|
|
|
|
|
NUOVO TEATRO |
|
|
|
Copyright Oliviero Ponte di Pino, 1995, 1999.
L’attore nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
di Oliviero Ponte di Pino
Parte 3
4. La narrazione
(con frammenti da una conversazione con Marco Baliani)Quella della narratività era una dimensione che faceva senz’altro parte del bagaglio originario dell’attore (e non solo). Se ne è distaccata ed è andata via via perdendo di importanza. Sono diversi gli attori che negli ultimi tempi hanno affrontato il problema. Tra tutti Marco Baliani è forse quello che vi ha lavorato più a fondo: con i due assoli Kohlhaas e Lear, ma anche con spettacoli "corali", in cui la dimensione narrativa e quella più propriamente drammatica cercano un diverso equilibrio, da Corvi di luna al recente Peer Gynt. "Il narratore - per quanto il suo nome possa esserci familiare - non ci è affatto presente nella sua viva attività. E’ qualcosa di remoto, che continua ad allantanarsi. (...) Capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso quando, in una compagnia, c’è chi esprime il desiderio di sentir raccontare una storia. E’ come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze". (Walter Benjamin, "Il Narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov", in Angelus Novus) La narratività è uno dei temi di fondo del tuo lavoro. Come è nato questo interesse?
Mi fecero gestire un progetto per i bambini disadattati del centro storico di Genova; c’erano un artista visivo, un musicista eccetera, e ognuno andava lì con le sue competenze. Era un laboratorio aperto, non è che con questi bambini si dovesse riuscire a...
Ma che tipo di bambini erano?
Bambini con famiglie a rischio, con genitori tossicodipendenti, oppure emigrati, o poverissimi...
Quindi non si trattava di bambini handicappati...
No, erano bambini normalissimi, che però provenivano da ambienti familiari molto a rischio. Uno dei problemi centrali era il cosiddetto "calo d’attenzione". I pedagogisti che ci seguivano dicevano: "Sono bambini che non riescono a concentrarsi su una cosa, anche la più bella del mondo, per più di sette minuti". Allora cominciammo a fare degli esperimenti: io mi sedevo e vedevo se arrivavo a dieci minuti, a dodici, a tredici... E alla fine, con questi bambini, sono arrivato a venticinque minuti: per i pedagogisti era un miracolo, dicevano: "Non è possibile...".
Come sei riuscito a passare da sette minuti a venticinque?
Non so... Giorno per giorno scoprivo qualcosa. Raccontavo loro le fiabe più popolari del mondo, come Biancaneve, cioè racconti che in qualche modo forse già conoscevano o di cui avevano sentito dire.
E la prima volta Biancaneve durava sette minuti mentre l’ultima venticinque?
Be’, la prima volta durava sette minuti perché non finiva, a un certo punto vedevo che era inutile continuare. Ma tutte le volte che capitava, in qualche modo non era colpa loro, perché capivo dove avevo sbagliato: poteva essere un problema di ritmo, una pausa, magari m’ero come assentato, avevo guardato da un’altra parte... Lì ho cominciato a lavorare sul racconto... Anche se, risalendo all’indietro, già negli anni Settanta in molte iniziative di animazione, nei parchi, io raccontavo delle storie, anche se non avevo mai elaborato una pratica. L’ho cominciata lì, e questo laboratorio è durato quasi sei mesi: dunque è stato un lavoro "scientifico", nel senso che avevi la possibilità ogni giorno di fare delle verifiche. Era una situazione molto libera dal punto di vista istituzionale, perché non avevamo il compito di educare questi bambini: si trattava semplicemente di vedere che cosa accadeva tra il portatore di un’esperienza e loro.
Finita questa esperienza, ho cominciato ad applicare le poche cose che avevo capito ad altri, in stages per attori, per giovani che uscivano dalle scuole di teatro, per studenti, per insegnanti... Sono stati anni di grande sperimentazione, molto oscuri. Lavorando con loro, pulivo il mio lavoro sulla narrazione. E ho cominciato a girare con queste fiabe. Le ho create io, l’ultima è Frollo, la storia di un bambino di pasta frolla. Sono fiabe metropolitane, che ricordano Italo Calvino.
Sulla scena raccontavi semplicemente queste tue fiabe?
Seduto su una sedia. La sedia l’avevo scoperta come un limite, un ostacolo che mi davo. Se vuoi, era una forma: non mi alzavo mai dalla sedia.
Insomma, mettersi seduti su una sedia e raccontare...
Vestiti di nero, con una sola luce.
Eliminando tutto ciò che era estraneo alla voce narrante.
All’inizio non era così chiaro...
Però a un certo punto hai dato questa forma al racconto.
Per definire un modo di lavorare "estremo", per non dire estremistico: una sedia e basta. Un grado zero della narrazione.
Il primo problema che si pone passando dal teatro alla narrazione è il rapporto tra la voce narrante e i diversi personaggi. Come lo risolvevi nelle fiabe?
In primo luogo la fiaba è una struttura antipsicologica, a differenza di un racconto come Kohlhaas o di un testo come Re Lear. E dunque sei più libero, la struttura è anticonnettiva e antipsicologica: in tre, quattro pagine hai descritto un mondo, una vita intera. Puoi sbizzarrirti. Non c’è un passaggio logico che spieghi perché un personaggio fa un’azione e subito dopo ne fa un’altra che sembra in contraddizione con la prima. Lavorare sui personaggi in una fiaba è una gioia pura: sono facce, intuizioni, gesti, voci che ti vengono...
