T o m W o l f e |
Harry
Ritchie talks turkey with Tom Wolfe, author of one of the most eagerly
awaited novels of the decade.
© Harry Ritchie - W |
A Man in Full è uscito il 12 novembre in tutto il mondo con una prima tiratura di 1.200.000 copie negli Stati Uniti e di 100.000 copie in UK. Solo per i diritti cinetelevisivi aveva già incassato 600.000 dollari prima ancora di uscire: un record mondiale. Tom Wolfe, guru del new journalism degli anni Sessanta e Settanta e faux-deb di travolgente successo con Il falò delle vanità (magnificamente e disastrosamente portato sullo schermo da Brian De Palma), ha rilasciato quest’intervista un paio di mesi prima dell’uscita del suo ultimo lavoro (che aveva terminato da pochi giorni). A Man in Full conta più di 800 pagine e una ridda di sottotrame: come si è orientato in quest’intrico di personaggi, ambienti e materiali? Non è stato difficile. Io lavoro sempre all’indietro. Prima trovo l’ambientazione, poi aspetto che entrino i personaggi. Degli amici mi invitarono a vedere un paio di piantagioni in Georgia nel 1989. Le piantagioni erano soprattutto da società d’investimento immobiliare – il settore immobiliare era alle stelle alla fine degli anni Ottanta, proprio come quello finanziario. Non avevo mai visitato prima una piantagione e non potevo credere a ciò che vedevo. Queste piantagioni hanno di solito attorno tra i quindici e i venticinque acri di terreno adibiti esclusivamente al tiro alla quaglia, e la stagione delle quaglie dura soltanto dall’ultimo finesettimana di novembre alla fine di febbraio, e basta. C’è tutta una gerarchia di animali a cui sparare, in questo paese: le quaglie sono in cima, poi le colombe, poi i cervi e in fondo alla classifica si trovano i conigli e gli scoiattoli. Il tiro alla quaglia è considerato il più grande degli sport venatori americani. Quindi inizialmente fu colpito soprattutto da questa faccenda del tiro alla quaglia? Sì, e iniziai a scriverci sopra una serie di capitoli ambientati a New York, ma suonavano tutti falsi… la gente che possiede le piantagioni vive tutta da quelle parti e il tiro alla quaglia si fa soprattutto in Georgia, per cui feci tornare il mio personaggio ad Atlanta. Una volta deciso che avrei ambientato il romanzo ad Atlanta, inizia ad andarci spesso. Atlanta è una città per il secolo venturo. Molte di queste edge-cities sono sviluppate con un occhio al futuro, secondo il modello di Los Angeles. In Atlanta non esiste un centro, è tutto grattacieli e alberghi, e la vita notturna e lo shopping si svolgono nella parte commerciale di Buckhead. Atlanta è la prima edge-city: non è un porto e ci sono un sacco di bei posti in cui vivere, per cui si può espandere all’infinito. Atlanta è stata anche soprannominata Chocolate City e Black Mecca: la popolazione è per il 70% di colore e la leadership è nera: sindaco nero, capi dei pompieri e della polizia neri. Il 90% degli alti papaveri della città è nero. Si è parlato di una Atlanta Way per quanto riguarda l’integrazione e la parità razziale. Sì… nel romanzo il sindaco nero, Wes Jordan, spiega la Atlanta Way paragonando la città a una palla da baseball: "Se togli la parte bianca esterna in pelle di cavallo, ti ritrovi davanti uno strato di corda bianca. Si tratta più o meno di un miglio di roba, poi arrivi al cuore, che è una piccola palla di gomma nera e dura. Be’, Atlanta è così. Il cuore, se parliamo di politica, sono i 280.000 neri di South Atlanta. I loro voti controllano la città. Attorno a loro, come lo strato di corda bianca, ci sono i 3.000.000 di bianchi di North Atlanta e delle varie contee. Per cui il problema è: qual è il rapporto tra questi milioni di bianchi e il cuore nero della città?" Io amo fare reportage, soprattutto su cose che mi sono del tutto estranee, come l’LSD o volare nello spazio. Per questo romanzo sono andato alla vecchia prigione di Santa Rita, sono andato nei magazzini che ho descritto… il reportage è fondamentale per il romanzo contemporaneo, a meno che lo scrittore non abbia condotto una vita davvero interessantissima. Nell’introduzione che ho scritto per The New Journalism ho lamentato la mancanza di romanzi che tentino di cogliere lo spirito dei tempi. Ho predetto che il futuro del romanzo stia nell’iperrealismo piuttosto che tutti quegli esperimenti esoterici che vanno tanto di moda nei circoli letterari e che fanno scappare a gambe levate i lettori. A che modelli ha fatto riferimento per riuscire a creare questo genere di scrittura? Nel 1985 mia moglie mi convinse a leggere Emile Zola. Mi gettò con le gambe all’aria. Il luogo comune della critica su Zola è che sia un realista fissato per i particolari, ma in realtà è vero il contrario: in Nana per esempio ritrae un’intera società. Altre influenze mi sono venute da Balzac, Sinclair Lewis, Thackeray e anche da Dickens, anche se Dickens non aveva il senso dell’economia di Zola, un vero genio della struttura. |