ateatro 37.5 L'urlo del corpo Un'immagine da Riccione TTV di Alessandra Giuntoni
Ripensando alle immagini trascorse sugli schermi del TTV Festival, c’è un tema in particolare che mi è parso dominante, un motivo iconico vorrei dire, che nell’affastellarsi delle immagini nella memoria assume la luminosità iridescente di leitmotiv dell’intera rassegna. Immagini di corpi, ora smaterializzati e immillati su bianche superfici digitali a tralucere effetti di pura e inattiva visività, ora oltraggiati e vilipesi nella fitta oscurità di claustrofobiche camere da tortura, l’integrità figurale della persona orrendamente straziata in baconiani studi per crocifissione. Come non ripensare alle figure spettrali, agli attori-geroglifico del teatro filosofico della Socìetas Raffaello Sanzio: la cavità magica della scena ierofanica popolata da “masse carnose”, dalle folgoranti figure “segnate dal Dio”, dai corpi di possenti e arcaici animali portatori anch’essi della scintilla divina, testimoni di un mitico passaggio da “la morte di Dio” alla “nascita della tragedia”. Ancora una volta, la pronunzia del corpo dell’attore al centro della scrittura scenica: sia esso fulgido, glorioso e purissimo corpo, sia esso perduto entro l’oscenità della materia, sprofondato e corrotto nel gravame della carne, impossibilitato ad essere se non nella deiezione.
“Una sensazione di bruciatura acida nelle membra, i muscoli torti e come a nudo, il senso d’essere di vetro e sbriciolabile, una paura, un ritrarsi di fronte al movimento, e il rumore. Un disordine inconsci dell’ambulazione, dei gesti, dei movimenti. Una volontà perennemente tesa per i gesti più semplici, la rinuncia al gesto semplice, una fatica sconvolgente e centrale, una sorta di fatica aspirante”.
(Antonin Artaud, L’Ombilic des limbes)
Nella prima fase della teatrologia artaudiana si assiste alla comparsa della metafora della “bruciatura acida delle membra” e della “vetrosità”, con specifica allusione al punto di sosta del sangue, emblema del soffocamento e del coagulo di qualsiasi flusso vitale o movimento di pensiero. A un’attenta analisi dei testi artaudiani (sulla scorta dell’imprescindibile studio di Artioli/Bartoli, Teatro e corpo glorioso) ci si avvede però che, sotto la categoria del gelo e del ristagno, della pietrificazione del corpo, l’autore de Le théâtre de la cruauté non vuole significare soltanto “il gran freddo” o la persistente siderazione dello spirito in quanto topoi della paralisi e del deserto mentale. Il fuoco che brucia le membra, infatti, e che, ossimoricamente, ha caratteri di freddezza, stasi, sprofondamento in un vuoto che è morte è anche fuoco che calcina e corrode, è forza attivante, elemento che dà la morte e la vita. Nel profilarsi di un doppio statuto dell’elemento carnale, inteso ora come esito di una maledizione, ora come nostalgia verso una mitica età dell’oro, vi è un riferimento costante al momento cosmogonico per eccellenza, all’attimo cioè in cui la vita è un pulsare indifferenziato, agitato da un fuoco febbrile non ancora rappreso. L’elemento che resiste all’esperienza della notte tragica in cui l’io pare sgretolarsi sotto i colpi dell’irrazionale, è proprio la materialità di questo corpo, il suo spessore tangibile, la sua dolorosità cogente. Artaud non ignora che, di fronte all’aridità del pensiero, vi è qualcosa in cui si accende la vertigine della vita universale, qualcosa in grado di eliminare qualsiasi scansione tra soggetto e oggetto. Egli, come Bataille, “sa bene che l’erotismo, come la poesia e l’estasi mistica, fioriscono in quel dominio oscuro dove l’essere, eccedendosi nella dismisura della morte, ritrova il tutto-pieno della vita” (Teatro e corpo glorioso). Come già aveva intuito Nietzsche