Dunque non era una semplice lettura, c’era una caratterizzazione dei vari personaggi, anche se tutta basata sull’esteriorità.
Ma come sempre quando l’esteriorità è portata a buoni livelli diventa interiorità: è la Commedia dell’arte... Con la maschera puoi creare cose strepitose. Lo stesso discorso vale anche per i paesaggi: lavorando sulla fiaba ho capito che qualsiasi descrizione non esiste se non in funzione di chi la vede. Dunque un paesaggio cambia se il personaggio ha qualcosa dentro, un personaggio che si porta dentro un lutto ti fa vedere un paesaggio con colori diversi da quando ha finito di far l’amore. Inoltre andavo scoprendo che cosa fosse il narratore esterno; fin dall’inizio creavo una convenzione, sedendomi in un certo modo e cominciando: "Tanti anni fa...", oppure "C’era una volta...". Era chiaro che stavo raccontando una storia. Se lo spettatore non si alzava dicendo: "Ma no! Che teatro è, con l’attore che se ne sta seduto su una sedia?", se riuscivo a catturarlo nei primi cinque minuti, la convenzione era molto chiara: io raccontavo perché ero uno sapeva la storia.
Creare questa convenzione offre già una chiave perché il narratore possa entrare e uscire dai vari personaggi...
Il pubblico te lo permette, lo spettatore ti dà credibilità... Quella che do ai vari personaggi è sempre una caratterizzazione minima, non mi ingabbia eccessivamente, perché altrimenti diventa teatro.
Ma per evitare questo rischio assumono importanza il fatto di restare seduto su una sedia, la luce unica, il costume nero...
Tutto questo ti obbliga a ricordarti che stai lì in quel modo. Inoltre la figura del narratore esterno è importante perché ama tutti i personaggi... In questo periodo c’è stato anche l’incontro con il saggio di Benjamin "Il narratore" in Angelus Novus, che mi ha aperto un mondo. Ho cominciato a dare una veste teorica al mio lavoro sulla narrazione, ho iniziato a capire che forse come narratore potevo avere un ruolo sociale diverso e ritrovavo qualcosa del discorso sul sociale da cui ero partito.
Forse va aggiunto che il pubblico capisce immediatamente la convenzione del narratore a cui accennavi prima, perché la narratività è profondamente radicata nella nostra civiltà, o forse addirittura nell’essere umano.
E’ antropologicamente inscritta. E’ incredibile: nonostante la televisione, nonostante tutto questo sistema di comunicazione, la narratività sembra in qualche misura antropologicamente innata.
Per cui diventa possibile agganciarsi a questo substrato antropologico.
Sì, secondo me sì. Da lì per me è iniziata una sfida: vedere fino a quale livello si potesse portare il lavoro sulla narrazione. Kohlhaas, il primo lavoro che ho fatto in questa direzione dopo le fiabe, è stato un tentativo di passare, partendo da una letteratura poeticamente alta, a un pubblico adulto. Anche se le fiabe le avevo fatte spesso per gli adulti, con il racconto di Kleist partivo da un diverso livello e oltretutto mi confrontavo con una scrittura di un certo tipo: la storia non mi era stata raccontata, ma era stata scritta, e da un autore preciso, con una sua biografia e un ruolo importante nella cultura occidentale. E’ stato un lavoro molto lungo, tanto quanto sarà lungo questo su Lear...
Da quanto tempo lavoravi al Kohlhaas quando hai debuttato?
Due mesi e mezzo. Durava un’ora e tre quarti, mentre adesso dura un’ora e dieci. All’inizio lo facevo con delle espadrillas nere e quindi non producevo assolutamente nessun suono; dopo un anno e mezzo, mettendomi delle scarpe nere col tacco e obbligandomi a una pedana, introdussi una sonorità che mi fece cambiare interamente lo spettacolo: adesso per esempio i cavalli galoppano. Tra l’altro in quel periodo vidi il lavoro di Cuticchio su La spada di Celano, che mi influenzò molto. Capii come dare il ritmo col respiro e col battito del piede, e che il corpo poteva essere uno strumento: come Kohlhaas, mi dò un sacco di botte, di pugni, faccio risuonare molto il corpo.
Perciò questo lavoro segna in un certo senso il passaggio da una voce narrante a un corpo narrante...
C’è voluto del tempo perché lo spettacolo prendesse questa forma, molti spettatori hanno incontrato un Kohlhaas informe... Il teatro ha sempre bisogno di repliche, ma un teatro di narrazione "estremista" come questo ancora di più; non essendoci una partitura scritta, non hai obblighi, sei molto più libero, non devi preoccuparti di chi è in scena con te, e quindi è veramente un lavoro nel tempo...
Con Kohlhaas, anche se il racconto di Kleist ha molti aspetti che possono ricordare la fiaba, entra in gioco la psicologia. A questo punto le motivazioni dei personaggi diventano fondamentali. Come è entrata la psicologia nel tuo lavoro?
