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Il racconto
Conversazione con Marco Baliani (1995)
a cura di Oliviero Ponte di Pino
Un frammento di questa conversazione è stato pubblicato sul Patalogo 18
copyright Oliviero Ponte di Pino, 1995, 1999
 

Chi ti ha formato come attore?

Gli spettatori che mi hanno formato sono i bambini.

Prima vorrei fare un passo indietro. Che tipo di formazione hai avuto? Da quali esperienze sei partito?

Studiavo architettura, agli inizi degli anni Settanta. La più lunga occupazione della facoltà, a Roma, a Valle Giulia, ha coinciso con l’anno in cui mi sono laureato. Erano molto attivi i movimenti extraparlamentari, c’era un intenso dibattito politico e molto desiderio di usare l’architettura nel sociale: ricordo in particolare il lavoro di Lotta Continua sulla qualità della vita nella città. Quindi il nostro lavoro di aspiranti architetti era più orientato verso l’urbanistica, per esempio al problema dell’occupazione delle case, delle carceri, e in generale delle situazioni di disagio.

Quindi si trattava di un lavoro proiettato nel sociale, e sulla problematica della metropoli...

Sicuramente non avevamo la campagna come modello, anche se all’epoca era viva l’utopia della comune... Io stesso ho vissuto gli ultimi due anni a Roma in una comune, che poi ha tentato una via di mezzo tra la campagna e la città, ma l’esperimento è fallito.

I miei ultimi anni ad architettura erano anche quelli in cui in facoltà operavano gli ultimi creatori happening. Lì c’erano stati gli Uccelli, un gruppo di cui faceva parte - ahimé - anche Paolo Liguori, detto "Straccio", allora legato a Lotta Continua: erano un po’ dei situazionisti, facevano interventi estetici legati all’architettura, occupavano monumenti pubblici e facevano strani giochi. C’era un forte elemento di politicizzazione, con Lotta Continua, Potere Operario e altri gruppi...

...ma anche un’attenzione a quelli che possiamo definire happening o performance che ricordano l’Agit Prop.

L’occupazione di architettura è durata otto mesi, in pratica un anno. Si formò un gruppo che aveva sostanzialmente la funzione di sollazzare gli occupanti: io ho cominciato così a fare teatro. Organizzavamo veri e propri happening molto performativi. Non avevamo nessuna idea compiuta di teatro, ma mettevano insieme saperi molto diversi, c’era chi sapeva suonare strumenti eccetera. Si lavorava magari un mese per creare un evento, che il più delle volte aveva un valore puramente estetico. Una volta fingemmo per esempio di dover organizzare un grande pranzo paraistituzionale per una convention di professori di architettura e convincemmo la più grossa ditta romana di distribuzione dei pasti a portarci un buffet luculliano per settecento persone... Ma non c’era nessuna convention, la facoltà era occupata!

Ci cascarono?

Naturalmente, e ancora oggi non so chi ha pagato quel conto, erano milioni...

Questo è l’inizio. Poi come si è sviluppata la vostra attività teatrale?

Da questo gruppone di una cinquantina di persone si formò un gruppo più ristretto. Eravamo una ventina e cominciammo a fare tutti i Festival di Democrazia Proletaria e le Feste dell’Unità. In pratica, portavamo in quelle situazioni le stesse cose che avevamo elaborato dentro la facoltà. E’ significativo gli unici momenti teatrali creati dentro la facoltà fossero legati a delle fiabe, per esempio I vestiti nuovi dell’imperatore. Lette in chiave politica, naturalmente, perché ruotava tutto sull’idea del potere svelato attraverso il gioco del travestimento del teatro. Quell’estate girammo questi festival, molto proletari, spesso in borgata. E per la prima volta incontrammo un pubblico.

A questo punto, siamo...

...nell’estate del ’75. In quello stesso anno in facoltà erano venuti Dario Fo e Paolo Poli, facevano dei pezzi dei loro spettacoli ma anche delle chiacchierate, anche se non in forma di stage. Sono stati i primi momenti in cui ho potuto confrontarmi con il teatro vero e proprio. Lo stesso anno andai in vacanza a Vieste, con tutta la banda: lì casualmente teneva uno stage Carlo Formigoni, uno dei fondatori del Teatro del Sole di Milano. Per me è stato un maestro: grazie a lui ho cominciato a pensare a una disciplina, a crearmi l’idea che se volevo fare questo lavoro dovevo avere una disciplina. E’ stato l’incontro determinante: tornando dopo quell’estate, ho deciso che avrei fatto teatro. Nel novembre del ’75 formammo il gruppo Ruotalibera, dedicandoci esclusivamente al lavoro con portatori di handicap, cioè con bambini disadattati. Era un lavoro decisamente legato al sociale, nei quartieri più proletari di Roma, spesso gratuito. L’idea di fare spettacoli era ancora molto lontana, erano piuttosto situazioni vicine a quella che allora si chiamava animazione. I primi tre-quattro anni con Ruotalibera sono stati dedicati esclusivamente alla formazione. Poi cominciammo a fare formazione per studenti...

Quindi formavate altre persone...

Sì, le formavamo a un’espressività che neanche noi possedevamo completamente.

Mi stai dicendo una cosa curiosa: la tua unica esperienza di formazione teatrale, da un punto di vista tecnico, è stato quel seminario con Carlo Formigoni...

Un’esperienza brevissima fra l’altro, un solo mese...

A quel punto sei tornato a Roma, e insieme ad altri avete iniziato a fare un’attività di formazione con altre persone.

Inventandoci completamente tutto... Dal punto di vista dell’invenzione dei linguaggi, è raro che si possa ricreare una tale situazione di sperimentazione. Facevamo spettacoli teatrali, cercando di orientarli in rapporto al tipo di pubblico, per bambini di giorno e per adulti la sera. Mentre dal punto di vista di quella che si chiamava professionalità eravamo a zero, da quello dell’energia e dei linguaggi che mettevamo in moto, abbiamo sperimentato veramente tanto. Abbiamo avuto il permesso di farlo, chiaramente pagandolo di persona, perché in quel periodo non c’era un’istituzione che desse i soldi per fare queste cose. Però si cominciavano a creare delle aperture: un Comune cominciava a fare una rassegna teatrale, un altro magari ti finanziava un laboratorio per la scuola media superiore, un altro ancora ti finanziava un lavoro nel carcere...

Erano quasi tutte esperienze proiettate nel sociale, mentre mi sembra che gli spettacoli veri e propri fossero un po’ un sottoprodotto di quest’attività.

