ateatro 107.32 Le recensioni di ateatro L’opera d’arte nell’epoca della producibilità digitale a cura di Antonio Caronia, Enrico Livraghi e Simona Pezzano, edizioni Mimesis, 2006 di Andrea Balzola
L’incontro tra le arti e le nuove tecnologie è sempre stato ispiratore di nuovi linguaggi, nuove frontiere espressive e comunicative, fin dai tempi in cui l’elettricità è entrata in teatro o gli artisti hanno cominciato a manipolare pellicole, ma una nuova era nasce a partire dagli anni Novanta del Novecento. E’ l’era della “producibilità digitale” che segue quella della “riproducibilità tecnica” analizzata da Walter Benjamin e quella del “villaggio globale” mediatico-televisivo descritta da Marshall McLuhan. Il decennio in questione - preceduto ovviamente da altri cruciali decenni di ricerche e d’invenzioni che hanno il loro nucleo generatore nel computer e il loro luogo di “allevamento” soprattutto nella Silicon Valley californiana – è quello in cui nasce Netscape, il primo browser commerciale per la rete (1994), in cui si diffonde la nuova generazione dei personal computer multimediali e la tecnologia digitale rivoluziona il mondo performativo del teatro e della danza, la musica, la fotografia, il video e il cinema, consente le installazioni interattive, gli ambienti virtuali o “sensibili” e l’arte basata sul web (net art, web art, hacker art, software art, etc.) Una delle caratteristiche fondamentali di quella che molti oggi chiamano la “New Media Art” è la creazione di un meticciato, altri lo chiamano “ibridazione”, non solo fra arte e tecnologia, ma anche tra linguaggi artistici differenti, quasi tutte le opere sono infatti “di frontiera” fra arti visive, grafiche e arti dello spettacolo o musicali (basti pensare a una delle performance più famose di Golan Levin: Dialtones, a Telesimphony, un concerto per videoproiezioni e telefonini cellulari con la partecipazione del pubblico). Lo stesso principio di interattività connette in modo indissolubile la tradizione dell’installazione con quella dell’esperienza performativa e spesso video-cinematografica. Un costante sconfinamento tra i generi e i linguaggi che non annulla la specificità di ciascun linguaggio, ma tende per vocazione – appunto multimediale – al nomadismo tra esperienze e aree espressive differenti.
Il mondo dell’arte, dello spettacolo e dell’informazione non se n’era, come al solito, accorto subito, e negli anni Novanta le grandi esposizioni o rassegne internazionali e la bibliografia del settore ignoravano le neonate arti digitali e i new media, stavano cominciando solo da poco a offrire visibilità a i nuovi linguaggi artistici e performativi che sperimentavano fin dagli anni Sessanta l’uso del “video”, sviluppando sia nei contenuti sia nelle forme un grande fenomeno alternativo alle arti tradizionali (videoarte, videoteatro, videodanza, etc).
