ateatro 99.45 Piccolo trattato di Sistematurgia A proposito del Disegnatore di Marce.lí Antunez Roca
Questo testo è il prodotto di alcune riflessioni su Il disegnatore, un film documentario di 60 minuti che riassume la mia carriera artistica. Questo testo trascrive alcune idee che, al giorno d’oggi, sono il motore del mio lavoro.
La mia biografia artistica può essere ordinata in due grandi periodi. Il periodo dei lavori collettivi, nei quali ricoprivo il ruolo di fondatore, attore, musicista e coordinatore del gruppo La Fura dels Baus, collaboravo con il gruppo musicale Errore Genetico e l’Art Total Grup Los Rinos. Sono lavori che occupano tutta la decade degli anni Ottanta. Poi un secondo periodo, come Marce.lí Antunez Roca, che comprende tutti gli anni Novanta sino a oggi, che si caratterizza per l’utilizzo di alcuni elementi tecnici e scientifici e che ha dato come risultato, tra le altre, queste opere teatrali: Il robot Joan l’home de carn 1992, la performance interattiva Epizoo 1994, le performance meccatroniche Afasia 1998 e Pool 2002 e le installazioni Rèquiem del 1999, Metzina e Tantal, entrambe del 2004.
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Quando analizzo il mio lavoro lo faccio muovendomi dal presente verso il futuro. Ho il sospetto che una parte del mio lavoro consista nel rendere visibile quello che non si può vedere, quello che ti piacerebbe vedere, quello che intuisci. Ho sempre mantenuto viva questa pulsione e lo faccio ancora adesso. Dev’essere questo istinto che mi ha predisposto ad aprirmi verso altri orizzonti. Attualmente quest’attitudine è filtrata dal proposito che mi ha lasciato l’esperienza. Guardando al passato percepisco che molte delle cose che ho fatto sono il prodotto dell’impulso dell’età giovanile: indotte dalla necessità di cominciare di nuovo e di dimostrare, così facendo, il mio valore; provocate per riconoscermi come autore, al di là dei progetti collettivi e delle colleborazioni. E, come ho detto, sospinte dall’intuizione. Oggi, sebbene questo impulso sia ancora molto vivo, le cose hanno acquisito un ordine, le esperienze accumulate hanno un nome: strada, universo, favola.
Strada. Nel senso di lavorare in un direzione, seguire un percorso, una traiettoria. Nel senso dell’artista che ricerca, persegue degli obbiettivi e cerca nuovi orizzonti. Vuol dire, in un certo modo, dar forma alla tua volontà.
Universo. Costruire una cosmogonia. Non forzosamente, ma come una riproduzione del mondo fatto a tua misura. Credo che questo lo dia la continua pratica: a poco a poco raccogli gli elementi che configurano il tuo cosmo. Le ossessioni acquisiscono una forma e vanno a costituire il tuo universo.
Favola. Sul come spiegare le cose. Accettare la narrazone come una delle forme per esporre il lavoro. Far indossare all’opera il cappotto della favola. Così, due dei miei lavori più recenti, le installazioni Tantal e Metzina, possono essere letti come due piccole favole.
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Orizzonti. L’orizzonte della mia carriera professionale è esplorare la natura umana e la sua relazione con il mondo che ci circonda. Vuol dire sia quello che abbiamo in quanto animali: il sesso, lo scorrere del tempo, la morte... sia quello che abbiamo in quanto esseri culturali, intendendo la cultura come un’interfaccia che ci permette di capire il mondo e farlo crescere.
Il mio universo si è ampliato con gli elementi che mi affascinano. È sicuramente il mondo che mi piacerebbe vedere. Un mondo popolato da macchine biologiche, da forme che mutano e si trasformano, da oggetti vagamente sessuali... tutto ciò visto in modo poetico e ironico. L’ironia è uno degli elementi che si sono installati nel mio universo; mi piace. L’ironia interroga le affermazioni categoriche, il nichilismo ossessivo della violenza, l’indecenza della sessualità, converte le cose prevedibili in imprevedibili, rompe i generi, apre alla narrazione nuove strade, conferisce dignità a un discorso.