Non era di quello che si pensava di vivere, all’inizio. Lo scarto è cominciato alla fine degli anni Settanta, nel ’79-80, per diversi motivi. Innanzitutto ognuno di noi, magari nelle forme più strane, aveva maturato un linguaggio. Quindi il gruppo si è spaccato: da un lato chi voleva continuare a fare lavoro nel sociale; dall’altro chi, come me, voleva cominciare a pensare di produrre spettacoli per uno spettatore, senza limitarsi a fare ogni volta un lavoro pedagogico.

Di questa esperienza nel sociale, che cosa si è sedimentato e sopravvive nel tuo lavoro attuale?

Una sola cosa, credo. Perché l’uso di linguaggi molto diversi aveva allora a che fare con una pratica di grande circolazione di idee. Andavo a vedere centinaia di spettacoli. E lì c’è stato un altro incontro importante, quando a Roma vennero Eugenio Barba e l’Odin Teatret e io vidi il loro primo spettacolo, Min Fars Hus: per me fu sconvolgente, il giorno dopo ero con loro, insieme ad altre quaranta persone, a fare esercizi fisici che non avrei mai pensato di fare. Erano gli anni in cui arrivava per esempio il Living Theatre, e andavamo a vedere tutte queste cose. Ma se devo citare una cosa che mi è rimasta dall’esperienza di quel periodo, è l’importanza della comunicazione: ho cominciato ad apprendere che l’artista non è chi elabora linguaggi legati all’estetica, ma dei linguaggi necessari per comunicare qualcosa a qualcuno; quindi il lavoro dell’artista consiste nel mediare tra le sue creazioni, sapendo che c’è qualcuno che lo guarda.

Quindi dal punto di vista dei militanti, la tua è stata la scelta di chi privilegiava la sfera estetica rispetto a quella politica; dal punto di vista artistico, invece, c’era la volontà di non garantire totale autonomia alla sfera estetica, riconducendola sempre all’interno del processo di comunicazione.

Non c’è solo questo. C’è anche e soprattutto il fatto che la sfera estetica è secondaria rispetto a quella etica. Sono parole grosse, forse troppo, ma voglio dire che per me è necessario che lo spettatore entri nello spettacolo. Non è possibile pensare uno spettacolo per me, è necessario pensarlo per me e per qualcun altro, e devo anche sapere che questo "qualcun altro" cambia: uno spettacolo fatto in certe condizioni sociali non è uguale che se lo fai in un’altra situazione. Andavamo a fare spettacoli nei posti più inverosimili, perché accettavamo tutto. Senza luci o con le luci, di giorno o di sera, all’aperto o al chiuso. Via via, ti abituavi al fatto che lo spazio diventava qualcosa da usare, e capivi che il tipo di comunicazione cambiava a seconda di come disponevi il pubblico. Assumeva quindi grande rilevanza lo sguardo dello spettatore, che nel tempo diventava anche un elemento drammaturgico: allora non usavamo certo termini come questo, non sapevamo neanche che cosa fosse la drammaturgia, però cominciavamo a porci una serie di problemi.

In quegli anni ero in polemica, per non dire scontro, con Giuseppe Bartolucci (che è tra l’altro una persona carissima che mi ha aiutato molto) e in generale con tutta l’avanguardia romana. Io li accusavo di essere volutamente criptici, non mi interessava una sperimentazione che partisse dall’idea che il pubblico poteva esserci o non esserci. Erano anni in cui si teorizzava tra l’altro che il pubblico non fosse altro che un voyeur...

Però mi sembra che un "pubblico" che all’inizio era il sociale inteso nel senso più ampio, a trecentosessanta gradi, da un certo punto in poi sia andato precisandosi: è diventato il pubblico che ci si trova di fronte quella sera. Come se ci fosse stato, più che un restringimento d’orizzonte, una sua concentrazione, una messa a fuoco più precisa.

Direi di sì, quindi perdendo qualcosa sul versante del sociale. Ma mi è rimasta dentro una fibrillazione. Continuo a pensare che il teatro che facciamo è piccolo, che dovrebbe uscire dal suo ghetto, che dovremmo trovare formule diverse di attacco, per andare incontro ai bisogni del sociale.

Dunque c’era anche una contrapposizione rispetto a quelli che operavano nell’avanguardia, concentrandosi sulla ricerca sul linguaggio e portandola alle sue estreme conseguenze, indipendentemente dalla competenza dello spettatore. Anche se, con uno sguardo retrospettivo, la differenza non pare così netta: forse c’era chi postulava uno spettatore ideale, in grado di decodificare qualsiasi messaggio, mentre tu avvertivi la necessità di stare attento a chi avevi di fronte in quella determinata situazione.

Mi ricordo una lezione di Barba che mi impressionò molto. Diceva: "Dobbiamo pensare che lo spettatore è sempre composto da un bambino, da una vecchia, da un addetto ai lavori e da un nostro amico". Cioè, devi anche pensare che nessuno conosce l’opera che vai a fare, che non devi dare per scontato che gli spettatori già abbiano letto il testo, o che sappiano cosa li aspetta eccetera...

...o che possiedano tutti gli strumenti linguistici per decodificare il tuo linguaggio...

...e le forme che stai usando. Allo stesso tempo però devo aggiungere che ero affascinato da quella libera sperimentazione di linguaggi. E’ grazie ad essa che secondo me oggi abbiamo a disposizione un patrimonio enorme. E lo possiamo usare grazie alla sperimentazione estrema che è stata fatta in quel periodo.

A questo punto siamo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. E per te inizia a porsi il problema dello spettacolo.

Il 1980 è stato l’anno della mia prima regia. In precedenza dominava l’ideologia della regia collettiva; quindi la prima regia significa cominciare a distinguere all’interno del gruppo un occhio diverso dagli altri. Questo ha creato molti problemi: c’era chi rifiutava la regia "perché siamo tutti uguali, tutti allo stesso livello", poi c’era l’idea della cooperativa, anche gli stipendi erano tutti uguali... Erano anni di egualitarismo spinto, nel bene e nel male, però si cominciava a capire che alcuni attori avevano maturato certe cose e altri no. Insomma, il gruppo mi concesse la possibilità di fare alcune regie, tra l’80 e l’84, con due belle esperienze. Naturalmente stiamo sempre parlando di teatro ragazzi, con qualche puntata nel teatro adulto.

Del resto quello del teatro per ragazzi era il mercato per cui lavoravate.

Era un mercato che si stava creando in quegli anni, una novità che prima non esisteva. Dunque ci sono state le due esperienze cui accennavo. La prima è l’incontro con Dominic De Fazio, un’altra chiave di volta per quello che riguarda il lavoro dell’attore. Fino a quel momento lavoravo intuitivamente: per esempio tutto quello che riguarda il lavoro sensoriale o stanislavskiano in parte già lo facevo, qualcosa avevo letto, ma senza mai aver avuto una teorizzazione.

Anche se le esperienze che avevi fatto fino a quel momento si muovevano in una direzione molto diversa da quella del realismo stanislavskiano.

