ateatro 81.46
Trittico napoletano
Una intervista con Mario Martone su L'opera segreta
di Andrea Lanini
 

Caravaggio arrivò a Napoli nell’ottobre del 1606: la città fu per lui un rifugio, un luogo pieno di stimoli dove poter ricominciare una nuova fase della propria vita e della propria creatività. Napoli lo accolse, lo protesse, e lo conquistò con la sua vitalità inquieta, contraddittoria, sempre sospesa sulla conciliazione impossibile dei risvolti opposti della quotidianità: la sua opera subì potentemente il fascino della frenesia dei vicoli e dei personaggi che li animavano. Le maschere, le figure che Caravaggio osservava tra le pieghe della città cominciarono a popolare i suoi dipinti, caratterizzando in modo determinante – allontanandola dal solco della tradizione – l’iconografia di alcuni dei suoi maggiori capolavori.
Giacomo Leopardi fu a Napoli dal 1833, e qui visse i suoi ultimi anni: le speranze, le illusioni che avevano popolato i modi idillici delle sue opere svanirono per lasciare il posto al materialismo più cupo. Lo sguardo del grande poeta sulla città in cui cercò un impossibile sollievo, si intrecciò fino alla fine con la dolorosa presa di coscienza dell’”arido vero” che lui sentiva connaturato alla vita.
Anna Maria Ortese ha fissato in pagine indimenticabili il ritratto della Napoli del dopoguerra, della Napoli che, passo dopo passo, ricominciava a vivere. La sua scrittura, talvolta allucinata, visionaria, talvolta estremamente realistica, tende a raccogliere le tante frammentarie verità che si nascondono dietro il fascino senza tempo di questa città: verità dolorose, spesso disperate, ma che talvolta aprono al sogno, alla fantasticheria.
Caravaggio, Leopardi, Ortese: tre sensibilità di non-napoletani che, in epoche diverse e in diversi modi, si compenetrarono con l’essenza di Napoli e con le sue tante facce, e che seppero cogliere, attraverso la trasfigurazione permessa dall’arte, parte di un affascinante mistero nel quale finirono per riconoscersi. L’opera segreta, lavoro ultimo di Mario Martone (i testi sono di Enzo Moscato: L’opera segreta è una sua raccolta tratta dalle opere di Anna Maria Ortese), è un trittico che raccoglie quei tre punti di vista, condensandoli nella costruzione di un’opera mirata a raccontare una città difficile da raccontare e difficile da vivere: un’opera su Napoli e sulla sua pulsante energia vitale che finisce per accogliere e abbracciare tutti, per poi far sentire tutti un po’estranei, sradicati – compreso chi, come Mario Martone, a Napoli è nato e ha passato gran parte della propria vita. Non un lavoro su tre grandi personaggi del passato, quindi, ma un lavoro che nasce dal loro sguardo: l’obiettivo della regia di Martone è l’oggetto di quegli sguardi, raccontato attraverso le opere che essi contribuirono in maniera determinante a creare.
L’opera segreta si apre con un film, Caravaggio, l’ultimo tempo, in cui Martone restituisce un ritratto di Napoli attraverso le suggestioni che si sprigionano dai dipinti del periodo napoletano di Michelangelo Merisi. Una voce fuori campo accompagna le immagini, leggendo i bellissimi testi che Enzo Moscato ha scritto rielaborando parti di opere della Ortese; la seconda parte è una messinscena de I sette snodi di Inferno e nessun Eden, testo di Moscato tratto da La città involontaria, racconto della Ortese incluso nella raccolta Il mare non bagna Napoli; chiude il trittico un monologo, ’A ginestra ‘e pontone, tratto da Partitura di Moscato – serbatoio di spunti e di prospettive drammaturgiche che Martone utilizzò già nel 1991 per Rasoi.
A Mario Martone abbiamo chiesto di parlare di questa sua ultima regia, del suo rapporto con Napoli, delle tracce che la distanza che da anni lo separa dalla sua città imprime sul suo lavoro e sulle sue scelte.


L’Opera Segreta nasce dalle sensazioni e dalle emozioni di tre grandi personaggi che, come lei scrive, “furono colpiti a morte da Napoli”…

Caravaggio, Leopardi e Anna Maria Ortese sono tre artisti - ma, naturalmente, non sono gli unici - che in Napoli hanno saputo trovare una rivelazione rispetto al senso della vita: in epoche diverse, sono stati profondamente colpiti da una città che da sempre è disincantata, che da sempre, dietro alla sua maschera di allegria e di vitalità nasconde un grande senso di morte, di consapevolezza della vanità del tutto.

Questo è uno dei grandi fascini della “napoletanità”…

Sicuramente è un carattere molto forte della mia città: come nella vita stessa, nella sua essenza c’è sempre una grande contraddizione. Credo che sia un luogo che, per essere capito fino in fondo, deve essere visto da entrambe queste prospettive. Purtroppo tende sempre a prevalere un’immagine stereotipata e superficiale di Napoli. Caravaggio, Leopardi e la Ortese seppero cogliere questo abbraccio tra vitalità e senso della fine come qualcosa di assoluto: non credo sia un caso se, per quanto riguarda Giacomo Leopardi e Caravaggio, Napoli sia anche diventata la città dove la loro vita si è conclusa. Anche il fatto che questi tre personaggi non siano napoletani non è un caso: il loro sguardo permette l’attraversamento di un “sentimento di estraneità” che fa parte del mistero di questa città. Non è un sentimento che solo i non-napoletani possono provare: anche noi napoletani lo conosciamo benissimo. E’ qualcosa che fa di Napoli una città inafferrabile, eternamente dolente (e purtroppo anche la nostra cronaca lo dimostra) ma anche assoluta, con al suo interno una verità molto forte.

