ateatro 1.2 Ronconi videogame Lolita nel teatro delle meraviglie di Oliviero Ponte di Pino Gli ultimi tre spettacoli
di Luca Ronconi, le regie realizzate da quando è direttore
artistico del Piccolo Teatro (La vita è sogno di Pedro
Calderón de la Barca e Il sogno di August
Strindberg nel 2000 e Lolita sceneggiatura di Vladimir
Nabokov nel gennaio 2001), iniziano curiosamente con tre immagini
molto simili: una rampa o una scala che salgono verso l'alto e si
perdono nel nulla. Poi l'azione dello spettacolo si svolgerà
tutta sul palcoscenico, al livello dell'orizzonte. Quella
tensione verso un altrove è il segno di una promessa, di un'aspirazione.
Luca Ronconi è un regista
importante, probabilmente il più importante sull'attuale scena
italiana. Le sue poderose macchine teatrali conducono da decenni
una riflessione sempre più lucida e rigorosa sulla forme della
rappresentazione: sul rapporto tra rappresentazione e testo da un
lato, e dall'altro tra rappresentazione e realtà. Le sue prime messinscene
potevano rientrare nel filone della "regia critica",
fondata su una lettura "sospettosa" dei testi: con un
metodo già adottato dalla critica letteraria, attraverso gli
strumenti offerti da strutturalismo, marxismo, psicoanalisi, i
testi (e il personaggi) venivano smontati fino a rivelare
significati nascosti, contraddizioni interne, intenzioni
inespresse o rimosse, filtri ideologici. A queste lenti
interpretative, Ronconi ne ha aggiunto pragmaticamente un'altra:
il lavoro del regista con gli attori sul testo, sulla battuta,
sulla parola, come occasione per riportare alla luce ulteriori
cariche di senso - non tanto in chiave psicologica e
introspettiva, quanto in chiave analitica e semiologica. E'
attraverso questa pratica che si è cristallizzata la scansione
anticonvenzionale tipica degli attori "ronconiani" - le
battute spezzate, gli slittamenti di accenti e cesure, l'impressionante
lucidità che solo alla fine di un lungo percorso può trovare il
sentimento, l'emozione.
E' il metodo di lettura
tipicamente postmoderno, che - usando come trampolino la libertà
dell'interprete - ha finito per mettere in dubbio la possibilità
di un'interpretazione "forte", che rendesse conto del
significato ultimo di un testo (che era il postulato umanistico
su cui era fondata la regia "classica"), a favore di
una deriva potenzialmente infinita del senso. I presupposti sono
noti. L'autore non conosce tutti i significati e le implicazioni
della propria opera. Tocca dunque al lettore (e alla sua infinita
libertà) recuperarli. Sono note anche le conseguenze di questo
metodo critico: la deriva infinita delle interpretazioni porta
allo svuotamento del significato di un testo.
L'ingigantirsi spettacolo
dopo spettacolo degli strumenti analitici e delle macchine
sceniche di Ronconi, la consapevolezza sempre più lancinante
delle molteplici interpretazioni che un testo porta con sé (l'immane
stratificazione storica di letture e riscritture della Vita
è sogno che sottendono quella regia) e la loro sistematica
esplorazione, rappresentano un eroico tentativo di opporsi a
questa deriva infinita del senso. Al contempo, proprio nella loro
grandiosa espansione sono il sintomo di un inevitabile fallimento,
il tranquillante che non riesce a placare l'angoscia. Perché il
senso, più si cerca d'intrappolarlo, più si cerca di contenerlo
e più sfugge.
Sul versante della
riflessione sulle forme della rappresentazione, Ronconi utilizza
vari strumenti retorici. La consapevolezza della frattura tra la
rappresentazione e la realtà porta a messinscene sempre
acutamente consapevoli del loro aspetto convenzionale. Questa
consapevolezza della cornice porta spesso all'uso di un
esasperato "effetto verità" (vedi il raddoppiamento
della platea sulla scena: il Carignano in Misura per misura,
l'Argentina per Le due commedie in commedia).
Analogamente, può portare all'esplicitazione della frattura tra
la realtà e la natura convenzionale della rappresentazione: la
sovrapposizione di tempo reale e tempo teatrale in Ignorabimnus,
l'uso di veri treni, vagoni e carrozze negli Ultimi giorni
dell'umanità. Perché il teatro non è un'arte realistica,
anche se usa la realtà. Dunque la figura retorica più spesso
usata dagli "effetti speciali" scenografici ronconiani
è la metonimia - la parte per l'intero, il frammento per il
tutto (il mobile per la stanza, la porta per la casa eccetera,
come accade sistematicamente il Lolita).
