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T a n a k a J u n
Architetture (im)possibili, architetture virtuali

 

Tanaka Jun, from Tokyo University, explores the possibilities of (im)possibile architectures, from Piranesi to the virtual worlds of Marcos Novak.

© Tanaka Jun

1. Gravità zero e materiali immateriali

Esiste un'architettura che in linea di principio sia impossibile da realizzare? Questa domanda è posta in modo da nascondere una contraddizione. Ci è possibile pensare oggetti del genere, farcene un'immagine? Sarebbe una questione semplice se la possibilità e l'impossibilità in architettura fossero definite dai limiti tecnologici ed economici di un'epoca. Alla fine del XVIII secolo, le megastrutture disegnate da Etienne-Louis Boulée erano troppo gigantesche per essere realizzate. Negli anni Venti gli architetti dell'avanguardia russa immaginarono edifici che fluttuavano nell'aria. All'epoca erano solo un sogno, ma se oggi consideriamo le cupole geodesiche di Buckminster Fuller scopriamo che - benché condividano la tensione titanica di Boulée - sono pervase da una logica tecnologica che le rende del tutto realizzabili. E ovviamente anche gli edifici volanti non sono più una fantasia: Fuller - vale la pena ricordarlo - ha disegnato anche un gran numero di enormi cupole geodesiche sospese nel cielo.

Era proprio in virtù del limite posto dalla gravità all'architettura che Heidegger poteva dire che "i templi greci si innalzano in un rapporto di tensione con la terra" (L’origine dell’opera d’arte). D'altro canto gli architetti hanno sempre cercato di sottrarsi a questo limite, e non hanno mai smesso di sognare edifici volanti, soprattutto durante le rivoluzioni francese e russa. Ora degli architetti che si definiscono disegnatori di cyberarchitetture proclamano la loro libertà di lavorare in uno spazio digitale libero dalle costrizioni della forza di gravità. Dal momento che progressivamente il cyberspazio sta sostituendo lo spazio fisico come ambiente per l'investimento di capitali, il termine "architettura" sembra essersi dilatato fino a comprendere la configurazione di spazi virtuali all'interno di un computer. In realtà non vi è nulla di nuovo in questo concetto. Si tratta anzi di un principio che è stato già visualizzato da generazioni di architetti. Secondo Marcos Novak, uno dei fondatori del movimento della Transarchitettura, le origini del cyberspazio si possono riportare all'opera di astrattisti come Malevich, che introdusse il magnetismo, la forza di gravità, le onde radio e altre forze invisibili in un mondo di dipinti non oggettuali. Seguendo la stessa traccia, immaginò edifici senza fondamenta che galleggiavano nello spazio, costruiti sul nulla. Lissizky tentò di disegnare strutture immaginarie o virtuali fondandosi sul fenomeno della persistenza retinale e su altri meccanismi della vista. Come è ovvio, Lissizky non poteva mutare le tre dimensioni dello spazio fisico né modificarne la curvatura, quindi la sua opera si trasformò nel tentativo di progettare oggetti che a priori erano irrealizzabili: apparizioni momentanee di uno spazio virtuale, realizzate attraverso il movimento, la persistenza retinale e gli effetti stereoscopici. Come disse Lissizky "PROUN è una stazione di transito dalla pittura all'architettura." In altre parole, ciò che Lissizky inseguiva con tanta acribia era la costruzione di uno spazio ambiguo tra le dimensioni, una subzona, un intervallo, una stazione di transito, appunto, che chiamò "materiale immateriale". Secondo Novak questo materiale immateriale generato dalla luce e dal movimento ha molto in comune con lo spazio creato elettronicamente: "L'architettura liquida del cyberspazio è chiaramente un'architettura immateriale. È un'architettura che non si limita più alla forma, alla luce e agli altri aspetti del mondo reale. È un'architettura fatta di rapporti mutevoli tra una quantità di elementi astratti".