Più vicina alla Commedia dell’arte, usavamo più la maschera del volto, era un approccio al personaggio più da fuori che da dentro.

Dunque era un lavoro che privilegiava l’espressività, ma che non lavorava poi sulla psicologia.

Che veniva rifiutata da tutti i punti di vista. Dall’Actors’ Studio De Fazio venne a Roma e fece un corso molto lungo. Lo seguii come uditore, perché non avevo fatto in tempo a entrare come allievo. Rubai molto da quell’esperienza. E’ stato molto importante vedere all’opera il pragmatismo americano, certamente più funzionale al cinema che al teatro, più adatto ai primi piani e a creare una microsensibilità che non alla grande platea di uno spettacolo dal vivo. Però lì ho cominciato ad affrontare il discorso del personaggio, della sua interiorità, non in astratto ma nell’azione fisica e concreta. In qualche modo questo mi ha fatto ritrovare il percorso precedente, cioè Barba, Carlo Formigoni, eccetera. Al primo posto c’era sempre la fisicità, solo che là era una fisicità rivolta all’esterno, mentre con De Fazio aveva a che fare con l’interiorità del personaggio. Insomma, in quel periodo questi due mondi si sono incontrati. Ho cominciato a lavorare molto nella direzione degli attori.

La mia prima regia è stata Rosa e celeste, poi ho fatto Oz, che vinse il premio StreGatto e che è stato anche fatto molto in giro, anche fuori dall’Italia. Già cominciavo a lavorare all’idea di regista-autore, perché scrivevo in parte i testi, che però nascevano sempre durante il lavoro...

...da un’elaborazione collettiva.

Negli anni Ottanta ogni anno riuscivo a fare due regie con il mio gruppo, poi ho cominciato a fare regie con altri.

Sempre sul versante soprattutto del teatro ragazzi?

Sì, anche se poi erano spettacoli che, come Oz, sono andati più in serale che per ragazzi. Perché era un lavoro durissimo: la storia di quattro detenuti che si ribellavano attraverso la lettura del Mago di Oz, appunto. A metà degli anni Ottanta mi sono arrivate altre proposte. Per esempio da parte del Festival di Graz, lo Steirischer Herbst, dove feci uno spettacolo che non era più per ragazzi; mi sentivo abbastanza maturo per affrontare questa esperienza, e mi sentivo più libero: perché nel teatro ragazzi hai davanti una platea che o la tieni con il ritmo o muori. I ragazzi non hanno nessuna educazione teatrale, quindi lavorare con loro è un ottimo campo di insegnamento per un attore...

...perché non puoi mai lasciar calare l’attenzione.

Mai, assolutamente. Io penso che sia allo stesso livello dei giullari nel medioevo. Sia in termini di testo che di ritmo che di presenza devi essere assolutamente lì, sempre: se cali non recuperi più, e sono mazzate, non arrivi alla fine dello spettacolo. Si ribellano, fischiano, se ne vanno, applaudono, chiacchierano, fanno di tutto tranne che seguirti...

Per un attore è questione di vita o di morte.

Ti giochi tutto. Quindi è una grande scuola, ma se fai solo quello muori, perché ti abitui a dei ritmi che escludono la dilatazione del respiro, le pause, il silenzio, i vuoti... Soprattutto i ragazzi delle nuove generazioni. E’ affascinante vedere nel tempo che cosa sta succedendo: le generazioni sono sempre meno capaci di rispettare il vuoto e il silenzio, ormai è la comunicazione è tutta così, essenzialmente televisiva... Lavorando per un pubblico diverso, adulto, ho cominciato a lavorare su ritmi più dilatati, e quindi il problema del tempo è diventato importante. In quel periodo ho cominciato a lavorare sulla narrazione...

Che è uno dei temi di fondo del tuo lavoro. Allora è interessante vedere come è nato questo interesse per la narratività.

Sempre con i bambini. Mi fecero gestire un progetto per i bambini disadattati del centro storico di Genova; c’erano un artista visivo, un musicista eccetera, e ognuno andava lì con le sue competenze. Era un laboratorio aperto, non è che con questi bambini si dovesse riuscire a...

Ma che tipo di bambini erano?

Bambini con famiglie a rischio, con genitori tossicodipendenti, oppure emigrati, o poverissimi...

Quindi non si trattava di bambini handicappati...

No, erano bambini normalissimi, che però provenivano da ambienti familiari molto a rischio. Uno dei problemi centrali era il cosiddetto "calo d’attenzione". I pedagogisti che ci seguivano dicevano: "Sono bambini che non riescono a concentrarsi su una cosa, anche la più bella del mondo, per più di sette minuti". Allora cominciammo a fare degli esperimenti: io mi sedevo e vedevo se arrivavo a dieci minuti, a dodici, a tredici... E alla fine, con questi bambini, sono arrivato a venticinque minuti: per i pedagogisti era un miracolo, dicevano: "Non è possibile...".

Come sei riuscito a passare da sette minuti a venticinque?

Non so... Giorno per giorno scoprivo qualcosa. Raccontavo loro le fiabe più popolari del mondo, come Biancaneve, cioè racconti che in qualche modo forse già conoscevano o di cui avevano sentito dire.

E la prima volta Biancaneve durava sette minuti mentre l’ultima venticinque?

Be’, la prima volta durava sette minuti perché non finiva, a un certo punto vedevo che era inutile continuare. Ma tutte le volte che capitava, in qualche modo non era colpa loro, perché capivo dove avevo sbagliato: poteva essere un problema di ritmo, una pausa, magari m’ero come assentato, avevo guardato da un’altra parte... Lì ho cominciato a lavorare sul racconto... Anche se, risalendo all’indietro, già negli anni Settanta in molte iniziative di animazione, nei parchi, io raccontavo delle storie, anche se non avevo mai elaborato una pratica. L’ho cominciata lì, e questo laboratorio è durato quasi sei mesi: dunque è stato un lavoro "scientifico", nel senso che avevi la possibilità ogni giorno di fare delle verifiche. Era una situazione molto libera dal punto di vista istituzionale, perché non avevamo il compito di educare questi bambini: si trattava semplicemente di vedere che cosa accadeva tra il portatore di un’esperienza e loro. Finita questa esperienza, ho cominciato ad applicare le poche cose che avevo capito ad altri, in stages per attori, per giovani che uscivano dalle scuole di teatro, per giovani studenti, per insegnanti...

Dove insegnavi sempre tu... Praticamente, fin dall’inizio della tua carriera, hai avuto più esperienze come pedagogo che come studente, sei stato più maestro che allievo. Non è che in situazioni di questo genere gli allievi rischiassero più del professore?