Il teatro ronconiano si è
nutrito in questi anni nella dialettica tra questi elementi,
sperimentati nel loro rapporto con lo spettatore. E' stato un
percorso di ricerca costante, in molti spettacoli estremo,
radicale, fondato su una costante ridefinizione del linguaggio
via via definito. In questo consistono le sfide ronconiane:
rendere rappresentabili anche testi "impossibili", per
vedere se la forma retorica del teatro li può sostenere, e
contemporaneamente forzare oltre i suoi limiti quella forma per
trasformarla.
Nella complessità della
sua macchina scenica, Lolita sembra rappresentare, più
che un superamento, una sorta di inversione - anche se implicita
in certi aspetti del lavoro precedente. Il punto di partenza non
è più un testo, quanto una galassia di testi: Lolita
è ovviamente il celeberrimo romanzo di Nabokov, ma anche il
racconto (in russo) che lo precede nella bibliografia nabokoviana,
la sceneggiatura scritta per Kubrick (che è una traduzione
"per immagini" del romanzo, infarcita di didascalie, e
dunque in quanto ibrido tra i generi un irresistibile oggetto d'attrazione
per Ronconi), poi ovviamente il film di Kubrick e magari quello
successivo di Lynne.
La stessa favola di Nabokov
è un intreccio di lingue e traduzioni. Si sa che il rapporto tra
Humbert e Lolita riflette quello tra la natia lingua russa e l'americano
adottato nell'esilio. Ancora più complesse sono le
stratificazioni dei punti di vista: nel racconto s'intrecciano l'autobiografia
dello stesso Humbert, i commenti dello psicologo Ray, la commedia
di Quilty, i verbali della polizia, e nel finale la rievocazione
che la stessa Lolita fa del proprio passato... A queste
narrazioni si sovrappone, nella sceneggiatura, la voce dello
stesso Nabokov, che attraverso le didascalie descrive, sottolinea
e puntualizza. Come se non bastasse, lo stesso Nabokov si mette
in scena mentre va a caccia di farfalle e si reinventa come
addirittura personaggio, anagrammando il proprio nome in Vivian
Darkbloom. Ancora: a un ncerto punto dello spettacolo è lo
stesso Ronconi a farsi carico del ruolo del narratore, per
riassumere le scene tagliate dalla sceneggiatura.
Il punto di partenza è che
non esiste più un testo di cui inseguire - magari vanamente - il
senso, ma solo una galassia di testi, un intreccio di slittamenti
da un medium all'altro. In questo universo stratificato, il
teatro non pare più il luogo privilegiato rispetto ad altri
media per i tempi di lavoro (il laboratorio), per la qualità
degli attori (una compagnia stabile) e del pubblico, e per la
forza che nasce dalla loro compresenza. In questo orizzonte ad
avvantaggiare il teatro può essere semmai la sua tendenza a
farsi "opera d'arte totale" (in quanto somma di tutte
le arti), e quindi a contenere potenzialmente tutte le possibili
traduzioni, tutte le possibili rappresentazioni, tutti i
possibili linguaggi, tutti i possibili media. Il privilegio del
teatro, insomma, può essere la sua forma multimediale, la
compresenza di diversi linguaggi, il costante slittamento dall'uno
all'altro. E' una diversa declinazione della gran macchina
barocca delle attrazioni e delle sue vertigini (che Ronconi ha già
esplorato in numerose occasioni), ma al tempo stesso l'intreccio
rimanda irresistibilmente alle nuove tecnologie multimediali.
Così il palcoscenico di Lolita
diventa il come un gigantesco videogame con attori in carne e
ossa. Due grandi schermi ospitano proiezioni in continuo
movimento, nelle suggestive immagini curate dallo Studio 2EFFE.
Sono oggetti e paesaggi, frammenti di realtà (icone) e
reinvenzioni fantastiche, sfondi e primi piani, che duplicano e
completano quelle che si trovano in scena. Anche il mondo esterno
(per esempio il quartiere di villette dove abitano Lolita e la
madre) viene reso con un modellino, il quale a sua volta viene
filmato e riprodotto sullo schermo - la mappa e l'immagine. Perché
un'altra delle figure retoriche usate nello spettacolo è l'ingrandimento
e rimpicciolimento degli oggetti, lo slittamento di dimensione,
il confronto su varie scale. E' un meccanismo che mette in moto
immediatamente una serie di distanziamenti ironici, analogo a
quello che nasce dal confronto di codici diversi - quando il
linguaggio e il mondo hanno perso la loro innocenza.