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Professione. Quando mi si associa, secondo i canoni del mio paese, al mondo del teatro, mondo che non nego ma al quale non appartengo, penso sempre ai registi teatrali che copiano un po’ di qua un po’ di là e così realizzano la propria messa in scena. Io non faccio queste cose, non lavoro né come regista né come attore, anche se di tanto in tanto mi riconosco in questi ruoli. Non sono un interprete, cerco di essere una persona che esplora, analizza il mondo e che per questo motivo diventa artista, autore e tutto quello che è necssario.
Il mio percorso di lavoro ha seguito un’orbita strana. Non mi piacciono i convenzionalismi, quasi sacri, che ti obbligano a seguire le norme dell’arte, del teatro, del cinema... preferisco concepire l’arte come un territorio aperto, fluido, libero.
Ma non per questo sono un essere poco socievole, completamente chiuso in me stesso. Al contrario, il mio lavoro si sviluppa in gran parte pubblicamente, con me presente di fronte alla gente.
Nonostante questo la mia opera circola in mercati eccentrici. Penso dipenda dalla società nella quale io vivo, una società che ha tendenze classiche, con patrocinatori storici, ossessionata dalla conservazione del patrimonio. Una società che sceglie di appoggiare le industrie culturali invece della cultura, che preferisce gli attori della televisione ai creatori con buone idee, che intraprende un lavoro di revisione sui suoi artisti quando è ormai troppo tardi o quando sono già morti, che sostiene delle scuole superiori di teatro isolate e chiuse a qualsiasi novità...
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Metodi. Lavorare con la tecnologia ha cambiato il mio modo di produrre. Quello che nel periodo dei miei lavori collettivi era un testo aperto, o delle discussioni attorno a un tavolo, o delle improvvisazioni di azione e musica, adesso è pianificazione, costruzione di prototipi, strumenti, tecnologia. Come ottenere che le casualità fluiscano e il processo creativo si mantenga aperto fino alla fine?
Per ottenere questo utilizzo il disegno. Lo straordinario alfabeto del disegno mi permette la materializzazione concettuale di qualsiasi cosa e il suo tratto leggero permette qualsiasi modifica. La mia pratica tecnologica ha dato come frutto la Sistematurgia. La sistematurgia è il metodo che oggi io utilizzo per produrre ed eseguire gran parte delle mie performance e delle mie installazioni. La sistematurgia riproduce e amplifica l’ambito tecnico che ha origine attorno a un qualsiasi computer: interfaccia, CPU e periferiche. In modo che nella sistematurgia le interfacce trascrivano i comandi degli attori e degli spettatori nel linguaggio binario del computer che li gestisce e si palesa attraverso i mezzi di rappresentazione come l’immagine, il suono e i robots.
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Carne, biologia, organismi. Mio padre, quando era ancora molto giovane, è stato ferito in faccia da un proiettile di mitragliatrice e ha perso l’occhio destro. Accadde durante la guerra civile spagnola. La faccia gli è rimasta mutilata e l’occhio che avava perso è stato sostituito con uno di vetro che restava sempre aperto, come quelli delle bambole. Sono figlio di macellai e credo sia facile immaginare come l’infermiera che salvò la vita a mio padre abbia ricostruito la sua faccia ricucendola. La guerra civile fu nefasta.
E’ logico che uno dei sogni più ricorrenti per molto tempo fosse la ricostruzione di un corpo umano partendo da pezzi di maiale nell’opificio della mia casa di famiglia, Cal Maties. L’infanzia è un libro aperto per tutto il corso della vita e una fonte alla quale ci si abbevera sempre.
Adesso penso a quanto è stata diversa la mia infanzia da quella delle persone che sono cresciute in città. Quelli di paese, tutti quelli della mia generazione e forse anche i bambini d’oggi, siamo nati in un remoto secolo XIX. Sicuramente ricordo la tv in bianco e nero, i primi passi dell’uomo sulla Luna, l’ascolto attento dei dischi dei Beatles e dei Rolling Stones appena usciti sul mercato, ma gli animali da monta procedevano ancora lungo le strade e i rituali religiosi e pagani della mia piccola collettività erano così sentiti che vivevo in un tempo arcaico.