“il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, una guerra ed una pace, un gregge ed un pastore” (Also spracht Zarathustra). Esso possiede una logica propria, una saggezza più vasta di quella appartenente al pensiero, quivi dimora “...un possente sovrano, un saggio ignoto - che si chiama Sé” e che è “superiore alla nostra coscienza, al nostro ‘spirito’, al nostro consapevole pensare, sentire e volere, quanto l’algebra alla tavola pitagorica”. Deleuze, riprendendo la felice intuizione nietzscheana sul carattere parziale e servile della coscienza, definirà il corpo “un campo di forze o di battaglia”, un prodotto “arbitrario” delle forze che lo compongono e che stanno, tra loro, in costante rapporto di tensione. Il corpo in quanto fenomeno molteplice sarebbe, dunque, il composto di una pluralità di forze irriducibili che danno luogo ad una “unità di dominio” (Nietzsche et la philosophie). Di qui il corpo come imponderabile frutto di un caso, meraviglioso coup de dés tirato a sorte dal combinarsi di forze chimiche, biologiche, sociali, politiche a dar luogo alla “cosa più meravigliosa” - “molto più della coscienza e dello spirito”- che l’uomo possieda.
In Artaud l’orrore verso la ferinità dell’elemento erotico, percepito ora come flusso desiderante, ora come Spirito Spossessatore, spinge il giudizio sulla tentazione del sesso a rimanere sospeso nella paralisi del gioco attrazione/repulsione: “c’è uno spirito nella carne pronto come la folgore. Lo scuotimento della carne partecipa della sostanza alta dello spirito” aveva affermato l’autore ne la Position de la chair, lasciando intendere che nel nodo cruciale originario, ove spirito e materia non si distinguono, l’anima sepolta possa finalmente aprirsi un varco per ricongiungersi al divino. E’ un afflato insieme fisico e spirituale quello che interessa Artaud, è la suprema tensione originantesi dal corpo, altrove definita “l’impulsività della carne mistica” (Correspondance de la momie). La messa a morte dell’io, la cessazione della superstizione del principium individuationis sono tutt’uno con l’esperienza della “emozione che restituisce allo spirito il suono sconvolgente della materia”. E, tuttavia, tali mistiche rivelazioni sono in Artaud indissociabili dall’esperienza dell’angoscia, un’angoscia atavica e totalizzante, esemplificata dal pulsare erotico della carne, insinuato nel corpo da Dio per pervertirne la forza originaria. “Sì, la carne pensa”, conclude Artioli: "c’è nel sesso un tremore ispirato che riversa dall’altra parte delle cose un sapore di peccato, di “vero peccato teologale” nelle cui convulsioni s’arroventano gli orrori, le immondezze, le scatologie, i crimini, gli inganni di cui è intessuto il fondo crudele della vita.” (Teatro e corpo glorioso).
In questo dramma di carnale Passione, ove i possibili esiti di rinascita passano attraverso il presagio di membra straziate, nella paralisi che nasconde l’incandescenza ignea del germinare intensivo della vita, mi pare si possa collocare il video Il corpo di Stefano Bisulli, vincitore del Premio Speciale della Giuria al Riccione TTV Festival. Il video, premiato col Sole Blu dai giurati de Festival “per aver saputo fermare fissare in forma video le trasformazioni estreme suggerite da un testo particolarmente ossessivo...”, è stato costruito a partire dallo spettacolo Dovevamo scegliere (e siamo stati scelti) di Fabio Biondi. L’immobilità rovente di cui si diceva è resa, nel video in questione, da una rigidissima costruzione scenica che, eliminando stacchi e cambi di inquadratura a spezzare la tensione montante, crea un effetto di disagio fisico, accresciuto dal ritmo martellante di dizione del testo che non concede sosta all’attore. Costretto su di un letto simil-ospedaliero, l’enorme corpo seminudo si offre impudico e ansimante all’occhio implacabile della telecamera. Il collo è bloccato da una specie di collare che gli serra la gola, la pelle rosso sangue appare sgranata alla ripresa ravvicinata della telecamera; un tremolio gelatinoso tradisce i sussulti della carne straziata; la voce soffiata, impedita al passaggio verso l’esterno dalla postura costretta, narra di un moderno e infelice Minotauro, erede del mitologico mostro che aveva corpo d’uomo e testa di toro, già posto da Dante a simboleggiare “l’ira bestial” nel suo Inferno (Inf. XII, 33).
