ateatro 95.8
20/01/2006 
Semplicemente complicato (Parte II)
Un incontro con Luca Ronconi
di Oliviero Ponte di Pino
 

La prima parte di questo testo è stata pubblicata in ateatro. L'intero testo è in corso di pubblicazione nel volume Luca Ronconi. Spettacoli per Torino, Umberto Allemandi Editore.

Tra le affinità va certo segnalato l’interesse per gli elisabettiani, prima ancora di quello – in fondo più banale e tuttavia problematico – per lo stesso Shakespeare, che pure ha frequentato in diverse occasioni. Mentre lavora su Re Lear a Roma nel 1996, riflette così sulle difficoltà di una messinscena shakespeariana in Italia.

Perché Shakespeare è difficile, difficilissimo. Perché non sapevo come farlo. Perché le commedie non sono scritte per compagnie come quelle che si usano fare in Italia: anche le parti minori, anche quelle minime sono importantissime, spesso non si può decidere chi è il protagonista assoluto. Perché è difficilissimo trovare traduzioni utilizzabili. (…) Ci sono tante ragioni per non fare Shakespeare. Certo che è bellissimo.
(intervista di Ugo Volli, “la Repubblica”, 17 maggio 1992)

Anche per quanto riguarda la drammaturgia elisabettiana, l’interesse non nasce tanto dalla presunta attualità dei testi, quanto dalle possibilità di lavoro drammaturgico innescate nelle singole opere, con le loro particolarità. Più che le costanti tematiche, ad affascinarlo negli elisabettiani sono la libertà e l’inventiva formale.

Una sorta di deriva elisabettiana è ancora rintracciabile, mettiamo, nella drammaturgia di Sarah Kane e anche in certe forme di scrittura teatrale che siamo portati a considerare come forme epigonali delle idee sceniche di Artaud, mentre bisognerebbe vedere quante di esse derivano, appunto, dal modello elisabettiano. Però la cosa essenziale è che di violenza, di trasgressione, di eccessi è pieno lo spettacolo nel senso più vasto del termine, dal cinema alla televisione, il che non può non far decadere l’importanza del dramma elisabettiano come modello o simbolo di tutto questo. E la cosa può essere tutt’altro che negativa, perché ci consente una maggior libertà di sguardo nei confronti, non tanto del dramma elisabettiano, quanto di singoli drammi elisabettiani, consentendoci di vederli non più come esempi tipici di un genere così fortemente caratterizzato, ma, appunto, come singoli testi.
(Intervista di Giovanni Raboni, dal programma di sala di Peccato che fosse puttana)

Nel canone ronconiano hanno un ruolo importante anche i tragici greci e Aristofane, frequentati a più riprese, fino alla trilogia Prometeo incatenato-Baccanti-Le rane allestita a Siracusa nell’estate del 2002.

Credo che il ritorno alle origini del teatro, alla necessità originaria del fare teatro che è rappresentata dalla tragedia greca, sia una necessità permanente che presuppone viaggi periodici di riesame e di riconsiderazione, specialmente nei momenti in cui ci si chiede se e quale possa essere ancora la legittimità della rappresentazione teatrale e in rapporto a cosa e in funzione di cosa possa svilupparsi.
(intervista di Maria Grazia Gregori, dal programma di sala di Prometeo incatenato, 2003)

E’ la ragione profonda del periodico confronto con Le Baccanti, a Vienna nel 1973, a Prato nel 1978 e infine a Siracusa. E nelle tre circostanze, i risultati saranno molto differenti: perché si tratta ogni volta di misurare una distanza diversa.

Da sempre sono convinto che nella messinscena dei classici (…) ciò che interessa è da un lato il viaggio alla ricerca dell’oggettività, certo sempre presunta, del testo e dall’altro l’esplorazione del cammino che il testo ha seguito nei secoli per giungere fino a noi. Si tratta di due momenti diametralmente opposti, ma perfettamente complementari: la messinscena di un classico è in fondo un modo per capire chi siamo, confrontandoci radicalmente con ciò che è altro da noi o, se si preferisce, è un modo per scoprirci, misurando la distanza da ciò che ci ha preceduti.
(intervista di Claudio Longhi, dal programma di sala di La vita è sogno, 2000)

Sul versante della drammaturgia italiana, emerge con gli anni, e soprattutto da quando ha la responsabilità di un teatro stabile, il tentativo di creare un canone, andando a recuperare alle scene autori di notevole qualità letteraria ma troppo poco rappresentati: ecco dunque Mirra di Vittorio Alfieri (1988), L’Aminta di Torquato Tasso (1994), Il candelaio di Giordano Bruno (1968 e 2001).

Mirra è stata una scoperta piuttosto sorprendente. Una volta superato il confronto con il verso e con Alfieri, sono venute alla luce relazioni fra i personaggi estremamente simili a quelle che si potrebbero vedere oggi, fra persone in giacca e cravatta o in jeans e scarpette. Non abbiamo usato jeans e scarpette, perché non ce n’era bisogno. Ma era conturbante lo stesso. Si pensa che Mirra sia innamorata del padre, perché se no non sarebbe Mirra. Ricordo bene che già alle prime letture del testo l’elemento di analisi più convincente era il rapporto fisico fra i due genitori. È un rapporto così violento, così forte da far pensare che loro stessi considerino la bambina un oggetto del loro amore, che essa si senta destinataria di questo e che ritenga naturalmente di dover corrispondere. Se è un doppio incesto è molto più accettabile di un incesto mitologico. Almeno nel testo di Alfieri. La stessa esperienza con Fedra [di Racine, 1984, n.d.r.], il primo spettacolo che ho fatto con Anna Maria Guarnieri, con cui avevo recitato come attore da ragazzo. Ho sempre avuto l’impressione che lei avesse in mente una Fedra completamente diversa. La passione, a mio giudizio, fa parte di una persona. La passione ci attraversa, come un sentimento. Recitare la passione non richiede un tipo di recitazione particolarmente ”estroverso”. È una cosa interna. Ho presentato Fedra per ciò che è, la tragedia della reticenza. Niente di “eruttivo”. Lo spettacolo è il risultato di un processo di lavoro. Faccio una cosa per curiosità, per conoscerla. E non, al contrario, la faccio perché la conosco.