Ne sono certo, li ringrazio tutti e spero di non aver fatto disastri. E certamente se non ci fossero stati loro... Perché spesso grazie a loro ero costretto a elaborare certe mie intuizioni, e capivo che quella era una strada completamente sbagliata, e magari a loro nel frattempo era successa una piccola catastrofe. Non ero il professore con una sua metodologia, sperimentavo... Sono stati anni di grande sperimentazione, molto oscuri. Lavorando con loro, pulivo il mio lavoro sulla narrazione. E ho cominciato a girare con queste fiabe: all’inizio erano solo fiabe, ne ho ancora tre o quattro in repertorio...

Che fiabe sono?

Le ho create io, l’ultima è Frollo, la storia di un bambino di pasta frolla. Sono fiabe metropolitane, che ricordano Italo Calvino.

Le hai trascritte?

No, ho provato a scriverne una, ma non aveva più niente a che vedere con quello che raccontavo in scena... Sono fiabe che hanno dentro tutti tempi teatrali, non sono riuscito a trascrivere neanche la mia versione del Kolhaas.

E come le inventavi, queste fiabe?

Rubando qua e là, erano rimasugli, rielaborazioni personali...

Sulla scena raccontavi semplicemente queste tua fiabe?

Seduto su una sedia. La sedia l’avevo scoperta come un limite, un ostacolo che mi davo. Se vuoi, era una forma: non mi alzavo mai dalla sedia.

Insomma, mettersi seduti su una sedia e raccontare...

Vestiti di nero, con una sola luce.

Eliminando tutto ciò che era estraneo alla voce narrante.

All’inizio non era così chiaro...

Però a un certo punto hai dato questa forma al racconto.

Per definire un modo di lavorare "estremo", per non dire estremistico: una sedia e basta. Un grado zero della narrazione.

Il primo problema che si pone passando dal teatro alla narrazione è il rapporto tra la voce narrante e i diversi personaggi. Come lo risolvevi nelle fiabe?

In primo luogo la fiaba è una struttura antipsicologica, a differenza di un racconto come Kolhaas o di un testo come Re Lear. E dunque sei più libero, la struttura è anticonnettiva e antipsicologia: in tre, quattro pagine hai descritto un mondo, una vita intera. Puoi sbizzarrirti. Non c’è un passaggio logico che spieghi perché un personaggio fa un’azione e subito dopo ne fa un’altra che sembra in contraddizione con la prima. Lavorare sui personaggi in una fiaba è una gioia pura: sono facce, intuizioni, gesti, voci che ti vengono...

Dunque non era una semplice lettura, c’era una caratterizzazione dei vari personaggi, anche se tutta basata sull’esteriorità.

Ma come sempre quando l’esteriorità è portata a buoni livelli diventa interiorità: è la Commedia dell’arte... Con la maschera puoi creare cose strepitose. Lo stesso discorso vale anche per i paesaggi: lavorando sulla fiaba ho capito che qualsiasi descrizione non esiste se non in funzione di chi la vede. Dunque un paesaggio cambia se il personaggio ha qualcosa dentro, un personaggio che si porta dentro un lutto ti fa vedere un paesaggio con colori diversi da quando ha finito di far l’amore. Inoltre andavo scoprendo che cosa fosse il narratore esterno; fin dall’inizio creavo una convenzione, sedendomi in un certo modo e cominciando: "Tanti anni fa...", oppure "C’era una volta...". Era chiaro che stavo raccontando una storia. Se lo spettatore non si alzava dicendo: "Ma no! Che teatro è, con l’attore che se ne sta seduto su una sedia?", se riuscivo a catturarlo nei primi cinque minuti, la convenzione era molto chiara: io raccontavo perché ero uno sapeva la storia.

Creare questa convenzione offre già una chiave perché il narratore possa entrare e uscire dai vari personaggi...

Il pubblico te lo permette, lo spettatore ti dà credibilità... Quella che do ai vari personaggi è sempre una caratterizzazione minima, non mi ingabbia eccessivamente, perché altrimenti diventa teatro.

Ma per evitare questo rischio assumono importanza il fatto di restare seduto su una sedia, la luce unica, il costume nero...

Tutto questo ti obbliga a ricordarti che stai lì in quel modo. Inoltre la figura del narratore esterno è importante perché ama tutti i personaggi... In questo periodo c’è stato anche l’incontro con il saggio di Benjamin "Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikola Leskov", in Angelus Novus, che mi ha aperto un mondo. Ho cominciato a dare una veste teorica al mio lavoro sulla narrazione, ho iniziato a capire che forse come narratore potevo avere un ruolo sociale diverso e ritrovavo qualcosa del discorso sul sociale da cui ero partito.

Forse va aggiunto che il pubblico capisce immediatamente la convenzione del narratore a cui accennavi prima, perché la narratività è profondamente radicata nella nostra civiltà, o forse addirittura nell’essere umano.

E’ antropologicamente inscritta. E’ incredibile: nonostante la televisione, nonostante tutto questo sistema di comunicazione, la narratività sembra in qualche misura antropologicamente innata.

Per cui diventa possibile agganciarsi a questo substrato antropologico.

Sì, secondo me sì. Da lì per me è iniziata una sfida: vedere fino a quale livello si potesse portare il lavoro sulla narrazione. Kolhaas, il primo lavoro che ho fatto in questa direzione dopo le fiabe, è stato un tentativo di passare, partendo da una letteratura poeticamente alta, a un pubblico adulto. Anche se le fiabe le avevo fatte spesso per gli adulti.

Ma uno spettacolo che nasce per bambini e poi cresce fino a raggiungere un pubblico adulto è diverso da uno spettacolo concepito per un pubblico adulto, che per di più prende spunto da un capolavoro della letteratura come Kolhaas.

Partivo da un diverso livello e oltretutto mi confrontavo con una scrittura di un certo tipo: la storia non mi era stata raccontata, ma era stata scritta, e da un autore preciso, con una sua biografia e un ruolo importante nella cultura occidentale. E’ stato un lavoro molto lungo, tanto quanto sarà lungo questo su Lear...

Da quanto tempo lavoravi al Kolhaas quando hai debuttato?

Due mesi e mezzo. Durava un’ora e tre quarti, mentre adesso dura un’ora e dieci. All’inizio lo facevo con delle espadrillas nere e quindi non producevo assolutamente nessun suono; dopo un anno e mezzo, mettendomi delle scarpe nere col tacco e obbligandomi a una pedana, introdussi una sonorità che mi fece cambiare interamente lo spettacolo: adesso per esempio i cavalli galoppano. Tra l’altro in quel periodo vidi il lavoro di Cuticchio su La spada di Celano, che mi influenzò molto. Capii come dare il ritmo col respiro e col battito del piede, e che il corpo poteva essere uno strumento: come Kolhaas, mi do un sacco di botte, di pugni, faccio risuonare molto il corpo.