La leggenda è arcinota: si narra che la regina Pasifae, moglie del re cretese Minosse, s’innamorasse perdutamente di un toro inviatele da Poseidone. Decisa a consumare la sua colpevole passione la giovane donna, su consiglio di Dedalo, si fece costruire una giovenca così perfetta che l’ignaro animale s’ingannò. Dall’accoppiamento contro natura della regina Pasifae (“Nella vacca entra Pasifae / perché ‘l torello a sua lussuria corra”, Purgat. XXVI, 41-42) nacque Minotauro, il dio-toro sposo e figlio della dea madre, signore degli inferi e dell’oscurità. Rinchiuso da Minosse nel celebre Labirinto (simbolo da “esplorare ma non risolvere” secondo la teoria dell’accettazione del karma), l’angelo-demone della civiltà cretese divenne l’emblema della difficoltà dell’essere, del conoscere, del ri-trovare, insomma un mostro pauroso dell’anima, rinnegato e rimosso dalla civiltà razionalista. Il protagonista de Il corpo risulta affatto credibile nel restituire il senso e la pena delle sevizie subite dallo sfortunato dio-toro, sorvegliato e punito dai rappresentanti del Potere costituito. Attraversato da fremiti di ancestrale e indomita animalità, il Minotauro incarna il ritorno dell’uomo allo stadio bruto di un erotismo ctonio e spossessante, cui si addicono le parole di Artaud: “L’uomo, quando non lo si trattiene, è un animale erotico, c’è in lui un tremore ispirato, una specie di pulsazione produttrice di bestie senza numero che sono la forza attribuita dagli antichi popoli terrestri universalmente a dio. Ciò faceva quel che si chiama uno spirito” (Pour en finir avec le jugement de dieu). Se la maledizione della carne è evidente sin dalle prime inquadrature del video (il corpo è una prigione entro cui si dibatte lo spirito indomito; per i seguaci di Mani esso costituiva la “grande calamità”), l’essere mitologico o semidio imprigionato racchiude in sé i due massimi vettori di caduta del corpo dalla sua forza originaria. Per l’ultimo Artaud, Dio ed Eros fatalmente concorrono nel sottrarre l’uomo a se stesso, nell’aberrarlo depotenziandolo attraverso i metodi della martirizzazione. Da questa tragedia dello smembramento, in cui origine divina e bestialità regressiva convivono e si scontrano sino a creare, sul corpo del protagonista, un campo di forze laceranti, si leva un senso di impalpabile pietà, provocata nello spettatore, dal dolore innocente e quasi biologico cui è sottoposta la mostruosa creatura. Nello spalancarsi terrifico della bocca, la libertà dei movimenti negata insieme alle pause fisiologiche del respiro, fuoriesce un profluvio di parole che narra della crudeltà dei familiari, della paura mai superata di antiche e infantili esclusioni. L’espressione del dolore dell’uomo diventa, adesso, la rappresentazione senza speranza di un’agonia individuale e collettiva. Lasciato solo nella stanza-cella a consumarsi nel desiderio, a bruciare nel fuoco onanista che non trova requie, l’osceno mostro si offre quale metafora della brutalità del trattamento inflitto alle vittime di interni manicomiali, quale emblema della moderna repressione sociale verso ciò che è ritenuto deviante o blasfemo. |