 

2. Architettura e media

In ogni caso la distinzione tra architetture possibili e impossibili si risolve nella storia della naturale evoluzione verso la realtà di ciò che in precedenza era definito "fantasia", senza un vero e proprio cambiamento dello status del "reale" come elemento di separazione tra possibile e impossibile.

Ma da una prospettiva opposta, tutte le attività che stanno attorno all'"architettura in atto" comprendono un certo margine di "architettura virtuale", impossibile e inesistente. Sarebbe possibile parlare dell'architettura occidentale dopo il XIX secolo senza menzionare le carceri di Piranesi? I sogni di architetti visionari (come quelli di cui si parlava poco sopra) sono un elemento essenziale nella storia dell'architettura.

L'"esistenza reale" come elemento fondante dell'architettura è stata radicalmente messa in crisi dallo sviluppo delle comunicazioni di massa, dalla fotografia e da altre tecnologie della riproduzione. Per chiarire i suoi concetti architettonici, Le Corbusier fece uscire un proprio periodico, "L'Esprit Nouveau", in cui le riproduzioni fotografiche degli edifici venivano pesantemente ritoccate. Naturalmente l'edificio "reale" è un momento importante nell'attività dell'architetto, ma per Le Corbusier non corrisponde necessariamente al risultato finale. Le foto e i disegni dell'"Esprit Nouveau" parlano di un'altra architettura. L'ordine gerarchico che attribuisce uno status privilegiato all'edificio è ormai perduto, rimpiazzato da una complessa interazione tra il concetto di edificio, l'edificio stesso e le sue riproduzioni. Invertendo quest’ordine, Le Corbusier giungerà a progettare edifici pensati come imitazioni dello spazio fotografico.

Quando le esperienze di lavoro architettonico vengono espresse tramite fotografie, riflessioni poetiche e una quantità di altri media, qual è il livello a cui discernere tra possibile e impossibile? Come per Le Corbusier nel periodo dell'"Esprit Nouveau", non è difficile per gli architetti del giorno d'oggi mettersi all'opera pubblicando scritti e disegni senza costruire alcunché. Certo si potrebbe scrivere una storia positivista dell'architettura descrivendo gli edifici di fatto esistenti, ma questo approccio non riuscirebbe a rendere conto di tutte quelle opere che, vive nell'immaginazione degli architetti, rifiutano pervicacemente di farsi cosa. Le Corbusier si dedicò a tanti media perché era una sorta di propagandista dell'architettura moderna, ma un'altra ragione - più profonda e interessante - sta nel fatto che la sua idea di architettura poteva trovare espressione solo attraverso una varietà di media diversi. In altre parole, la sua architettura era irrealizzabile, se limitata a una sola forma d'espressione.

Naturalmente non vi è nulla di eccezionale nel costruire la struttura descritta da un progetto architettonico. Ma il progetto non ne ha necessariamente bisogno. Significa che il progetto è in sé un'opera d'arte? No. I progetti architettonici sono oggetti estremamente vaghi e instabili, zeppi di richieste alle quali l'arte non potrebbe rispondere. Ma ciò non toglie che l'architettura di Le Corbusier esistesse solo nella relazione espressiva e nelle differenze tra progetti, foto ed edifici, o in altri termini nel processo di traduzione dal progetto all'edificio e alla foto. Proprio perché l'architettura non può essere sufficiente a se stessa nella forma dell'edificio né in quella del progetto, la possibilità della sua realizzazione sta in quella terra di nessuno che si situa tra questi due momenti.

 

3. Elementi architettonici virtuali

Sarà bene distinguere tra oggetti possibili e oggetti virtuali, seguendo la distinzione di Gilles Deleuze. Gli oggetti possibili sono l'opposto degli oggetti reali. Ciò che è possibile può essere realizzato. Gli oggetti virtuali invece non si contrappongono a quelli reali. Possiedono già una loro completa realtà. Secondo Deleuze il processo caratteristico degli oggetti virtuali non è la realizzazione ma l'attualizzazione. Qual è la differenza tra la realizzazione di oggetti possibili e l'attualizzazione di oggetti virtuali? "Gli oggetti possibili sono prodotti a posteriori. Con un trucco vengono fatti divenire oggetti reali come se fossero esistiti già in precedenza. L'attualizzazione di oggetti virtuali procede invece per differenze, dispersioni e differenziazioni. Questo genere di attualizzazione è, in linea di principio, del tutto sconnesso con l'identità. Come processo è altrettanto irrelato alla rassomiglianza. Le categorie reali sono completamente diverse da quelle virtuali che attualizzano".

