ateatro 70.43 Concorso Italia 123 Dal catalogo di Riccione TTV 2004 di Fabio Acca, Daniele Del Pozzo, Erica Magris, Andrea Nanni
La generazione degli anni Novanta, che aveva saputo dialogare efficacemente con quello che potremmo definire "lo spazio della visione e dei suoi formati", sembra avere lasciato un vuoto proprio nel momento della sua definitiva storicizzazione.
Il Concorso Italia e Riccione TTV hanno sicuramente fornito a questa generazione – e non solo – alcuni spunti e ipotesi di lavoro, le hanno costruito intorno un’importante piattaforma di indagine, rigorosa ed esclusiva, proprio nell’idea di individuare il teatro come terreno elettivo di un polimorfismo produttivo, in cui coniugare le spinte creative della scena sperimentale con le emergenze dell’immaginario visivo. Un ambiente che negli anni si è configurato anche come discorso critico su quella "zona del desiderio" che fin dagli anni Ottanta ha saputo (e voluto) connotarsi come dimensione necessaria al teatro di ricerca, anche in termini semplicemente produttivi.
Oggi, pur con alcune felici e necessarie eccezioni che permettono ancora di pensare il teatro come l’antitesi di una realtà artistica integrata e chiusa, e per quanto il Concorso possa fornire una mappatura esaustiva delle tensioni creative che innervano la scena teatrale odierna, siamo di fronte alla cronicizzazione di un linguaggio ricreato come prolungamento del pensiero postmoderno.
Dell’effervescenza che aveva caratterizzato gli anni Novanta rimangono per lo più i segni di una stratificazione di scorie, rimandando così ai dubbi sollevati in passato in sede critica, quando si discuteva del pericolo di consumare il gesto artistico nei ritmi compulsivi di un’esaltazione acritica del presente, sulla sua immediata mitologizzazione, sul progressismo tecnologico, sull’invariabile escoriazione del contenuto, permutando infallibilmente e arbitrariamente la logica del senso con le poetiche dell’immagine.
Già dagli anni Ottanta – che non mancano ovviamente di essere volgarmente ostentati dalle cicliche riesposizioni della storia come cadavere "sublime", in una giostra che del passato consuma ogni suo miserevole interstizio – Maurizio Grande affilava il proprio discorso sulla sperimentazione teatrale, imputandole una deriva per la quale la ricerca si concentrava in maniera patologica sull’afasia storica. Di questo processo, il panorama del Concorso fa inconsapevolmente proprio il rapporto di esclusione definitiva delle forme da qualsiasi necessità storica, quasi fosse in atto un pericoloso moto di "presentificazione", che esclude non solo il dialogo con i maestri, ma la storia tout court, lasciando disattesa una riflessione affatto marginale di Giorgio Agamben, secondo il quale "l’avanguardia, quando è cosciente, non è mai rivolta al futuro, ma è estremo sforzo di ritrovare un rapporto col passato". Più volte si è parlato della generazione del decennio scorso come di una generazione senza maestri, eppure questa sembrava essere una strada ancora percorribile, a tratti anche esaltante sul piano squisitamente formale, se non altro per una riformulazione dei rapporti tra la drammaturgia dello spettacolo e l’uso inedito delle proprie fonti. Così era stato possibile anche un momento di sincera vibrazione creativa, in cui gli artisti avevano saputo coltivare le proprie ossessioni con estro e spavalderia, pur nell’accelerazione del privato. Ma ecco che lo scenario di questa edizione del Concorso Italia fa di questo privato un "privatissimo". Il riverbero della storia permane come breve allusione, o piccola, patetica ironia. Soprattutto nelle produzioni indipendenti, l’universo critico di riferimento ha, il più delle volte, il carattere di una patologia isolazionista: è la camera da letto, o la cucina, forse il bagno, in cui i sospiri, gli ansimi, i colpi di tosse, i gargarismi segnano la pregnanza dell’unico evento capace di fare storia (di quale evento si tratti nello specifico poco importa, uno vale l’altro). Un universo fatto di pretesti, di balbuzie spacciate per dissertazioni sullo stato dell’arte. D’altro canto, la gran parte delle produzioni istituzionalmente accreditate, quelle dei canali televisivi, sembra tentare una riappropriazione della dimensione pubblica con risultati scontati e retorici: da un lato il rapporto con la realtà urbana diventa il terreno di esercizi stanchi e ingenui, dall’altro la trasposizione video dello spettacolo sembra cercare una sorta di legittimazione attraverso l’inserimento, ripetitivo e insensibile al ritmo, di immagini documentarie, in una generale tendenza all’appiattimento del teatro televisivo al registro del documentario storico.