Oggi, che l’industria del settore ci bombarda quotidianamente di novità tecnologiche e noi consumatori abbiamo una maggiore familiarità con questi nuovi media (per New Media s’intende di fatto tutto il mondo digitale on line e off line: il Web, i media e i supporti digitali audio-visivi e la recente telefonia cellulare), anche il mercato dell’arte e dello spettacolo, l’editoria e le istituzioni cominciano a focalizzare l’interesse sul fenomeno, non senza difficoltà perché molto variegato, in continua evoluzione, spesso effimero, difficile da rintracciare, catalogare e conservare, spesso complesso nelle procedure creative e nei principi concettuali per chi non sia un addetto ai lavori o un abile utente. Uno dei segni evidenti che anche l’Italia, purtroppo ormai “tecnologicamente arretrata” non solo rispetto agli standard evolutivi asiatici e nordamericani, ma anche europei, sta ufficialmente scoprendo il mondo delle nuove arti tecnologiche digitali è la recentissima istituzionalizzazione dei corsi di arti multimediali (variamente nominati) nelle Accademie di belle arti riformate, infatti dal 2006 non sono più “in fase sperimentale” ma affiancano le tradizionali scuole di pittura, scenografia, scultura. Corsi avviati pionieristicamente alle soglie del 2000 nelle accademie di Brera a Milano, a Carrara, a Macerata, a Urbino, a Firenze, etc, da volenterosi artisti e studiosi con la complicità di direttori illuminati e spesso accompagnati dall’ostilità di molti colleghi “tradizionalisti” nonché da croniche mancanze di fondi, ora sono tra i corsi più gettonati dagli iscritti e tra i pochi che offrono concreti sbocchi professionali. Anche il mondo dell’editoria sta lentamente rimuovendo la sua diffidenza verso gli studi del settore, ancora una volta a seguito dell’esempio straniero (vedi le collane degli editori Taschen e Thames & Hudson). Proprio nelle ultime settimane del 2006, per orientare gli interessati nella labirintica mappa delle nuove tendenze artistiche e delle relative correnti di pensiero, dei presupposti e dei nuovi paradigmi estetici, etici e filosofici che questa mutazione antropo-tecnologica sta producendo, è arrivata una proposta editoriale interessante che raccoglie contributi di numerosi studiosi (alcuni dei quali sono docenti universitari e dei nuovi corsi multimediali delle accademie) e che fa seguito alla mostra-ciclo di conferenze Techne 2005, organizzata alla Spazio Oberdan di Milano, con il patrocinio della Provincia di Milano.
Il libro, che contiene anche alcune immagini in bianco e nero, è un tentativo piuttosto ambizioso da parte degli autori-curatori, quello di tracciare non soltanto delle coordinate descrittive del fenomeno dell’arte digitale ma anche delle chiavi interpretative, con diversi approcci disciplinari affidati a differenti collaboratori. Si parte dall’identificazione delle aree di ricerca artistica e dalle nuove figure di artista emergenti (ad esempio, autori collettivi, incroci fra arte e ingegneria informatica, artisti più interessati ai procedimenti o alla creazione di nuove forme di partecipazione fruitiva piuttosto che alla realizzazione di opere vere e proprie) , per esplorare lo sviluppo dell’arte interattiva fino alle molto discusse sperimentazioni bio-tecnologiche (come un vero coniglio fosforescente ottenuto mediante manipolazione genetica), si confronta l’esperienza della Net Art con il fenomeno dell’attivismo mediatico dell’Hacker Art, si affrontano le trasformazioni del linguaggio cinematografico indotte dal digitale e infine si delineano nuovi scenari antopologici e filosofici dove la macchina digitale interagisce con l’inconscio, smaterializza ed estetizza il rapporto con la realtà, e trasforma la soggettività contemporanea. In effetti, la tecnologia, pilotata dalla voracità del mercato, sta mutando “alla velocità della luce” non solo l’arte ma il nostro quotidiano, e associandosi allo sviluppo della ricerca genetica muta anche l’identità biologica stessa degli esseri viventi, e mentre questa accelerazione innovativa smantella molti pilastri delle nostre convinzioni più radicate e destabilizza principi etici millenari, la riflessione su questi temi di prioritaria importanza non è altrettanto tempestiva e non è ancora sufficientemente profonda. Questo è il vero pericolo e la vera incognita che viene dalla rivoluzione tecnologica in atto, non tanto un oscuro orizzonte di cui essa sarebbe portatrice, ma l’inadeguatezza dell’uomo contemporaneo nell’interpretare e quindi orientare nella prospettiva più propizia alla collettività le nuove straordinarie potenzialità che vengono dalla tecnologia. Di qui l’importanza di moltiplicare le occasioni di riflessione, facendo anche questo con uno spirito nuovo che è quello di incrociare sempre il pensiero con le pratiche, evitando di far procedere come troppo spesso è accaduto in tempi recenti, arte e pensiero su binari separati. Gli artisti che sono tradizionalmente votati all’azzardo e alla sperimentazione di nuovi media e di nuovi scenari possono allora dare un importante contributo a questa urgente necessità di interpretazione del senso (doppiamente inteso come direzione e come valore) dell’innovazione tecnologica.
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