I concetti sono pura virtualità che viene attualizzata attraverso varie modalità di differenziazione. Sono una molteplicità sviluppata come differenza. Il concetto di architettura di Le Corbusier è esattamente questo genere di oggetto virtuale.

 E questo trasforma l'architettura in una domanda. Secondo Deleuze le domande sono multiple e virtuali e generano soluzioni che non assomigliano alle loro condizioni. Se ciò fosse vero, allora l'esistenza di un'architettura virtuale corrisponderebbe all'esistenza di domande alle quali dare risposte. Naturalmente le domande non vengono poste per suscitare risposte preconfezionate. Non vengono nemmeno poste in anticipo, né vanno perdute quando trovano una prima risposta.

Concepire un'architettura virtuale non significa trovare una risposta a un problema posto da una data serie di variabili (per esempio le funzioni richieste, le spese, la scala eccetera), quanto piuttosto muoversi verso un'architettura come domanda in sé stessa. Per Le Corbusier l'architettura era proprio questo genere di domanda aperta: ecco perché l’architetto si sentiva costretto alla formulazione continua di risposte differenti, realizzate attraverso media differenti.

Il lavoro di Piranesi e i disegni degli architetti più visionari sono esempi evidenti di un'architettura virtuale concepita in questi termini, e possono quindi essere considerati come del tutto disgiunti dalla possibilità di una realizzazione concreta. In altre parole non si tratta di "oggetti possibili". Al contrario: sono una sorta di attacco al concetto di architettura legato a doppio filo a quello di "edificio". Quando il pensiero architettonico è messo alle corde da questo genere di domande inconciliabili, si riesce a sfuggire dalle pastoie della rassomiglianza e dell'identità.

Molti architetti moderni si sono sottoposti alla tortura di queste inesauribili domande per sfuggire alla cultura oppressiva del XIX secolo. Ne è seguita la rinuncia a tutte le possibilità già in possesso dell'architettura. La ricca tradizione del simbolismo e il vocabolario decorativo erano consumati, svuotati e il modernismo si è concentrato sulla natura fisica dei materiali. Per sfuggire a un vocabolario limitato e frusto, gli architetti si sono concentrati sull'espressività brutale di materiali nudi come l'acciaio, il vetro e il cemento.

I grattacieli di vetro di Mies van der Rohe (mai realizzati e rimasti allo stato embrionale di fotomontaggi) si rifanno proprio a questo tipo di espressione materiale di un'intensità informe. Sono "oggetti esausti" (Deleuze): il risultato che si ottiene dopo avere utilizzato fino all'osso tutte le possibilità del vetro in architettura. Secondo Deleuze, il risultato del processo di esaustione è l'immagine. "È dopo avere esaurito ogni possibilità che ci accorgiamo di avere prodotto un'immagine". Il processo autodisperdente della concentrazione dell'energia virtuale è in questo senso un'immagine. Secondo Mies la prima esperienza architettonica è proprio di questo tipo: architettura come immagine. Il processo di esaustione si volge verso la creazione di un'immagine. E Mies ha esaurito l'architettura al punto da renderla immagine di pura intensità, che non rappresenta alcunché. Gli edifici costruiti da Mies sono variazioni su una risposta alla domanda posta da quest'immagine. Nelle molte risposte che produsse, i suoi grattacieli di vetro continuarono a restare tenacemente avvinghiati alla propria esistenza virtuale, a restare essenzialmente differenti dalle risposte concrete.