Si tratta di dedicare più tempo alla creazione dei personaggi. Nelle fiabe i personaggi venivano appena accennati, a volte erano molto caratterizzati ma subito dopo scomparivano: non erano la sostanza del racconto. Nel Kohlhaas ci sono figure come il protagonista, o sua moglie Lisetta, o l’imperatore e il barone, che non solo restano a lungo in scena, ma vivono anche eventi giganteschi. Allora ho cominciato a mettere in pratica quello che avevo fatto anni prima con De Fazio e quando dirigevo gli attori: un lavoro calato nella dimensione sensoriale. Ogni volta che muore la moglie di Kohlhaas, io piango. Non sto lì a tentare di farmi venir fuori le lacrime, ma appena prendo in mano la mano di Lisetta e dico: "E’ piccola, sembra quella di una bambina", sento gli effetti del lavoro sulle azioni fisiche. Il contatto di una mano con l’altra crea dentro di me qualcosa che mi fa vedere, lì, il corpo di questa donna e mi immagino tutto il suo struggimento, e tutto quello che sta succedendo a Kohlhaas in quei momenti. Di fatto, è un lavoro stanislavskiano...
Ma questo non entra in contraddizione con il meccanismo della narrazione? Non c’è il rischio di "teatralizzare" eccessivamente il racconto?
In quel momento non stai più dentro un racconto, stai dentro un dramma. Il problema è come uscirne e rientrarci. L’interessante è proprio questo: io piango - ma piango veramente - e un attimo dopo sono il narratore; questo crea sia in me sia negli spettatori una sorta di risveglio: sono commossi anche loro, e io so che di lì me ne devo andare, perché se resto dentro il dramma faccio teatro. In questa fase il problema è quanta parte di dramma si può tener dentro a una struttura epico-narrativa. Questa è la sfida. (...)
Parallelamente a questi assoli, fai spettacoli legati a una memoria che cerchi di mantenere viva e che molto spesso risale agli anni della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Che rapporto c’è tra la narrazione e la memoria della Storia?
Il narratore è uno che inventa le cose di cui racconta, la sua è una memoria immaginifica, non fotografica, è una memoria che crea e rielabora i ricordi...
...e costruisce magari dei miti...
E’ un meccanismo più semplice. Vai a vedere un film, e alla terza volta che lo racconti non stai raccontando esattamente il film che hai visto: ci hai infilato frammenti di tue esperienze o ricordi, immagini di altri film, tentando di capire perché quel film ti ha così toccato. Questo è il racconto: quindi dal punto di vista storico è sempre un falso, però il racconto offre anche quella che Benjamin definisce la possibilità di redimere il passato. Attraverso il racconto puoi rivedere aspetti del passato che non avevi capito allora e non hai capito oggi.
E’ una problematica che avvicina l’esperienza della narrazione a quella della psicoanalisi...
Sì, forse la psicoanalisi non è altro che un grande campo di racconti: una pratica attraverso cui scopri delle cose raccontando... Tornando a una prospettiva storica, il passato prossimo della mia generazione, l’esperienza dei padri, mi ha sempre affascinato molto: perché ho la sensazione che ci sia un buco di memoria storica che viene riempito di retorica o di ideologia, che sia di destra o di sinistra non importa. Mi sembra che non sia stata elaborata un’oralità, un racconto, se non nel Calvino degli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale (Il sentiero dei nidi di ragno) o in Fenoglio. Non c’è stata un’elaborazione capace di far diventare quel passato qualcosa che possa arricchirci oggi, se non in termini di estremismo, di ideologie politiche. Cosa c’entra tutto questo con la narrazione? Non si può raccontare una cosa qualsiasi; anche le fiabe, chiaramente le racconto perché ci trovo dentro qualcosa. (...)
Qual è il punto in cui non puoi più raccontare?
Quando sei sopraffatto da quello che ti sta accadendo. Ci sono cose che non puoi dire, che sono indicibili per la loro potenza: a quel punto devi cantare oppure danzi. Finché riesci a raccontare, sei ancora vivo. Quando non ce la fai più, significa che sei vicino al momento della morte. Per esempio in Lear non sono mai vicino al momento della morte, perché racconto sempre.
Mentre nel Kohlhaas ti senti vicino alla morte?
Ci sono dei momenti in cui mi capita... Quello è il limite del racconto, che è comunque una mediazione tra un’intensità di emozioni e il linguaggio, ed è una mediazione che devi elaborare emotivamente e razionalmente, per articolarla secondo una sintassi. Ma a un certo punto l’emozione non riesci più a tenerla e diventa un suono, che viene fuori da una dimensione antica, arcaica. Danzi, danzi... (...)
Hai detto: "Finché riesci a raccontare, vuol dire che sei ancora vivo". Da un certo punto di vista, è la radice del teatro di Beckett.
E’ una verità profondissima, che vale per qualsiasi racconto: il raccontare è un differire la morte. L’atto del raccontare presuppone che tu in qualche modo l’esperienza l’abbia superata, se sei qui a raccontarla...
Questo non significa anche che l’esperienza, visto che l’hai sorpassata, è morta?
Ma nel momento in cui la racconti, la stai facendo rivivere. Max Frisch dice: "Un uomo fa un’esperienza poi racconta la storia della propria esperienza". Finché non la racconti, un’esperienza non l’hai fatta veramente. L’hai vissuta, ce l’hai dentro, ma quando puoi sentire di averla fatta, se non nel momento in cui tenti di trasmettere quell’esperienza a qualcun altro? Credo che il teatro sia questo: un gruppo di attori ha delle esperienze forti, sa di possederle e le vuole trasmettere. Se non la trasmetti, l’esperienza resta scritta nel tuo corpo ma non diventa un vero patrimonio immaginativo, neppure per te, finché non la elabori. Ed elaborandola la mistifichi. Per esempio, torni dalle vacanze e tenti di raccontare quello che hai fatto; e dopo due anni scopri che di tutte le vacanze racconti solo una cosa, che però è fondamentale; magari non l’hai fatta esattamente così, non era proprio di sera e forse lo scoglio non era esattamente quello, però ti sei creato una tua storia, che poi di solito si ingigantisce nel tempo. Il meccanismo della narrazione è questo.