Mutatis mutandis, rieccoci dunque agli esiti della comunicazione scambiata per cultura. Alla diffusione capillare dei mezzi e delle pratiche di drammaturgia della visione, che segnano sempre più violentemente la percezione degli eventi, del mondo e di quel corpo che dovrebbe esserne il termine di esperienza, corrisponde oggi nella comunità teatrale che si affaccia alla metà del decennio un profondo e dilagante analfabetismo. Non è bastato dunque il democratico accesso al gesto più creativo del Novecento – il montaggio – per garantire una creazione originale congiunta alla scelta stilistica del teatro.
Gli artisti di questa ondata sembrano le vittime predestinate di una nuova ideologia parallela, la comunicazione, che quando non è direttamente riferita alla "sensologia" dello spettatore modello, gioca sterilmente a nascondino, congelando quello che un tempo si chiamava "rarefazione" in un vero e proprio annichilimento. Tanto pervasiva ed efficiente sul piano della volgarizzazione dei linguaggi, quanto capace di ammutolire e sotterrare le necessità dell’arte. In modo del tutto identico, un tempo si credeva che la lingua italiana potesse, tramite la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa (la televisione in testa), entrare nella case di tutti gli italiani, imporsi come lingua. La realtà è invece una metalingua impoverita, fatta di slogan, jingle, battute, coniata sulle ombre di una tradizione e rafforzata verso il basso da un impoverimento del vocabolario.
In questo paesaggio francamente desolante, sebbene non manchino alcuni slanci originali, le scelte della commissione di selezione appaiono motivate in parte da una provocazione, in parte come conferma di una qualità che tuttavia si inserisce in una prospettiva sconnessa, informe, priva di una rete che connetta uno con l’altro gli artisti presenti.
Così Libere, di Paola Columba, scavalca la pur presente acerbità Concorso Italia 124 e demagogia del dato visivo in favore della verità sensuale delle protagoniste, liberando le contraddizioni di un’esperienza teatrale in carcere; mentre Luparella, di Giuseppe Bertolucci dall’omonimo spettacolo di Enzo Moscato, trascrive con grazia ed eleganza il sentiero teatrale originario, costruito sulla memoria di una napoletanità crudele e a tratti oleografica, sull’orlo di una rinascita neorealista. A questi lavori, a loro modo generosi, si contrappongono quelli di Fabrizio Arcuri (Ex proclama e martirio) e Danilo Conti (Le ore), per la volontà di isolare la creazione all’interno di un circuito formale gelido e autorappresentativo, quasi fossero, a diverso titolo, le lapidi poste sui rispettivi generi di riferimento, teatro e danza. Eizel. Di cosa è fatto un teatro, di Stefano Massari, riconduce la memoria di uno dei tragitti teatrali più fortunati degli ultimi anni, quello del Teatro delle Ariette, collocandosi in quella linea di confine tra documentario e creazione originale: con un uso lirico dei documenti visivi, elabora liberamente le immagini come fossero accostamenti di materia, non aggredendo le figure esposte, bensì attendendo una loro conciliazione con le forme e le luci. Postanovscik di Masque Teatro, Diario di parole di Nick Rebès e Jack e il fagiolo magico di Lino Greco e Bruna Gambarelli individuano, ciascuno a suo modo, soluzioni particolari per riconfigurare la materia autonoma e conclusa dello spettacolo da cui traggono origine.
In Postanovscik la regia video si interroga sulla presenza necessaria, e particolarmente esigente, dello spettatore, assegnandogli il punto di vista privilegiato di una videocamera che lo immerge all’interno della scena, vicino ai volti, ai corpi e alla materia che ne sostanzia la forma. In Diario di parole le azioni che compongono lo spettacolo sono documentate con una fotografia in bianco e nero che rimanda a esperienze di happening delle avanguardie degli anni Sessanta, mentre il ritmo del video è scandito da ripetuti fermo immagine a colori e dalla lettura cadenzata delle stesse parole che, come in una partitura visiva, compaiono sulle pareti della scena. Jack e il fagiolo magico ripropone sulla traccia narrativa della fiaba un modello di racconto per visioni, in cui le immagini tratte dallo spettacolo di Laminarie riprendono sia l’azione scenica che l’insieme dello spazio teatrale con il pubblico, fungendo da bussola per un duplice viaggio, che lo spettatore video percorre attraverso il tragitto compiuto dal protagonista nella fiaba e attraverso il percorso di attori e spettatori nell’evento teatrale. Infine Roccu, di Anna de Manincor, rappresenta forse l’unica continuità reale del Concorso con il suo recente passato. In questo lavoro la regista alimenta i perimetri astratti in cui agiscono i corpi dei due danzatori della compagnia Le Supplici e, pur rimanendo fedele ai propri feticci, esalta le proporzioni del movimento attraverso brevi cenni della telecamera, reiterazioni ritmiche e un uso analitico del montaggio. Un esempio di come integrare la propria personalità registica con la qualità delle fonti.
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