Credo che lavorare con gli strumenti del XXI secolo nella prospettiva di uno che ha vissuto come nel XIX secolo produca questa scala di contrasti nel mio lavoro. Una mescolanza cruda, esplosiva e in certi casi primitiva, che per me è normale.
Provo un’a’ttrazione viscerale verso la natura. La natura sarebbe il mio Dio. Io sono un panteista che a ogni fatto naturale fa corrispondere un suo valore sacro. È così. Sono così per via delle pecore, del cortile, della stalla dei maiali, dei sacrifici dei capretti, del parto delle scrofe, dell’odore dei boschi, delle cose delle mule, dei funghi in autunno, dei bagni nel fiume... e questo fascino dell’infanzia è cresciuto e si è sviluppato in altri ambiti, dalla prospettiva scientifica, da quella della coltivazione degli alberi, della biologia, dei microbi... cavolo! La vita è affascinante, non ha mai fine.
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Macchine. Sarà il risultato dei giochi meccanici della mia infanzia. Una cosa tipicamente maschile, automobili, bricolage, motore, biciclette. O perché no, l’immagine dell’inventore, quello capace di costruire cose che non esistono, di fabbricare meccanismi che si possono muovere. Nella mia cittadina personaggi di questo tipo erano miti della memoria popolare. Può anche essere che sia lo specchio del proprio organismo con quest’indiavolata capacità che hanno le macchine di non fermarsi, di superarci, di emulare la vita. Ho il sospetto che sono tutte queste cose assieme ad avvicinarmi alle macchine.
Però, a prescindere dal fatto che le macchine si siano incorporate al mio lavoro, non è La Macchina la mia opera. Sono, in realtà, una parte del tutto.
Io non costruisco le mie macchine, a volte le immagino, le concettualizzo e le faccio costruire, altre volte le incorporo a guisa di una finestra aperta a collaborazioni con altri creatori. Ritengo che non sia facile costruire delle macchine, dei robot, tanto più queste aggiungono grande valore alle mie opere.
Le macchine appaiono per la prima volta nel mio lavoro con Los Automatic nel 1987, automatismi musicali concepiti come il prologo e l’epilogo della performance Suz/o/Suz della Fura dels Baus. Sono stati la miccia di uno scoppio meccanico che sino ad oggi ha avuto molteplici forme per rivelarsi.
Il Robot JoAn? Nasconde la sua natura meccanica sotto la carne come un falso umanoide. E l’ortopedia Epizoo inverte questo concetto posizionando la macchina sul proprio corpo che si converte così in un falso meccanismo. Questa forma di ortopedia parassita, “parassiteboz” come io la chiamo oggi, è uno degli elementi più inquietanti delle mie opere.
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Sessualità. La sessualità non è una cosa delimitata, rinchiusa dentro a uno specifico sistema riduttivo. E’ un’attività acuta che si estende a tutti gli ambiti della nostra esistenza. Assume forme molteplici, da quelle più impercettibili fino a quelle più oscene. Per sessualità intendo la manifestazione più evidente della vita. È una pulsione animale che ci spinge alla comunicazione sociale con gli altri organismi.
Far parte di una generazione che visse il sesso come una proibizione mi ha forse reso più sensibile a certi temi sessuali. Anche se penso che tutti quanti siamo invischiati in questo tema credo che nessuno può ignorare questa presenza che emerge dal nostro interno.
Come il cibo anche il sesso si adatta costantemente a nuovi argomenti culturali. Ma, come il cibo, anche il sesso ha una funzione biologica, quella di riprodurre la specie. Quest’idea è fondamentale sebbene a volte la si tende a ignorare. È la forza della natura che obbliga gli esseri viventi a riprodursi. Però questo è un terreno scomodo, incontrollabile, animale e difficilmente suscettibile all’analisi, mi interessa della sessualità e anche del cibo. Con il sesso succede che la cultura, la scienza traballano e l’animalità umana rimane scoperta.