Per leggere la versione integrale di questa intervista.
5. L’autobiografia
(con frammenti da una conversazione con Marco Paolini)E così ci siamo arrivati. L’autobiografia è certamente una chiave che differenzia radicalmente l’attore "umano" da quello virtuale. Da un certo punto di vista, un teatro semplicemente autobiografiaco, non è teatro: nel senso che eliminando il personaggio, ne elimina uno degli elementi costitutivi. Ma, da un altro punto di vista, il teatro è comunque una "messinscena dell’io". "Per il momento viviamo ancora estranei e celati a noi stessi. Per molte altre ragioni ci sarà necessario vivere da solitari e anche portare maschere - ci ritroveremo quindi male nella ricerca dei nostri simili. Vivremo soli, conosceremo probabilmente tutte le torture delle sette solitudini".
(Friedrich Nietzsche, 1885)A questo proposito può essere curioso notare che il prototipo moderno di teatro autobiografico sia lo stand up comedian alla Lenny Bruce - che parla in prima persona. Cioè una messinscena dell’io fondamentalmente giocata sul comico. O, per essere più precisi, che trova la sua nota dominante in una spietata autoironia, al limite dell’autodistruzione (che poi a sua volta fornisce il trampolino di lancio per attacchi satirici ancor più feroci - ma questo è un altro problema).
"Quando parlo, sulla scena, la gente ha l’impressione, spesso, che io m’inventi quello che dico lì per lì. Non è vero. Ho già in mente un sacco di cose che intendo dire; solo che non so in che ordine poi le dirò. Lascio che le idee si associno liberamente e che un argomento, un tem, un motivo tiri l’altro: è un sistema analogo al "monologo interiore" di James Joyce. Credo che uno sviluppi uno stile del genere a furia di parlare fra sé e sé. Non è che io conversi con me stesso ad alta voce ("Salve, Lenny, come stai oggi?"), ma si tratta del modo che uno ha di pensare". (Lenny Bruce, Come parlare sporco e influenzare la gente, Bompiani, Milano, 1974, p. 81) Il vero problema è piuttosto il rapporto verità/invenzione, fedeltà/infedeltà di questa messinscena dell’io. La sua ricchezza sta proprio nel grado di libertà che il performer riesce ad assicurarsi, nella distanza che pone tra se stesso e il personaggio che fa di se stesso. E - forse - in quello che il personaggio che fa di se stesso fa di lui.Un esempio di teatro "autobiografico" è quello che sta conducendo da diversi anni Marco Paolini con i suoi Album, monologhi teatrali che ripercorrono la vita del piccolo Nicola (che tanto per cominciare - a differenza di Paolini - non si chiama Marco, così come Michele Apicella non si chiama Nanni Moretti). Finora sono quattro puntate, che coprono praticamente un decennio: dal 1964 quando per la prima volta lascia la famiglia per andare in colonia (Adriatico) fino agli anni Settanta (con Aprile ’74 e 5), passando per Tiri in porta e Liberi tutti.
Un incontro fondamentale per capire gli Album è quello con le opere di Luigi Meneghello.
Meneghello dice: "Quando muore una lingua, non muoiono soltanto dei modi di dire le cose ma muoiono anche le cose". Parlando di aree al confine tra il vivo e il morto, Meneghello tira fuori qualcosa che mi riguarda. Qualcosa che riguarda la tomba dei miei nonni con le montagne davanti, con quella pietra che non stava mai ferma e quando ci camminavi sopra si sentiva tu-tum tu-tum tu-tum, e allora vien fuori tutta la storia delle armi dei partigiani nascoste là dentro, e dove è andato a finire mio mio zio, e tutta la storia della mia infanzia, e l’odore delle serre dove andavo a nascondermi terrorizzato dall’idea che venisse il padrone delle serre e mi cacciasse via... Perché da bambino avevo come posto segreto una serra di quelle dove si tiran su i fiori. Avete un’idea di quanto è tropicale l’atmosfera dentro una serra, di quanto può esserlo per un bambino?
Meneghello mi ha messo in moto gli intestini, mi ha restituito legittimo orgoglio di razza: questa parola qualche anno fa non la usavo, mentre oggi parlo di razza perché per me non è soltanto quella cosa che i razzisti usano per anteporla a chi ce l’ha diversa. Nel momento in cui è successo l’ennesimo cambiamento e non c’è più stato Pasolini a raccontarcelo - perché da un certo punto in poi nessuno ci ha più raccontato così bene che cosa stava cambiando - ci siamo ritrovati orfani anche di questo: di razza. Nel senso che oggi siamo tutti senza razza. E "razza" è qualcosa di sostanziale. E così l’idioma: non è soltanto una lingua da usare per non farsi capire, al contrario. Le cose contenute nelle parole sono piene di tracce, di sostanza, di materia. Raccontarle è un modo di toccarle: non è che si fanno resuscitare, ma ti vengono addosso, e a un certo punto può darsi che chi ti vede e chi ti ascolta in teatro senta che tu non sei soltanto uno come quelli, anonimo...