Perciò questo lavoro segna in un certo senso il passaggio da una voce narrante a un corpo narrante...

C’è voluto del tempo perché lo spettacolo prendesse questa forma, molti spettatori hanno incontrato un Kolhaas informe... Il teatro ha sempre bisogno di repliche, ma un teatro di narrazione "estremista" come questo ancora di più; non essendoci una partitura scritta, non hai obblighi, sei molto più libero, non devi preoccuparti di chi è in scena con te, e quindi è veramente un lavoro nel tempo...

Con Kolhaas, anche se il racconto di Kleist ha molti aspetti che possono ricordare la fiaba, entra in gioco la psicologia.

Come in Shakespeare...

A questo punto le motivazioni dei personaggi diventano fondamentali. Come è entrata la psicologia nel tuo lavoro?

Si tratta di dedicare più tempo alla creazione dei personaggi. Nelle fiabe i personaggi venivano appena accennati, a volte erano molto caratterizzati ma subito dopo scomparivano: non erano la sostanza del racconto. Nel Kolhaas ci sono figure come il protagonista, o sua moglie Lisetta, o l’imperatore e il barone, che non solo restano a lungo in scena, ma vivono anche eventi giganteschi. Allora ho cominciato a mettere in pratica quello che avevo fatto anni prima con De Fazio e quando dirigevo gli attori: un lavoro calato nella dimensione sensoriale. Ogni volta che muore la moglie di Kolhaas, io piango. Non sto lì a tentare di farmi venir fuori le lacrime, ma appena prendo in mano la mano di Lisetta e dico: "E’ piccola, sembra quella di una bambina", sento gli effetti del lavoro sulle azioni fisiche. Il contatto di una mano con l’altra crea dentro di me qualcosa che mi fa vedere, lì, il corpo di questa donna e mi immagino tutto il suo struggimento, e tutto quello che sta succedendo a Kolhaas in quei momenti. Di fatto, è un lavoro stanislavskiano...

Ma questo non entra in contraddizione con il meccanismo della narrazione? Non c’è il rischio di "teatralizzare" eccessivamente il racconto?

In quel momento non stai più dentro un racconto, stai dentro un dramma. Il problema è come uscirne e rientrarci. L’interessante è proprio questo: io piango - ma piango veramente - e un attimo dopo sono il narratore; questo crea sia in me sia negli spettatori una sorta di risveglio: sono commossi anche loro, e io so che di lì me ne devo andare, perché se resto dentro il dramma faccio teatro. In questa fase il problema è quanta parte di dramma si può tener dentro a una struttura epico-narrativa. Questa è la sfida.

Da un certo punto di vista, il problema è stato affrontato da Brecht, con la teoria del teatro epico e la pratica dello straniamento.

Per me Brecht è il faro. Mi sono letto e ho visto tutto quello che potevo. Formigoni era allievo di Brecht... Da allora, credo, in quella direzione non è più stato più fatto nulla. Brecht è importantissimo per il lavoro degli attori e la regia, mentre penso che il problema della drammaturgia si possa ancora approfondire: perché riemerge il problema della percezione. Mi sembra che il problema del teatro usato socialmente ruoti sempre intorno a quello che Peter Brook chiama "risveglio" e Brecht "straniamento": una presa di coscienza non ideologica dello spettatore di fronte a ciò che vede. Per Brecht contava molto il modo di veicolare il racconto: i songs, le interruzioni, il modo di dire le battute. Se fosse vivo, credo che si preoccuperebbe della percezione: l’attuale dato politico è che ormai viviamo in una società esclusivamente visiva, e questo mi spaventa molto. Allora recuperare la narrazione significa privilegiare l’ascolto, fare un corto circuito sulla vista e mettere in gioco l’udito, e questo presuppone che lo spettatore debba più immaginare che vedere. A questo punto diventa interessantissimo il problema della drammaturgia: lo sguardo dello spettatore, dove collocarlo, come metterlo, isolarlo con le luci oppure guardarlo negli occhi... Mi sembra così di poter continuare il lavoro di Brecht sul teatro epico, affrondando da una parte il problema della percezione, dello sguardo dello spettatore, con tutta la sua dimensione caotica; dall’altra il problema del dramma. Perché non puoi semplicemente dire: "Siccome è il dramma è stato un’invenzione borghese, lo togliamo". E’ una formula troppo debole, troppo ideologica. Bisogna invece riuscire a recuperare frammenti di dramma, con tutta l’intensità del lavoro sull’interiorizzazione, sul naturalismo teatrale, sulla recitazione naturalistica, e poi improvvisamente bloccarlo. Questa non dev’essere la struttura dello spettacolo, perché altrimenti torniamo alla commedia; e tuttavia il nodo è questo: come mantenere un ricordo del dramma dentro una struttura che non è drammatica ma epica e quindi caotica, che non si conclude con la soluzione al terzo atto ma resta aperta, che va in ogni direzione, che è casuale... Il teatro epico è un teatro che mostra diversi conflitti, non uno solo.

Parallelamente a questi assoli, fai spettacoli legati a una memoria che cerchi di mantenere viva e che molto spesso risale agli anni della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Che rapporto c’è tra la narrazione e la memoria della Storia?

Il narratore è uno che inventa le cose di cui racconta, la sua è una memoria immaginifica, non fotografica, è una memoria che crea e rielabora i ricordi...

...e costruisce magari dei miti...

E’ un meccanismo più semplice. Vai a vedere un film, e alla terza volta che lo racconti non stai raccontando esattamente il film che hai visto: ci hai infilato frammenti di tue esperienze o ricordi, immagini di altri film, tentando di capire perché quel film ti ha così toccato. Questo è il racconto: quindi dal punto di vista storico è sempre un falso, però il racconto offre anche quella che Benjamin definisce la possibilità di redimere il passato. Attraverso il racconto puoi rivedere aspetti del passato che non avevi capito allora e non hai capito oggi.

E’ una problematica che avvicina l’esperienza della narrazione a quella della psicoanalisi...

Sì, forse la psicoanalisi non è altro che un grande campo di racconti: una pratica attraverso cui scopri delle cose raccontando... Tornando a una prospettiva storica, il passato prossimo della mia generazione, l’esperienza dei padri, mi ha sempre affascinato molto: perché ho la sensazione che ci sia un buco di memoria storica che viene riempito di retorica o di ideologia, che sia di destra o di sinistra non importa. Mi sembra che non sia stata elaborata un’oralità, un racconto, se non nel Calvino degli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale (Il sentiero dei nidi di ragno) o in Fenoglio. Non c’è stata un’elaborazione capace di far diventare quel passato qualcosa che possa arricchirci oggi, se non in termini di estremismo, di ideologie politiche. Cosa c’entra tutto questo con la narrazione? Non si può raccontare una cosa qualsiasi; anche le fiabe, chiaramente le racconto perché ci trovo dentro qualcosa. E quando Antonio Attisani mi chiese di fare un lavoro per il Festival di Santarcangelo, proposi un progetto che poi è diventato Corvi di luna, ispirato ad alcuni racconti di Ultimo venne il corvo di Calvino, un modo interessante di rivedere il passato prossimo attraverso un realismo fantastico che continua ad essere l’ambito dentro il quale mi piace muovermi.