 

4. La realtà tattile dell'architettura virtuale

Se la cosiddetta architettura virtuale - cioè l'architettura dello spazio virtuale contrapposta a quella dello spazio reale - fosse semplicemente uno spazio che può essere tradotto in realtà (o in qualcosa che le somigli), allora sarebbe solo un oggetto possibile, non avrebbe nulla a che fare con la virtualità come l'abbiamo definita prima. Se si trattasse solo di dare forma a un'interfaccia, come ad esempio quella di un sistema di navigazione, la prossimità allo spazio reale sarebbe facile da comprendere. Una risposta sarebbe sufficiente. In quel caso la simulazione di uno spazio multidimensionale all'interno di un display potrebbe contare su tecniche prospettiche per ottenere uno spazio tridimensionale sullo schermo.

D'altra parte, quando si sottolinea la libertà del cyberspazio rispetto allo spazio reale, si pensa soltanto alla possibilità di di accentuare la varietà formale del design. Molte delle immagini prodotte in questa direzione sono letteralmente ciò che Novak chiama "architettura liquida": una sorta di strano espressionismo formalista. Se l'architettura virtuale fosse davvero una palestra per questo genere di design arbitrario, allora il design stesso dovrebbe avvicinarsi a qualcosa di esistente, a qualcosa di "prodotto". Si starebbe dentro i margini della predicabilità.

La conditio sine qua non per creare un’architettura davvero virtuale è che si smetta di giocare con questo genere di libertà arbitraria e si tenti invece di esaurirla, di sovrautilizzarla, di sfruttarne tutte le possibilità. Non si dovrebbe cercare la libertà, ma la mancanza di libertà. La questione non è presentare i computer e le reti come se fossero oggetti reali. Come le foto hanno cambiato l'architettura, così farà l'architettura virtuale. Diverrà un atto di violenza nei confronti dell'"edificio" e lo diverrà differenziandosi dallo spazio reale. Invece di un'interfaccia facile da comprendere e da utilizzare, saranno la natura discordante del computer rispetto al corpo umano e il senso di resistenza nei confronti di un tale corpo estraneo a dare il via a questa differenziazione.

Nel film Videodrome di David Cronenberg, un uomo veniva inghiottito da un televisore. L'artista Stelarc attacca a ogni parte del proprio corpo sei sensori e degli stimolatori connessi a Internet. Le sue performance realizzano una fusione letterale di tecnologia e corporeità. I computer e gli altri media elettronici posseggono una dimensione tattile. Possiamo sentirli entrare in contatto con la nostra pelle. Ben lontano dall'essere una fredda macchina, il computer è in realtà un parassita che ci si avvinghia addosso, invadente e perverso. Quando sfioriamo i nostri portatili, questi parassiti ci fanno provare un piacere mai assaporato prima. Potrebbe darsi che la nostra realtà quotidiana sia già strutturata come un cyberspazio da cui i nostri corpi traggono ogni sensazione tattile. Altro che architettura e città: a un certo punto della nostra storia siamo stati circondati dall'architettura virtuale e rinchiusi nei suoi accoglienti interni. Nei romanzi cyberpunk il cyberspazio è generalmente la metà di un tutto, e l'altra metà è una città periferica senza legge. L'espansione dell'architettura virtuale è legata al declino e al decadimento delle città e dell'architettura. Mentre i cyberarchitetti si rivolgono a un formalismo ingenuo nel tentativo di avvolgere l'architettura virtuale nei drappi della realtà, la realtà intorno a noi ha iniziato a sfaldarsi.

La realtà virtuale non è un problema di design alla quale gli architetti e l'architettura possano dare una risposta qualsiasi. È la condizione in cui siamo costretti a vivere nel tardo XX secolo attraverso incontri fisici, sensuali ed erotici con il computer. Molto probabilmente la domanda da porsi, per gli architetti e l'architettura, sarà spaventosa e tortuosa. È solo attraverso questo genere di violenza che l'architettura virtuale può divenire un "oggetto virtuale" e assumere il potere di mutare il pensiero architettonico di quest'epoca.

 

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