Per strada siamo tutti anonimi, tutti uguali, dalle scuole in poi. Ma in realtà non siamo tutti uguali. E allora io, che cosa ho da scambiare? Se ho qualcosa da scambiare e da barattare sul palco, davanti alla gente, allora è questo quello che vale... Vale, o può valere, la differenza: non perché io sia migliore, o abbia qualcosa di più. Io non voglio stare sul palco come ci stanno le star, i fenomeni, i miti, ai quali riconosciamo il carisma, una serie di qualità che li legittimano a stare sul palcoscenico. Per me il teatro non è il luogo dello show business: in teatro si sta sul palco con qualcosa di diverso, che non è quel tipo di carisma, ma che evidentemente è anche diverso dal non essere niente. E questa identità la cerco anche nell’immanenza, nella permanenza dei segni della razza. (...)
Come sono nati gli Album?
Senza un progetto, con il primo spettacolo, Adriatico, realizzato con il Teatro Settimo nel 1987. Io leggevo i racconti di Goscinny, quelli dedicati al Petit Nicholas, e li trovavo molto divertenti: è uno dei rari libri che scatenano il riso solo alla lettura. Ho pensato che sarebbe stato bello farne uno spettacolo, e ne ho parlato con Gabriele Vacis. L’importante era però mantenere la leggerezza dell’originale, che contrasta con la materialità della forma drammatica, del mettere in scena tutti i personaggi. Non avevamo modelli. L’unico era Dario Fo, ed era un modello dal quale dovevamo allontanarci. Dovevamo trovare una chiave plausibile per raccontare l’infanzia senza bambineggiare, mantenendo però la vivezza del racconto, il suo aspetto umoristico... Lo stile si è forgiato su questo. Non abbiamo scritto il testo. Per quaranta giorni di prove, ho sceneggiato verbalmente, su una lingua orale, senza il passaggio in italiano, e dunque senza imprinting letterario. Durante questo lavoro ci siamo naturalmente distaccati dall’ambientazione francese per trovare una materia italiana. Goscinny scrive negli anni Sessanta e sono riconoscibili i comportamenti psicologici dei genitori di quell’epoca. Nella forma teatrale abbiamo scelto di radicalizzare questa collocazione temporale, definendo un anno e un mese, il luglio del 1964, e abbiamo cercato una serie di riferimenti a quello che eravamo noi. Naturalmente, come ho già accennato, quella data non è stata scelta a caso: anche perché sia io sia Gabriele siamo del ’56, e nel ’64 avevamo l’età giusta per uscire dalla famiglia per la prima volta, andando in colonia. Quindi, mescolando i miei ricordi personali e quelli di altri, è nata la materia di Adriatico: la storia di questa bambino, Nicola, che va in colonia e incontra la signorina di colonia, che fa da deus ex machina ma anche da garante.
Gli Album sono anche un teatro della memoria...
Ho visto che c’è uno spazio per una forma teatrale di questo genere: l’unica limitazione è la capacità di elaborare nuove storie. Il meccanismo di ricerca degli elementi precisi della memoria si è ulteriormente sistematizzato e approfondito. (...)
Negli Album è confluito anche molto materiale autobiografico.
Mio e di altri. L’origine del metodo è questa: a partire dal semplice accenno di una merendina nel testo di Goscinny, per esempio, abbiamo fatto una lista ragionata di tutte le merendine dell’epoca: quelli che avevano pane-burro-marmellata, pane-burro-sale, pane-burro-zucchero, pane-buro-prosciutto, pane-burro-mortadella, quelli che avevano il Buondì Motta, quelli che avevano il Ciocorì, il Carrarmato Perugina, il Dofocrem, il Belpaese, il Formaggino Mio, il Bebè Galbani, i Ringo, i Togo, i Pavesini, il Brioss Ferrero all’albicocca, il gelato finto...
Adriatico non era nato come uno spettacolo per adulti ma per bambini. Forse può essere curioso raccontare la storia di questa trasformazione quasi indipendente dalla volontà dei suoi artefici...
C’eravamo talmente divertiti a farlo, era evidente che piaceva anche ai pochi grandi che lo vedevano insieme ai bambini... Era uno spettacolo destinato ai ragazzi, però pensato con rigore e con una serie di attenzioni al mondo degli adulti. Per esempio all’inizio di Adriatico si dà molta importanza al fatto di doversi alzare presto alla mattina per iniziare il viaggio, perché una volta il viaggio si iniziava solo la mattina presto: c’erano dei riti legati a queste cose. Portando in giro lo spettacolo, mi sono accorto che da parte degli adulti c’era una reazione, oltre che di divertimento, di emozione, di commozione, legato anche al riconoscersi e al rispecchiarsi in questa cosa. E c’era anche una tendenza ad allungare la lista dei particolari con una specie di cahier de doléances di tutto quello che si era patito nelle colonie. "Ti sei dimenticato di parlare dell’infermeria", "Ti sei dimenticato di parlare dell’alzabandiera", eccetera. Tutte memorie che ciascuno associava alla propria colonia. Naturalmente ci sono dei rischi di speculazione, in questi Amarcord tradizionali. Ma non abbiamo mai voluto fare un discorso generazionale, di nostalgia tout court. Però era interessante il fatto che un lavoro sui ricordi esatti facesse scattare questo meccanismo.