Ma nel momento in cui esiste già un’opera letteraria, un libro, che bisogno c’è di raccontarlo? O che bisogno c’è di metterlo in scena, che è una cosa ancora diversa?

A Santarcangelo eravamo sedici attori, siamo partiti dalle Cosmicomiche, siamo approdati a questi racconti, e abbiamo cominciato a chiederci che cosa ci avevano raccontato i nostri genitori di quegli anni. Siamo partiti da questa necessità. Poi abbiamo cominciato a fare registrazioni, a chiedere agli anziani, all’ANPI, ai partigiani, che cosa realmente accadeva. E abbiamo scoperto che non accadevano atti eroici, che erano tutte piccole storie. Corvi di luna erano sedici attori che raccontavano sedici storie a partire dal loro dialetto; ciascuno di loro ha fatto un lavoro a parte, "stanislavskiano", tentando di essere il personaggio di quel racconto, con tutta la memoria della regione da cui proveniva, e quindi legandolo a quello che aveva sentito della Seconda guerra mondiale dai suoi parenti; ma poi l’attore aveva anche il compito di raccontarla, quella storia... Così ho messo in pratica con questi attori quello che avevo messo in pratica su di me: come si fa a raccontare? come si tiene una platea, un pubblico anche disperso? I due momenti hanno coinciso: la necessità di sperimentare un metodo di lavoro sulla narrazione e la scelta di un argomento che ci sembrava eticamente molto forte. Da quel momento è cominciata una specie di mia ossessione. La memoria! Sento che lì c’è un problema, un buco che va dalla Prima guerra mondiale alle Brigate Rosse, un buco di racconti che mi piacerebbe esplorare, arrivando fino agli anni Settanta, per riuscire a raccontare cosa accadeva in quegli anni, quelli in cui si è formata la mia generazione... Vorrei riuscire a usare il racconto per non perdere memoria del passato prossimo; paradossalmente il passato remoto lo conosciamo meglio: la tragedia greca è sempre attualissima, Shakespeare è sempre valido, tanto è vero che continuiamo a frequentarli. Forse il nostro passato prossimo è pieno degli stessi miti, forse non ce ne sono altri, forse abbiamo inventato solo quelli e continuiamo a ripeterceli. Tuttavia mi affascina la possibilità di toccarli a partire dalle piccole storie: perché ci hanno insegnato solo la Storia, mentre manca tutto il lavoro della microstoria, il lavoro degli "Annales". Un altro esempio: l’estate scorsa abbiamo fatto uno spettacolo a Rovereto sui quaderni dei soldati roveretani, arruolati nell’esercito autro-ungarico. Amo questa letteratura popolare, anche quella scritta male, perché è da questo ambito che forse è possibile tornare agli inizi. Lo stesso è accaduto con Antigone, lo spettacolo con cui abbiamo ricordato la strage di Bologna nelle strade della città, con i racconti dei morti: in situazioni come quella scopri che la narrazione ha un forte potere, anche formale. Da lì puoi forse cominciare a spiegare anche l’idea del coro.

Qual è il punto in cui non puoi più raccontare?

Quando sei sopraffatto da quello che ti sta accadendo. Ci sono cose che non puoi dire, che sono indicibili per la loro potenza: a quel punto devi cantare oppure danzi. Finché riesci a raccontare, sei ancora vivo. Quando non ce la fai più, significa che sei vicino al momento della morte. Per esempio in Lear non sono mai vicino al momento della morte, perché racconto sempre.

Mentre nel Kolhaas ti senti vicino alla morte?

Ci sono dei momenti in cui mi capita... Quello è il limite del racconto, che è comunque una mediazione tra un’intensità di emozioni e il linguaggio, ed è una mediazione che devi elaborare emotivamente e razionalmente, per articolarla secondo una sintassi. Ma a un certo punto l’emozione non riesci più a tenerla e diventa un suono, che viene fuori da una dimensione antica, arcaica. Danzi, danzi...

Forse a questo punto si arriva a uno strato antropologico più profondo di quello del racconto... Ma questa dimensione, che raggiungi negli assoli, come si trasmette agli attori con cui lavori in spettacoli come quelli che hai citato o nel Peer Gynt?

Passa attraverso una serie di esercizi. Il primo, quello che faccio sempre...

E’ un metodo...

E’ più una prassi che un metodo, perché il metodo presuppone un sapere teorico, una sistematizzazione che non ho. Quando mi trovo di fronte per la prima volta un gruppo di attori, la prima cosa che faccio è creare un gruppo d’ascolto: questo presuppone che annullino le loro individualità in funzione del gruppo. Sono esercizi pratici, concreti, sono modi di lavorare. Si tratta per esempio di essere così aperti con lo sguardo da riuscire a cogliere, anche se gli altri sono sparpagliati da tutte le parti, il gesto che fa quello che ti sta dietro a destra: cioè non stai più a pensare al tuo gesto, ma sei attento a tutto quello che succede in questa rete di rapporti. Oppure in un racconto tu cominci a descrivere un albero, e io devo intervenire nel tuo racconto senza creare cose diverse da quelle che hai creato tu, e dunque io devo creare grazie alla tua creazione. Sono esercizi in cui essere coro, essere gruppo, è fondamentale. Alcuni attori scoppiano, non ce la fanno, perché sono abituati ad avere un loro forte punto di vista.

Perché hanno costruito la loro figura d’attore su questo presupposto.

E quindi lavorare con loro non è semplice.

Da un lato crei un gruppo, ma elimini anche un certo tipo di attore, di persona.

Questi esercizi eliminano gli individualismi estremi e certi eccessi di bravura. Insomma, gli attori che si sono costruiti su una forte presenza dell’Io.

Torniamo agli esercizi...