In questo scenario, la
pedofilia e la seduzione (Humbert Humbert che seduce Lolita, o
forse il contrario) è scomparsa dall'orizzonte. I personaggi non
hanno psicologia. Sono figure bidimensionali, pure funzioni della
narrazione, giochi di parole (Vladimir Nabokov-Vivian Darkbloom,
Dolores-Lola-Lolita-Lo), burattini che solo alla fine del
percorso posso scoprire di avere un destino - e dunque rivelare
la loro natura tragica. Ma per l'intero spettacolo, possono
vivere solo attraverso un filtro ironico. Lo Humbert sempre
sbigottito di Franco Branciaroli, il Clare Quilty untuosamente
deformato da Massimo Popolizio, la Charlotte Haze della
bravissima Laura Marinoni sono maschere grottesche, caricature,
macchiette d'altissimo livello. Neppure l'adolescente
protagonista - che potrebbe incarnare l'innocenza della "cosa
in sé", del puro dato di realtà precedente a ogni codice -
si sottrae a questo sguardo: la "Lolita giovane" di
Elif Mangold (che parla in inglese) è fin dall'inizio doppiata
da Galatea Ranzi (che ne duplica le battute in italiano).
E con l'innocenza di Lolita
e la sua seduzione scompaiono anche molti dei temi canonici del
romanzo e del film: il trionfo del pop è ridotto a citazione, i
paesaggi americano trovano una struggente declinazione pittorica
- l'opposto del realismo - in quella che è un'ennesima
trasposizione-rappresentazione. Automobili e tassì sono
citazioni polverose di pop art. La stanza del sordido motel dove
si consuma lo stupro è un gigantesco letto-altare degno degli
amplessi di Tristano e Isotta in una modernizzazione kitsch del
grand opéra wagneriano. L'incontro con la "Lolita adulta"
potrebbe essere una citazione da Tennessee Williams.
Lolita è uno
spettacolo apparentemente ironico, ma forse profondamente tragico
- e non per il grottesco destino del protagonista. Certamente l'intelligenza
e l'inventiva di molte soluzioni, il gusto di tante invenzioni,
le vere e proprie trovate, in certi casi l'esplicità comicità
di molte situazioni divertono e apassionano nelle quattro ore di
durata dello spettacolo. Ma insieme, nel loro trionfale
dispiegarsi, sembrano alludere a un fondo inafferrabile, a un'impossibilità
di "rappresentare" davvero. Nella traduzione-trasposizione
da un medium all'altro, da un lato il testo sembra arricchirsi di
senso. L'ha insegnato Lévi-Strauss: a dare senso sono le
opposizioni, gli scarti, le differenze tra una versione e l'altra).
Ma dall'altro in questa prospettiva a restare inafferrabile è il
senso ultimo, il fondamento del rapporto tra i segni e la realtà.
PS Lo spettacolo - uno dei
pochi eventi della stagione teatrale e mondana, surriscaldato da
numerose interviste e anticipazioni - ha debuttato lunedì 22
gennaio ed è finito dopo mezzanotte. La mattina dopo alcuni
quotidiani già pubblicavano una recensione (scritta
evidentemente in anticipo, dopo aver visto lo spettacolo in
anteprima), suscitando l'irosa reazione dei giornali concorrenti
e qualche strascico polemico. La vicenda è curiosa, anche perché
la "prima per la stampa" di Lolita era stata
rinviata di alcuni giorni proprio per permettere una definitiva
messa a punto registica. Qualcuno si consolerà pensando che
questa frenetica caccia allo scoop teatrale - che già si era
verificata a Milano durante il Festival dei Teatri d'Europa - sia
un sintomo di salute delle nostre scene. Qualcuno invece ricorderà
l'epoca in cui i cronisti correvano fuori dal teatro (magari
prima che calasse il sipario) e correvano in redazione per buttar
giù a caldo, in fretta e furia, la loro recensione: lunga
descrizione del testo (coscienziosamente letto in anticipo, un
aggettivo per ogni attore, "caldi applausi dall'elegante
pubblico". Fortunatamente le prime "mondane" hanno
diritto a un apposito cronista, a lui il compito di elencare i
vip e misurare fischi e applausi. |