E però questo meccanismo può creare un problema: i fruitori degli spettacoli tendono a sentirsene beneficiari in modo esclusivo. E’ lo stesso meccanismo che usano i comici: quando una battuta per essere colta ha bisogno di un minimo sforzo mentale, gratifica lo spettatore perché lo fa sentire intelligente. La sua preoccupazione diventa: "Ma gli altri l’avranno capita?". Se non ci fosse la risata liberatoria di tutto il pubblico, resterebbe il dubbio; a casa, davanti alla televisione o alla radio, il dubbio potrebbe restare.
La stessa cosa accadeva per gli "Album". Chi aveva una certa età chiedeva: "Eh, ma come faranno i ragazzi a capire certe cose?". Ma ai ragazzi non gliene può fregar di meno! La fruizione di un racconto avviene in infiniti modi diversi. Quando mio nonno mi raccontava dell’Abissinia, io non avevo nessuna esperienza diretta dell’Abissinia né del servizio militare né dei leoni. Però il mio godimento della storia era totale, non avevo nessun bisogno di capire. Invece la trappola continua ad esistere, soprattutto per gli educatori: dopo aver visto Adriatico, gli insegnanti erano preoccupati perché pensavano di essersi divertiti più dei ragazzi, e dunque tendevano a negare il valore pedagogico dello spettacolo, proprio perché era troppo divertente.
A parte il fatto che lavori in teatro e non al cinema, e che segui sostanzialmente la biografia di un unico personaggio, Nicola, gli Album sono una specie di Heimat all’italiana...
La differenza principale è che gli Album sono nati senza un progetto: io non ho ancora deciso quale sarà il destino dei personaggi. Quando ho cominciato con Adriatico, la rievocazione attraverso il personaggio di Nicola mi era utile per trovare la chiave giusta, cioè la leggerezza. L’incorporeità dei personaggi è l’equivalente del gessetto rispetto ai colori della tela. La differenza tra uno schizzo e un dipinto. In letteratura la leggerezza segna probabilmente la specificità del racconto, in cui i personaggi sono soltanto accennati, rispetto al grande romanzo. In teatro questo può significare velocità, perché si può raccontare cambiando rapidamente scenario, moltiplicando i piani della narrazione. In Adriatico questa impostazione l’avevamo soltanto sfiorata; poi abbiamo deciso di mantenere il protagonista Nicola e così il suo mondo ha cominciato a spostarsi dalla colonia, dalle "Navi" di Cattolica dove è ambientato Adriatico, a un campetto di periferia, quello dove è ambientato Tiri in porta. Poi, a partire da Liberi tutti, lo scenario si allarga a una città di provincia, che è la mia. Tra l’altro, ho capito che quella città meno la nomino e meglio è, anche perché quello di cui parlo non è un luogo della geografia ma un luogo del tempo. Perché parlo sempre di cose finite, morte. Non potrei raccontare nello stesso modo una cosa viva. Se parlo di campetti, parlo di un modo di progettazione urbanistica che edificava a macchia di leopardo, quando si costruiva quasi senza piani regolatori. Dunque i campetti sono il segno dello sviluppo edilizio che caratterizza l’Italia del secondo dopoguerra e del boom economico. Almeno da dieci anni, ormai, le nuove lottizzazioni prevedono prima le opere di urbanizzazione - strade, fognature, impianti, eccetera - e le aree a verde rispetto a quelle edificabili e poi le superfici destinate a infrastrutture e servizi. E’ chiaro che in luoghi costruiti con questo metodo, i campetti non esistono più. Il campetto diventa allora un elemento storico, perché il modo in cui crescono e si allargano le città è completamente cambiato.
In questo modo, un po’ maniacalmente, prendendoci a volte qualche libertà, e facendo magari qualche errore, abbiamo cercato di costruire un universo che non fosse un bluff, dove i riferimenti storici e quindi narrativi fossero fondati e riscontrabili.
Dopo Adriatico, come hai deciso di proseguire?
Dopo Adriatico ci siamo innamorati di Meneghello e abbiamo fatto Libera nos a Malo. Ma io non volevo far morire i personaggi di Adriatico, Nicola e i suoi amici. Così ho fatto Tiri in porta, che è la continuazione di Adriatico, con tutti i rischi che i sequel comportano. Oltretutto Gabriele Vacis era impegnato in altri progetti, e mi sono trovato a essere autore, regista e attore. In realtà volevo parlare del luogo in cui vivevo e giocavo, avvicinarmi alla mia infanzia. Così ho parlato di un campetto, del calcio non giocato in campi regolari ma a una porta sola, con le reti che se il pallone va di là non te lo ridanno facilmente, con le automobili che rallentavano se ti vedevano giocare, e magari qualcuno si fermava a guardare - mentre adesso vanno anche mentre i bambini continuano a giocare.
Adriatico era un’isola felice, adesso cercavo una materia un po’ più rischiosa: allora ci ho messo dentro un mongoloide e un morto, legati a episodi della mia infanzia. Uno era un mio compagno di giochi, che è morto. L’altro era un matto - lo chiamavamo Tano Matto - che mi faceva molta paura. A quell’epoca i mongoloidi non andavano a scuola con gli altri: o non ci andavano o andavano alle differenziali. Questo Tano non era andato a scuola, e aveva sedici anni quando noi ne avevamo otto. Questi sei anni in più ne facevano una specie di toro, con cui potevi giocare, a certe condizioni. Ma c’era un rischio: giocare con Tano Matto era uno spasso, perché si rischiava di prenderne un sacco... Questa frequentazione con la diversità era molto normale.