Nuovamente le macchine emulano la sessualità e cito chiaramente la mia performance Epizoo. Quell’artefatto, una macchina concepita per dare piacere senza il contatto, si scontra con i suoi obbiettivi iniziali e, senza averlo previsto, apre nuove porte: la manipolazione, la crudeltà, il dolore nascono dal proposito sessuale di questa macchina. Con ciò si dimostra l’enorme capacità che ha la sessualità di impregnare ogni ambito.
Non mi piace la sessualità come prodotto del nihilismo, per me, come ho già detto, la sessualità è la fonte dellla vita e, di conseguenza, un atto di libertà.
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Lo scorrere del tempo. La morte. L’eterna giovinezza, negare lo scorrere del tempo, chiedere sempre lo stesso corpo: non credo in queste cose. Penso che abbiamo una pulsione che ci spinge verso la morte, è come la sessualità, però al rovescio, e ha la stessa forza. Fin dalla nascita è un viaggio costante, è il tempo che scorre. Ogni giorno sei un nuovo corpo: un neonato, un bambino, un adolescente, un giovane, un adulto, un uomo maturo, perdi i denti da latte, ti crescono i peli sotto le ascelle, ti esce lo sperma, germoglia l’acne, sudi, sudi, sudi, appaiono le rughe, cadono i capelli, un giorno ti ritrovi calvo, un altro giorno più grasso, viene fuori la pappagorgia... si tratta di un viaggio costante, divertente finché arriva il tuo giorno e muori. Avere un figlio vuol dire capire questa catena. Quando hai in braccio tuo figlio è come un tunnel del tempo, pensi di essere già morto, di essere già rinato in un altro essere che ti sopravviverà.
Però la morte è un tabù. La morte è occultata, ignorata, mascherata. Come tanti altri aspetti relativi alla nostra esistenza anche la morte è rimasta nascosta nella nostra società e assieme a lei i sacrifici degli animali, le manifestazioni religiose e pagane, le deformità...
La morte è uno dei miei temi come si può comprovare nel robot JoAn? O nell’exoscheletro di Requiem e anche nella necrosi di alcune istallazioni come la Rinodigestio 1997 o in Metzina dove, attraverso il processo di putrefazione, la vita si perpetua sotto forma di nuovi organismi.
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Sono un corpo. Per me non c’è differenza tra corpo e mente, non sono due cose diverse, sono una cosa sola. La coscienza umana è il risultato di un processo biologico e culturale che ha come unico supporto il proprio corpo senza il quale non esiste nessuna possibilità individuale di coscienza.
Pertanto non credo al binomio corpo/mente, né alla divisione religiosa corpo/anima. Ho il presentimento che ciò che chiamiamo evoluzione biologica e che tra un‘infinità di organismi ha prodotto la nostra specie, che si distingue perchè possiede una caratteristica che noi chiamiamo intelligenza astratta, è solamente un processo biologico. Al di là di ogni nostra percezione antropocentrica, ciò che noi chiamiamo cultura e che comprende tra le altre la scienza, l’arte e la tecnologià ha avuto e avrà ancora delle conseguenze sulle altre specie viventi, su noi stessi e sul pianeta. La cultura è parte e conseguenza dell’evoluzione biologica.
La mia non è una causa per negare il corpo e trascenderlo. Questa è un’idea del passato. Il corpo non è obsoleto. Poiché senza il corpo non è possibile la coscienza, senza la coscienza non è possibile nessun assioma, nemmeno quello che dice che il corpo è obsoleto. Gli anni modificano il corpo e questi trasformano la nostra coscienza. Nonostante accetti il fatto che l’incastro di elementi biotecnologici all’interno del nostro corpo induca a pensare alla possibilità della fabbricazione di un robot umano, un cyberg. Ma non alteriamo forse il nostro corpo da molti anni con processi chimici (farmaci) e sociali (la moda per esempio) e non per questo siamo macchine chimiche o sociali.
Alla fine penso che le macchine possono svilupparsi attorno a certi elementi organici, adottando strategie della genetica e incorporando materiali autoriparabili e in grado di riprodursi. Forse questo tipo di macchine rappresentano un nuovo stadio nella rivoluzione biologica.
(traduzione di Alessandro Romano)
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