ateatro 55.61 Il teatro tra televisione e cinema Flicker del Big Art Group di Oliviero Ponte di Pino
Dal punto di vista del rapporto tra l’evento spettacolare e lo spettatore, il teatro accade qui e ora; il cinema invece è accaduto in un altro luogo (il set cinematografico e poi la sala di montaggio rispetto alla sala cinematografica) e in un altro tempo (è stato ovviamente realizzato in precedenza ed è stato riprodotto chimicamente sulla pellicola); la diretta televisiva accade in un altro luogo (lo studio o il luogo dell’evento televisivo) e ci giunge ora (trasmesso attraverso la riproduzione elettronica nel luogo in cui si trova lo spettatore, in genere nel salotto di casa).
Con il suo "Real Time Film" Camden Manson e il Big Art Group mescolano e intrecciano allegramente queste tre diverse prospettive. Il loro Flicker, visto al Festival di Polverigi, è senz’altro uno spettacolo teatrale, che accade qui e ora, con attori e spettatori riuniti in un unico spazio. Il problema è che gli attori, in realtà, occupano due spazi vicini ma diversi: in carne e ossa, occupano una pedana sopraelevata, davanti a una parete bianca con alcune strisce orizzontali che ricordano i codici ISBN; la loro effigie elettronica occupa invece i tre schermi che si trovano appena davanti alla pedana, leggermente più in basso: ci arriva grazie a tre telecamere che ovviamente riprendono quello che accade di sopra, ma con un piccolo trucco.
A un primo sguardo, la pedana superiore e l’infilata dei tre schermi sembrano rappresentare lo stesso spazio: ci sono gli stessi attori, la solita parete bianca e le identiche strisce orizzontali. Ma poi ci si accorge che in realtà lo spazio reinventato sugli schermi è fittizio, che quelle righe creano solo l’illusione di una continuità inesistente, perché tra uno schermo e l’altro c’è un altrove invisibile, un vuoto, uno scarto. Insomma, più che di film vero e proprio, sono il teatro e il video che interagiscono per svelare i trucchi della produzione di realtà a opera di cinema e televisione.
Flicker racconta, a livello di plot, una improbabile vicenda di genere: un serial killer appostato in un bosco che massacra gli incauti che ci si fermano nonché gli eventuali soccorritori, in un crescendo di effettacci e situazioni terrificanti (che ovviamente fanno molto ridere, non appena inserite in un meccanismo demistificante).
Per lo spettatore il godimento consiste nel far oscillare lo sguardo tra il teatro e il video, per vedere l’ingegnosità e a volte l’irridente comicità con cui viene simulata la tecnica cinematografica. Il taglio a nero è un cartoncino posto davanti agli obiettivi. Il controcampo si realizza invertendo le posizioni degli attori che si trovano a destra e a sinistra. Per lo zoom basta avvicinare o allontanare il volto dalla telecamera. Per alcuni effetti speciali è sufficiente allontanare rapidamente una fotografia dall’obiettivo: può raffigurare una macchina che corre veloce sulla corsia opposta o la testa dell’ennesima vittima spiccata dal corpo. E così via, in un crescendo di trovate comicamente efferate.
Viene anche scardinato il rapporto tra l’attore e il personaggio: infatti capita spesso di vedere sui tre set altrettanti attori che interpretano il medesimo personaggio (grazie a vestiti e parrucca identici, mentre i volti vengono "uniformati" da calze di nailon bucato su occhi e bocca). Sullo schermo vediamo un braccio che brandisce un coltello avvicinarsi alla vittima: il braccio può essere quello di un attore, la mano quella di un altro.
Perciò se quello che si vede sugli schermi tende ad avere una qualche coerenza narrativa, quello che accade nel reale, sul set, è un guazzabuglio narrativo, con una sarabanda di frenetici cambi di costume e posizioni, raddoppiamenti continui di gesti e personaggi. Chi guardasse solo quello che fanno i nove scatenati attori in carne e ossa, non capirebbe assolutamente nulla, perché il codice per interpretare il loro linguaggio è altrove (ovvero nelle regole cinematografiche che presiedono al montaggio del film proiettato sui tre video).
Con scanzonata allegria Manson e compagni applicano il più classico meccanismo di straniamento alla trama e ai luoghi comuni dell’horror, ma soprattutto al linguaggio cinematografico, a quel flusso di immagini che ci travolge quotidianamente, senza che siamo consapevoli dei meccanismi che generano quella realtà fittizia. Si tratta dunque di uno spettacolo che vuol insegnare divertendo (per usare una definizione classica), un giocattolo tecnologico che smonta la tecnologia.
L’effetto è reso ancora più efficace (sia sul versante comico sia su quello della demistificazione della sacralità dell’immagine fittizia) dalle inevitabili imperfezioni e grossolanità del meccanismo, ovviamente volute e sfruttate dalla regia. Freudianamente, è proprio dall’errore e dal lapsus che Flicker va a cercare la verità.
Flicker
Regia di Caden Mason
Scritto da Caden Mason e Jemma Nelson
Big Art Group
Polverigi, Teatro della Luna
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