Sei cresciuto in un paese?
In un quartiere di una cittadina, che era quasi un paese. Ho messo a fuoco Tiri in porta più lentamente, perché ero da solo. Alla fine è venuta fuori una cosa cattiva al punto giusto, in cui l’idea di una teatronovela con Nicola protagonista ha preso consistenza. Il destinatario erano ragazzi delle scuole medie, considerata tabù nel teatro-ragazzi.
Il quarto album, Aprile ’74 e 5, segna in un certo senso un’evoluzione rispetto ai precedenti. Con Aprile ’74 e 5 sto certamente pagando un prezzo. Finché parlo di infanzia o di adolescenza, come narratore posso anche permettermi di adottare il punto di vista di chi osserva gli altri. E poi io sono sempre stato grande. Anche voi: quando siete stati piccoli? Mai. Il punto di vista cresce con noi, la macchina da presa è sempre lì, il film l’ho sempre visto all’altezza dei miei occhi. Gli altri intorno si muovono, crescono, cambiano... Finché racconto gli altri, posso giocare finché voglio, perché in ogni caso sto raccontando a me stesso. Ma arrivato al quarto Album, dovevo tirar fuori Nicola. Ho provato a pensare com’era Nicola, e mi sembra che fosse uno che parlava sempre: finché non ha trovato qualcuno che lo facesse star zitto, era insopportabile. Allora mi son detto: "Be’, un po’ la devono pagare anche quelli che vengono a vedere lo spettacolo, l’entrata in scena di Nicola".
Infatti, rispetto agli Album precedenti, Aprile è uno spettacolo meno corale, maggiormente concentrato intorno alla figura del protagonista-narratore.
Sul coro va tenuta presente un’altra considerazione. A me non bastano due o tre mesi per finire uno spettacolo. L’anno scorso, quando ho presentato i primi tre Album a Milano, uno spettacolo aveva sette anni, uno cinque, il più fresco due. Quest’anno, con Aprile, arrivo a Milano con lo spettacolo in prima. E succede qualcosa di fisiologico. Come ho detto, c’è lo schizzo dei personaggi, ma c’è anche lo schizzo dell’impianto. Non è una questione di finitura, non si tratta di fare altre prove. Quando preparo uno spettacolo, devo fare in modo che sia preciso, che abbia delle caratteristiche professionali, ed è evidente che non avrei saputo scriverlo in un altro modo; poi però, facendolo, troverò sicuramente la strada per far rientrare altre cose nello spettacolo, per esempio la molteplicità dei punti di vista, la coralità. Ma arrivato agli anni Settanta, in ogni caso, non posso più limitarmi al ruolo di corifeo, di chi guarda agire gli altri. Sento la necessità di far partecipare Nicola. Dietro questa esigenza, c’è un problema di morale della narrazione, se possiamo definirla così. Esiste ovviamente un modo di raccontare il passato; ma poi, quando finisce il nostro passato e comincia il presente? Il problema ha iniziato a porsi proprio nel ’75: quell’anno potevo ancora appartenere al passato, e tuttavia molte delle cose di cui parlavo non erano chiuse, non erano morte. Con Aprile sono arrivato al confine tra i vivi e i morti. Finora negli Album ho usato quello che chiamano "il principio del Barolo e del Brunello di Montalcino": penso di aver bisogno di vent’anni di decantazione per poter raccontare una storia. Sono arrivato al ’75: adesso, con regolarità, potrei preparare ogni due anni, più o meno, un nuovo album, ma non vorrei accomodarmi su questa routine. Infatti la tentazione, con Aprile, è quella di non chiudere del tutto il coperchio della pentola, per vedere quello che di quella storia arriva fino a oggi: perché ho la sensazione che non tutte le cose di cui parlo sono morte. E’ anche per questo che non potevo permettermi di raccontarle come le racconta Meneghello in Libera nos a Malo, che è l’impietosa, straordinaria, lirica, divertente, tragica narrazione di un mondo chiuso e finito. Io racconto un mondo che può apparire così, anche perché bisogna fare un certo sforzo per renderlo tale, ma contemporaneamente tengo i fili del presente.