Sono esercizi tecnici concreti. Fin dall’inizio, non ci mettiamo a ragionare sull’interpretazione o sulla rappresentazione, ma estrapoliamo dallo spettacolo dei temi e su di essi cominciamo a fare dei racconti. Per esempio, nel lavoro su Peer Gynt prima di toccare il problema della perdita d’identità, prima di arrivare al monologo della cipolla, prima di mettere a punto la scena in cui gli attori vengono avanti e fanno quel gesto, c’è stato un lungo lavoro sulla narrazione. Ci siamo detti: "Raccontiamoci di quando, una volta nella vita, ci siamo sentiti persi, abbiamo perso qualsiasi punto di riferimento; e cominciamo a raccontare". Ma è chiaro che a quel punto dev’essersi già formato un gruppo che ti sta ad ascoltare senza giudicarti, perché entriamo a un livello vicinissimo allo psicodramma. E’ una fase molto delicata: all’attore non chiedo di inventare, anche se poi magari qualcuno inventa, ma gli chiedo di esserci, con tutto il suo bagaglio di esperienze personali: e deve metterle in mostra.

Secondo te in una circostanza come questa qualcuno può inventare, o barare?

Si può barare. Ma se in un certo momento io credo alla verità del tuo racconto, anche se stai barando non importa più: ha la stessa potenza di un’esperienza vissuta.

L’ho chiesto perché siccome tu parlavi di psicodramma, c’è sempre il rischio di arrivare a un punto di rottura. Può accadere che qualcuno bari e poi crolli perché ci si è spinti troppo in là?

Questi racconti non li fai il primo giorno. Si è già creato un gruppo d’ascolto, una fiducia reciproca: sai che l’altro non sta a giudicare se il racconto è bello, se sto raccontando bene, come va a finire... Prima è necessario eliminare il problema del giudizio estetico e creare un ensemble. Una volta che hai formato questo gruppo di guerriglieri, puoi fare qualsiasi cosa, puoi chiedere loro qualsiasi cosa. Hai creato una situazione in cui condividono un progetto: è l’opposto della parcellizzazione teatrale.

Una volta creato questo nucleo, a un certo punto devi romperlo per ridar modo alle singole voci di esprimere la loro individualità.

Devo dar modo alle individualità di emergere con le loro specificità, le loro professionalità, le loro diversità.

Come accade?

Per esempio, chiedo a un attore: "Portami un’idea su un naufragio, un’immagine". Per un giorno lavora da solo, improvvisando; sa che non criticheremo il suo lavoro da un punto di vista estetico, che magari di dieci minuti ne prenderemo magari uno, e non sarà neppure lui a farlo... Tutto Peer Gynt è nato così.

Cioè oggettivando le improvvisazioni degli attori affidandole a qualcun altro.

E’ lo stesso lavoro che fai quando racconti: mentre racconti sei completamente dentro, ma devi imparare a venirne fuori, altrimenti quel racconto resta solo uno psicodramma. Poi comincio anche a dire all’attore: "No, non hai guardato nella direzione giusta, stai parlando di un albero ma non lo vedi: dov’è?", e allora lui risponde: "L’albero è là". "Descrivimelo". "E’ verde". "No, guardalo bene. Vedilo. Se non lo vedi, non andiamo avanti". E stiamo dieci minuti a cercare un albero che forse non entrerà nel racconto. Ma penso sia importante trasmettere agli attori anche tutto quello che riguarda la tecnica del racconto. Perché esiste, ed è anch’essa antropologicamente innata: sappiamo tutti come raccontare, quando abbiamo qualcosa di urgente da raccontare sappiamo come farlo, anche i più sprovveduti, solo che non si rendono conto dei meccanismi che mettono in atto. Ciascuno di noi già sa come parlare con un altro: sa che lo deve guardare negli occhi, perché se guarda da un’altra parte quello che se ne va... Sono tutte cose che sappiamo, magari inconsapevolmente: in questo lavoro riflettiamo su questi meccanismi, è un allenamento più consapevole. Lavorando sul processo della narrazione, l’attore impara a impossessarsi, spossessarsi e rimpossessarsi di una storia. Ma è un processo con mille ombre, difficoltà, rotture, pianti, problemi...

Hai accennato al problema del coro, che nel Peer Gynt assume una grande importanza, come presenza narrante e come presenza lirica.

Forse questo aspetto l’avevo intravisto nell’Antigone a Bologna, e soprattutto quest’estate a Rovereto, dove c’erano otto minuti in cui non c’erano più parole, solo un coro di grande potenza: credevi che fossero settanta attori ed erano venti. In situazioni del genere, il coro è qualcosa di più della somma degli attori, diventa un’entità mitica. Nel Peer Gynt il coro è spesso usato con funzioni narrative, ma c’è per esempio la scena in cui gli attori avanzano allargando le braccia, con le mani rivolte verso il pubblico: in quel momento hanno una funzione di coro, raccontano una cosa enorme con una gestualità estrema, e ridotta. Nel Peer Gynt il coro è ancora funzionale all’emergere dei singoli, al fatto che il singolo emerga e poi scompaia, e questo è già interessante. Tuttavia si può fare di più: il coro può diventare non solo elemento aedico, ma può anche guidare la narrazione. C’è un’altra possibilità: che il coro esprima anche l’altro momento, quello panico, quando nessun individuo è più capace di "dire" e allora subentra questa forza mitica. Secondo me, il coro dovrebbe avere una forza mitica, in grado di moltiplicare nell’immaginario, come una forza tellurica, la presenza degli attori. Ecco, mi piacerebbe lavorare in questa direzione, sulla danza, il movimento, il canto, la musica...

Tornando invece al narratore, il Lear da un certo punto di vista fa un passo indietro, rispetto alla forma "estrema" del Kolhaas. Questo fatto l’hai vissuto come un arretramento o un arricchimento del lavoro sul racconto?

Per ora non lo so, è una sfida ancora in atto, e non so cosa produrrà.

Perché il Kolhaas era puro racconto, mentre nel Lear, aldilà dell’intervento dell’attore-Lear nel finale, entrano in gioco molti altri elementi, compresi i rimandi all’attualità e una serie di annotazioni critiche rispetto al testo di Shakespeare. Tutto questo "sporca" la forma pura della narrazione, che da un lato torna verso il teatro, dall’altro sembra spingersi verso il saggio, il commento, il riassunto...

Nel Lear la sfida è questa: mentre in tutti gli altri spettacoli il narratore era esterno alla storia, qui il Narratore è anche un personaggio coinvolto nel dramma. E allora puoi riuscire a fare di un dramma un racconto, essendo tu coinvolto nel dramma? E come? Finora il lavoro sul Lear è stato un arretramento rispetto al racconto, lo vivo con una certa pesantezza rispetto alla libertà che avevo nel Kolhaas.

E’ significativo che tu parli di maggior libertà in uno spettacolo che aveva una forma molto più rigida, vincolata.

Non è vero che quando è tutto aperto sei più libero. Nelle ultime serate ho capito meglio che nel Lear io sono un personaggio. E ho capito di aver sbagliato fin dall’inizio, quando mi sono messo un costume da matto per raccontare una storia oggettiva. Perché se mi metto un costume da matto, devo prima di tutto trovare il matto, fare un lavoro stanislavskiano sulla memoria del matto. Se riesco a farlo, scopro che non mi interessa raccontare tutta la storia...