Da molti anni lei abita e lavora a Roma: come vive la lontananza dalla sua terra, dai luoghi dove tante esperienze importanti hanno avuto origine?

Vivo questa lontananza come un’esperienza dolorosa. Doloroso si può definire anche il lavoro che ho fatto per L’opera segreta, perché percepisco la distanza che mi separa da Napoli con un sentimento di lacerazione: credo che questo si trasmetta nello spettacolo. Si tratta di un lavoro sicuramente dolente, è in una lingua impervia, e lo spettatore deve essere pronto a misurarsi con dei testi dei quali non sarà possibile cogliere tutto.

La lingua che Enzo Moscato usa per i suoi testi è di una vitalità lavica, incredibilmente composita, sempre al limite: proprio come i personaggi – spesso indefinibili – che popolano le sue opere e ai quali essa dà voce…

I testi di Enzo e la lingua che usano sono straordinari anche per questo: nonostante non lascino capire tutto di sé, permettono a chi ascolta di arrivare perfettamente a cogliere la loro essenza. Lo spettacolo, dopo il debutto di Napoli, è stato a Modena e a Ferrara: la reazione estremamente positiva del pubblico di fronte alle difficoltà presenti nei testi ci ha colpito molto.

Per un artista napoletano che cosa significa lavorare a Napoli? Quando feci la stessa domanda a Enzo Moscato, qualche mese fa, mi rispose che portare avanti dei progetti in una città come Napoli è sempre molto difficile, faticoso…

E’vero, Napoli è una città faticosa, un luogo in cui gli sforzi finiscono fatalmente per avvitarsi su se stessi. Sono contento di aver partecipato alla nascita del Teatro Stabile di Napoli: la sua stagione è ricca, molto nuova, e le sue produzioni aprono le porte a registi giovani e assolutamente interessanti; ma non credo che in futuro porterò avanti la mia attività di gestione e di programmazione. Sinceramente sono stufo di subire attacchi continui, che non ho mai smesso di ricevere dai tempi del Teatro di Roma. Credo che in un sistema teatrale malato e corrotto come quello italiano non ci sia posto per una visione come la mia, quindi è forse meglio lasciar perdere: preferisco fare il mio lavoro di regista, e basta. Anche in questo, Napoli non è una città che riesce a renderti le cose facili: al suo interno è avvertibile un grido che, purtroppo, rimane impossibile da superare”.

Parliamo della struttura dell’Opera segreta: una forma tripartita, frammentaria, per accostarsi ad una realtà sfuggente e multiforme come Napoli…

Tendendo sempre ad una mia inquietudine sulla forma teatrale, ad un bisogno di cercare strade diverse, ho deciso – per L’opera segreta – di accostare le visioni di questi tre grandi artisti per creare un viaggio attraverso Napoli. E’ un lavoro che si è sviluppato un po’alla volta, sulla base dei testi di Enzo. Devo dire che è stata una delle cose più faticose della mia vita.

Che tipo di legame esiste tra la narrazione teatrale e quella cinematografica?

Paradossalmente, io preferisco tenere separati i due livelli. Per esempio, anche in questo spettacolo non è che il film si contamini con il teatro: il film è il film e il teatro è il teatro.
Caravaggio, l’ultimo tempo ha la sua autonomia cinematografica. E anche all’interno del processo creativo che ha portato a Teatro di guerra, il lavoro dove ho mescolato di più i due linguaggi, ho tenuto ben separate le due cose: ho fatto prima lo spettacolo teatrale, I sette contro Tebe, che è andato in scena e di cui ho filmato le prove; poi, sulla base del lavoro teatrale, ho realizzato il film, ma i due tronconi sono nettamente separati (lo spettacolo teatrale è del 1996, mentre il film Teatro di guerra è del 1998 Ndr). Credo che si possa fare cinema e teatro, però partendo dalla consapevolezza della diversità di questi due linguaggi. E’chiaro che dei contatti ci sono: anzi, essi sono continui. Ma se è forte il rapporto tra cinema e teatro, è ugualmente forte il rapporto tra cinema e pittura, tra teatro e letteratura, tra fotografia e cinema, tra musica e cinema: il montaggio è praticamente una forma musicale… direi che la cosa più vicina all’idea di montaggio cinematografico è proprio la musica. A questi legami sono molto sensibile, ma non bisogna dimenticare che cinema e teatro sono comunque due linguaggi autonomi.

Marco Lodoli, in un articolo (Sirene fatali) pubblicato su “Diario della settimana” e che lei ha inserito in Chiaroscuri (l’ultimo libro di Mario Martone, pubblicato nel 2004 da Bompiani), dice che i personaggi dei suoi film “stanno sempre in bilico: vorrebbero andare, capire, crescere, e spesso finiscono per precipitare nella botola della loro infelicità. In breve: la vita è un dovere, ma la morte è un richiamo”: se pensiamo a film come L’amore molesto o L’odore del sangue, è evidente l’attrazione dei protagonisti nei confronti di una voragine che spesso è soprattutto interiore…

E’ vero: molte volte ho raccontato spinte di ricerche individuali – ma anche collettive – che spesso si sono rivelate veri e propri scacchi. Credo che questo derivi anche dal fatto che la mia formazione è molto legata agli anni Settanta, a un tempo in cui c’era spazio per l’utopia o per l’idea del futuro. Poi, invece, la mia vita si è sviluppata in un contesto che è quello di oggi: un contesto in cui quel futuro è stato mangiato, una specie di eterno presente in cui non si riesce ad individuare un’ipotesi possibile. Da qui deriva quel sentimento di disagio. Ma gli scacchi dei miei personaggi, allo stesso tempo, lasciano trasparire un’utopia, un desiderio di cambiare: è questo è profondamente vitale.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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