C’è un’altra ragione, più profonda, della crescente importanza di Nicola. Perché proprio in quegli anni, nel momento esatto in cui è ambientato Aprile, c’è stato qualcun altro che ha iniziato a raccontare quella stagione, qualcuno con cui bisogna fare i conti: Nanni Moretti. In Io sono un autarchico (che in realtà è leggermente successivo, del ’76) Moretti racconta nel presente, e racconta di sé in prima persona, con un alter-ego che è Michele Apicella. Moretti racconta in quel momento, con la sua faccia di quegli anni. Non è filtrato all’indietro, non racconta: "Quando ero...". E poi continua quel racconto con assoluta precisione: così, da allora, ogni tanto arrivano queste sue testimonianze. Per me i film di Moretti costituiscono un punto di riferimento necessario per il mio nuovo lavoro. Aldilà del fatto che certe cose - soprattutto a distanza di anni - possono piacermi o non piacermi, posso leggere il lavoro di Moretti come un altro percorso, diverso da quello di Heimat, che non nasce da un progetto unico ma che però puntualmente ritorna sulle cose, con coraggio. E mi stimola. (...) Allora, per tornare ad Aprile, avrei potuto fare un lavoro sugli anni Settanta parlando semplicemente della politica. Ma sentivo il rischio di trattare la politica come avevo trattato il calcio in Tiri in porta o l’oratorio in Liberi tutti: come uno degli animali da mettere nella gabbia delle cose, neutralizzandolo, magari facendone un oggetto di consumo per reduci. D’altra parte non posso neppure mettermi a urlare, usare il palcoscenico per parlare dei miei problemi personali. Allora ho semplicemente cercato di costruire una storia, fin dove ne sono capace. Quando non ce la faccio più, ogni sera leggo una lettera che ho scritto quel giorno: mi sono dato la regola di scrivere quotidianamente una lettera al pubblico, un comizio di due minuti. Con Aprile faccio un film di un’ora e mezza, e dunque mi sono autolegittimato a fare questo comizio due minuti. Il messaggio. Siccome siamo tornati alle vecchie categorie, siccome non siamo più capaci di capire il messaggio, allora lo tiro fuori, lo rendo esplicito. E’ uno spot, per dire quello che sento, come mi sento oggi. Non so se sia legittimo, ma mi sono concesso questa presunzione perché se sono riuscito a stare nella storia, con tutto l’arco degli anni che ho nominato, dev’esser chiaro che c’è qualcosa che mi riguarda ancora, di tutto questo.
Hai accennato al tema della legittimità.
Noi attori dobbiamo avere qualcosa che ci autorizza a dire delle cose, dobbiamo conquistarci la legittimità di testimonianza, perché di testimoni occasionali e gratuiti, di millantato credito non ce n’è bisogno. Ma come legittimare la testimonianza? Non ho una risposta precisa. Penso che c’entri la razza, nel senso di una specie di ginnastica che si fa con gli antenati, con la storia di quelli che ci eleggiamo a padri, spesso andando in cerca di qualcosa di un po’ meno profano, di un cuore che non è necessariamente visibile all’esterno, che non è barattabile. Non occorre che sia completo, non è una denominazione di origine controllata, è un punto di arrivo. Nessuno di noi ha questa legittimità di testimonianza in partenza; però dentro al teatro (e non soltanto dentro al teatro) ci sono le occasioni e i tempi e le circostanze per costruirsela. Si può arrivare a costruirsi questo cuore invisibile marcando delle differenze, e quindi costruendo un’identità. Ciascuno di noi ha dei brandelli di cose che gli appartengono; non sono tutte chiare in partenza, e non so perché alcune ci appartengano più di altre: sono le ferite, le cicatrici della vita, ma anche le feste, o un modo di ballare, qualcosa che in parte abbiamo già ma in parte scegliamo. Perché se non si sceglie si resta audience, se si sceglie si fa gli attori.
Altri materiali sul lavoro di Marco Paolini li puoi trovare nel volumetto Quaderno del Vajont di Marco Paolini e Olviero Ponte di Pino, Einaudi, Torino, 1999, che accompagna la cassetta Vajont 9 ottobre '63.
Nota bibliografica
Fondamentali per la stesura di questo testo sono state le conversazioni con Sandro Lombardi, Romeo Castellucci, Marco Baliani, Marco Paolini e Moni Ovadia (egregiamente trascritte da Mariolina Vatta): da esse ho liberamente estrapolato alcuni brani che certamente non rendono conto della complessità e della ricchezza della loro esperienza.
Oltre ai testi esplicitamente citati e menzionati, mi sono stati utili:
Acteurs. Des héros fragiles, cur. Arlette Namiand, "autrement", série mutations, n. 70, maggio 1985.
Jeune Théatre, "Revue d’esthétique", n. 26, 1994.
"Teatro e Storia", n. 4, 1988, e n. 5, 1988.
Aslan, Odette (cur.), Le Corps en Jeu, CNRS Editions, Parigi, 1994.
Baliani, Marco, Pensieri di un raccontatore di storie, "Quaderni dell’animale parlante numero 2", Comune di Genova, Assessorato istituzioni scolastiche, ufficio studi, Genova, 1991.
Barba, Eugenio, La canoa di carta. Trattato di Antropologia Teatrale, Il Mulino, Bologna, 1993.
Brooks, Peter, Trame, Einaudi, Torino, 1995.
Carrère, Emmanuel, Io sono vivo e voi siete morti. Philip Dick 1928/1982. Una biografia, Theoria, Roma, 1988.
Guerrieri, Gerardo, L’attore, presentazione di Vittorio Gassman, Millelire. Stampa Alternativa, Viterbo, 1992.
International School of Theatre Anthropology diretta da Eugenio Barba, Anatomia del teatro. Un dizionario di Antropologia teatrale a cura di Nicola Savarese, La casa Usher, Firenze, 1983.
Nietzsche, Friedrich, Come si diventa ciò che si è. Ecce Homo e altri scritti autobiografici, introduzione a cura di Claudio Pozzoli, Feltrinelli, Milano, 1994.
Wilshire, Bruce, Role Playing and Identity. The limits of theatre as metaphor, Indiana University Press, 1982, 1991.
Zarrilli, Philip B. (cur.), Acting (Re)Considered, Routledge, Londra, 1995.
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|