ateatro 96.60 11/03/2006 Le recensioni di ateatro: La pecora nera di Ascanio Celestini L'elogio funebre del manicomio elettrico di Valeria Ravera
Foto M. Iacovelli-F.Zayed/Spot the Difference.
“Io sono morto quest’anno”: si apre così La pecora nera - Elogio funebre del manicomio elettrico, il nuovo spettacolo di Ascanio Celestini. Queste parole – leitmotiv ripetuto più volte e richiamato da una grande scritta rossa su un pannello bianco – conducono immediatamente all’oggi perché, a differenza dei precedenti lavori dell’autore e attore romano, La pecora nera è declinato in buona parte al presente. In scena le lancette della macchina del tempo oscillano infatti tra gli anni Sessanta – i mitici, i favolosi, l’età dell’oro in cui tutto sembrava possibile e Gino Paoli cantava Sapore di sale – e i giorni nostri.
È negli anni Sessanta che Nicola passa la sua infanzia. Non è però un’infanzia favolosa e all’insegna del benessere, ma un percorso a ostacoli, una lotta con la povertà e l’emarginazione cominciata in famiglia grazie a un padre che non lo ha nemmeno registrato all’anagrafe, e proseguita sui banchi di scuola, dove si sente ripetere dalla maestra “sei il peggiore della classe, la mela marcia, la pecora nera”. Così, per uno scherzo del destino ma soprattutto per la cecità crudele delle istituzioni, la piccola pecora nera finirà in manicomio e ci resterà per trentacinque anni.
Ritroviamo Nicola alle prese con le meraviglie del consumismo del terzo millennio durante l’unica occasione di confronto con il mondo esterno che ha: la visita settimanale al supermercato, accompagnato dalla suora che lo segue in istituto da quand’era bambino. Lì rivede il suo primo e unico amore, Marinella, che da piccolo aveva conquistato mangiando un ragno vivo, per perderla immediatamente cedendo all’impulso di sbugiardarla. Ora vorrebbe riprovarci, ma i loro mondi non possono incontrarsi, se non una volta alla settimana, per lo spazio di una spesa: lui è rinchiuso in manicomio, lei nel supermercato dove non solo lavora ma vive, senza mai uscire.
Per La pecora nera Celestini ha scelto come terreno d’indagine la realtà manicomiale, raccogliendo in tre anni di ricerche le testimonianze di pazienti, infermieri, operatori, medici in diverse città italiane. Ne è scaturito un lavoro stratificato e multiforme in cui, ancora una volta, i piani drammaturgici si intrecciano, talvolta in maniera vorticosa, per ricomporsi mirabilmente nel finale. Con il suo eloquio torrenziale e sferzante, Celestini racconta il manicomio nella sua realtà di istituzione che opera un processo di omologazione appiattendo l’identità dei singoli sino a privarli della loro dignità e a farli scomparire. Dirompente e calzante è il parallelo con il supermercato, paese dei balocchi illuminato dai neon, luogo in cui ci si smarrisce bombardati da continue sollecitazioni al consumo, sempre a rischio di annegare in un lago di Nelsen piatti o di soccombere sotto una valanga di biscotti Ringo.
Su una scena sempre essenziale (una sedia, un paralume con un lungo stelo, un manichino di donna vestito di un sobrio abito nero, una sporta per la spesa traboccante di prodotti) ma meno spoglia di quelle dei suoi precedenti lavori, ancora una volta Celestini costruisce una galleria di personaggi a tutto tondo, ritraendoli con il consueto amore. A nessuno di loro, sia pure insulso e sgradevole, è negato un briciolo di umanità, un lampo di luce che lo presenti in una prospettiva inedita e inattesa. Ne è un esempio Pancotti Maurizio, il bambino più sciocco, presuntuoso e insopportabile della classe, che in qualche maniera si riscatta con una morte da piccolo eroe disgraziato, incapace com’è di scavalcare un cancello perché troppo grasso, asmatico e col soffio al cuore.
In questo viaggio nel disagio mentale, le bussole di Celestini sono l’ironia e la poesia, strumenti essenziali per mantenere sempre un tocco lieve. Ascanio va dritto al cuore raccontando la santità dei matti, la loro testa abbagliata perennemente da luci accecanti o immersa nel buio più nero, la paura che non li abbandona mai, finché non arrivano gli psicofarmaci a spegnere le luci o l’elettroshock a portare via il buio. Poi punta al riso con tanti spunti surreali: i marziani che assoldano le prostitute perché lecchino gli uomini e scoprano se sono buoni o cattivi, il papa polacco che resuscita e dice che Dio non esiste né tanto meno l’inferno e il paradiso, quindi i preti si ritrovano disoccupati e le chiese diventano parcheggi… È la voce registrata di una delle persone intervistate durante il lavoro di ricerca per la preparazione dello spettacolo a riportare prepotentemente alla realtà nel finale, rendendo lampante la sofferenza di chi ha vissuto l’esperienza del manicomio sulla propria pelle: non c’è consolazione per chi è stato internato a vita.
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