquistasse, nel teatro che mi interessa, una collocazione essenziale.

Fuori dal "compromesso culturale" il teatro può ritrovare tecniche che portano verso l'alto. Oggi è come se comitive di turisti giapponesi imperversassero nei villaggi ai piedi della montagna. Che se ne resta lì, magari nascosta dalle nubi, e continua a lanciare la propria sfida.

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