...e forse non la puoi neanche raccontare tutta.

Il matto è interessato solo a certi nodi della storia, quelli che gli arrovellano dentro qualcosa: quindi parte da un punto di vista molto personale. Questo significa per prima cosa che devo scompaginare drammaturgicamente il testo; e poi che nel momento in cui il matto racconta fisicamente la storia, deve raccontarla da matto. Mi rendo conto che la postura con cui l’ho raccontata finora è quella del raccontatore: allora tanto valeva che stessi seduto sulla sedia. Poi c’è il finale, che è totalmente ideologico: era un tentativo di straniamento, volevo far riflettere lo spettatore che per un’ora aveva avuto di fronte una certa convenzione teatrale sul fatto che il teatro sia anche un’altra: il dialogo, la quarta parete, eccetera... Quel punto è criticabilissimo, e infatti c’è una caduta dell’attenzione da parte dello spettatore: però mi interessava sperimentare anche questo. C’è un altro esperimento che vorrei fare: mettere in scena Tracce di Bloch, fare uno spettacolo in cui siamo tutti seduti insieme a tavola, a mangiare, e in cui io racconto delle storielle, ma poi mi fermo; e il vero racconto sono le lunghe digressioni, anche di stampo filosofico, su quello che ho raccontato...

Nel Lear ci sono delle aperture in questo senso: per esempio quando commenti: "Ogni volta che c’è una lettera significa che...", eccetera...

Ma c’è dell’altro. Per esempio, all’inizio del Lear a un certo punto chiedo: "E’ per questo motivo che generate figli?". Nessuno spettatore mi risponderà mai. Ma cosa succederebbe se dessi al pubblico la possibilità di rispondere? Se riuscissi a creare una situazione in cui in quel momento qualcuno dice: "Ma no, io non li genero", e ci mettiamo a discutere sul problema padri e figli... Poi dovrei riuscire di trovare il modo di riprendere il filo del racconto, altrimenti diventerebbe un’altra cosa...

...diventerebbe un talk show televisivo...

Ma mi piacerebbe fare uno spettacolo in cui la narrazione permette digressioni ancora più ampie, dà una maggiore possibilità d’incontro con gli spettatori... Tra l’altro, quando il matto rompe la struttura del racconto per fare le sue digressioni, quelli sono i momenti in cui mi sento più matto, mi sento più personaggio... Ma so anche che rispetto all’andamento della narrazione queste sono appunto divagazioni. Quindi questo Lear è un momento di grossa crisi...

Credo sia inevitabile. Con il Kolhaas avevi raggiunto il limite della forma narrazione, probabilmente. Usando quella forma avresti potuti fare infiniti altri spettacoli analoghi, rigorosi e coerenti.

Ma a questo punto voglio invece capire fino a che punto posso usare il racconto in altre direzioni. Il problema resta sempre il passaggio dal racconto al teatro epico e il loro rapporto col dramma. E dramma significa coinvolgimento, interiorità, psicologizzazione del personaggio... Ma come queste due cose possono stare insieme? Nel Lear stanno insieme perché dove finisce una comincia l’altra...

Volevo tornare ad una tua affermazione, quando hai detto: "Finché racconti, vuol dire che non sei morto". Da un certo punto di vista, è la radice del teatro di Beckett.

E’ una verità profondissima, che vale per qualsiasi racconto: il raccontare è un differire la morte. L’atto del raccontare presuppone che tu in qualche modo l’esperienza l’abbia superata, se sei qui a raccontarla...

Ma questo non significa anche che l’esperienza, visto che l’hai sorpassata, è morta?

Ma nel momento in cui la racconti, la stai facendo rivivere. Max Frisch dice: "Un uomo fa un’esperienza poi racconta la storia della propria esperienza". Finché non la racconti, un’esperienza non l’hai fatta veramente. L’hai vissuta, ce l’hai dentro, ma quando puoi sentire di averla fatta, se non nel momento in cui tenti di trasmettere quell’esperienza a qualcun altro? Credo che il teatro sia questo: un gruppo di attori ha delle esperienze forti, sa di possederle e le vuole trasmettere. Se non la trasmetti, l’esperienza resta scritta nel tuo corpo ma non diventa un vero patrimonio immaginativo, neppure per te, finché non la elabori. Ed elaborandola la mistifichi. Per esempio, torni dalle vacanze e tenti di raccontare quello che hai fatto; e dopo due anni scopri che di tutte le vacanze racconti solo una cosa, che però è fondamentale; magari non l’hai fatta esattamente così, non era proprio di sera e forse lo scoglio non era esattamente quello, però ti sei creato una tua storia, che poi di solito si ingigantisce nel tempo. Il meccanismo della narrazione è questo.

Ma un’esperienza la si può elaborare in mille modi anche senza raccontarla, a livello di autocoscienza, senza nessun destinatario...

Non è così vero che ci si metta ogni sera a raccontarsi la propria esperienza, e poi senza un destinatario è un racconto solipsistico. Può funzionare, ma scopri cose diverse da quelle che scopri quando hai davanti degli occhi ai quali devi far vedere l’invisibile: quello che tu vedi e che loro non hanno visto. Dentro di me posso rivederlo, forse con maggior facilità. Ma per esempio, se so che ho un appuntamento con qualcuno a cui racconterò questa cosa, sono costretto a rielaborare la mia esperienza. Il teatro è un appuntamento, è avere storie con qualcuno. Quando dici: "Io ho una storia con te", vuol dire che siamo stati a letto insieme. Se dico che ho una storia col pubblico, vuol dire che c’è qualcosa che dobbiamo risolvere lì, quella sera.

Questo ci riporta al discorso da cui siamo partiti, che riguarda il sociale. Tutto si tiene molto bene, quando affermi che "Nel momento in cui l’esperienza è solo mia, personale, e me la vivo solo io, per me non ha praticamente valore".

Oggi sento anche che il teatro è un posto piccolo. Ho la sensazione che si stia chiudendo sempre più. E provo un grande desiderio, che per certi versi è anche una grande angoscia, di risporcare di nuovo tutto, di non controllare più gli strumenti e quindi di tornare a usare un linguaggio meno rigoroso. I luoghi del teatro sono piccoli rispetto al sociale, e sento la necessità di rielaborare un linguaggio che torni a parlare al sociale senza appiattirsi nel televisivo. Sento la necessità di ritrovare dei luoghi di comunicazione, come possono forse essere i centri sociali, o potevano essere una volta gli oratori o le sezioni di partito, i bar o le piazze. E’ un problema di spazi, di luoghi e di relazioni, che non ci sono più e non siamo stati capaci di sostituirli...
 


 
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