Anche autori più frequentati sui palcoscenici italiani, come Goldoni, possono essere oggetto di una reinvenzione “nera”.

Non è vero che tra me e Goldoni non ci siano affinità: non ho affrontato per lungo tempo questo autore unicamente perché le opportunità organizzative non lo richiedevano. La vera divergenza può semmai esistere a proposito di uno stile registico che tende a proporci un Goldoni ballettistico e da commedia dell’arte (che tra l’altro l’autore non amava) e permeato da una vena nostalgica settecentesca.
(intervista di Loredana Lipperini, “Il Secolo XIX”, 19 settembre 1986)

Nel Goldoni ronconiano sono già presenti i grandi temi del teatro borghese.

Prima c’era il Goldoni arguto, vispo, brioso; poi c’è stato il Goldoni “poetico” fra virgolette. Questo testo è invece un tantino più greve, più acido. I personaggi sono tutti spiacevoli, stupidi, avidi, sensuali, egoisti.
(intervista di Paolo Cervone, “Corriere della Sera”, 22 settembre 1986)

Quella di Giovan Battista Andreini – grande comico dell’arte e dunque considerato da storiografi e critici un autore di scarso valore letterario e limitato interesse drammaturgico – è invece una autentica scoperta, il cui merito è tutto suo: Ronconi (che ha lavorato sulla Centaura all’Accademia nel 1972 e nel 2004 a Genova) firma addirittura le prime messinscene in epoca moderna delle Due commedie in commedia (1984) e di Amor nello specchio (1987 all’Accademia e poi 2002).

I testi di Andreini che ho messo in scena hanno creato tutti grande sorpresa, quasi un effetto di scoperta, che secondo me non avrebbe avuto luogo qualche decennio fa. Proprio perché certe discipline e certi procedimenti critici si sono arricchiti, o almeno modificati, rispetto a un certa tradizione ottocentesca (che da noi magari si è prolungata ancora nel ventesimo secolo…), è bene non forzare questi testi in una interpretazione patologica o quale sia, ma lasciar trasparire quasi in filigrana tutto quello che noi sappiamo, o almeno crediamo di sapere. Insomma lasciare che le nostre chiavi di lettura si sovrappongano al testo, e non sforzare l’opera facendola risultare pesante e impropria. (…) Il primo da scartare è il clichè della commedia dell’arte, che in questo caso risulterebbe teatralmente consolatorio, perché andremmo non sull’effetto sorpresa ma su un sicuro gradimento: “Visto che piace sempre, facciamolo una volta di più”. Nel testo sono presenti elementi di commedia dell’arte, ma bisogna sottolineare gli altri aspetti che abbiamo detto [quelli psicologici o patologici], evitando anche gli altri possibili clichè, come anche il melodramma. Per arrivare non al realismo, che è un procedimento stilistico, ma a ristabilire un criterio di verità del testo.
(intervista di Claudio Longhi, dal programma di sala di Amor nello specchio)

Un altro dei grandi filoni della ricerca ronconiana investe la drammaturgia della Mitteleuropa, quella esplorata da Claudio Magris nel Mito absburgico nella letteratura austriaca moderna (Einaudi, Torino, 1963), a cominciare dai prediletti Hugo von Hoffmannsthal e Arthur Schnitzler.

A un primo livello, il più ovvio, egli [Schnitzler] ci porta (insieme con altri) il richiamo del mondo asburgico, splendore e leggerezza di una decadenza che sta per conoscere il crollo. Ma in un primo tempo lo scrittore era noto soprattutto per l’erotismo crepuscolare di Girotondo e della Signorina Elsa. Quando ci si è accostati alle altre sue opere (Doppio sogno è esemplare), si è visto che dietro allo scintillare dell’erotismo c’era qualcosa di pericoloso, inquietante, e neanche tanto crepuscolare. Che l’erotismo così com’era assunto da Schnitzler non era sollecitante, bensì pericoloso. Che nelle sue commedie c’erano più veleni che dolcezze, e che in esse dominava un sotterraneo senso di catastrofe.
(intervista di Renzo Tian, “Il Messaggero”, 5 marzo 1985)

Non a caso, quando assume la direzione dello stabile torinese, il filone mitteleuropeo riemerge con evidenza.

Penso ai cinque, sei anni in cui ho fatto parte del Teatro Stabile di Torino e ne sono stato direttore [1989-1994, n.d.r.] e agli spettacoli fatti in quel periodo, e non a quello che era il mio “programma”, lavorando a Torino. Con il passare del tempo mi sono accorto che sviluppavo una sorta di riesame di ciò che avevo fatto in teatro, toccando alcuni importanti punti di riferimento teatrali del secolo che stava finendo, il Novecento. Naturalmente, fra i miei spettacoli c’erano anche classici, come Shakespeare. Ma mi riferisco a von Hofmannsthal, Kraus, O’Neill, Simone Weil, autori estremamente diversi l’uno dall’altro che però vanno nella stessa direzione di ipotesi di rapporto con il pubblico e di esame della realtà. Affrontano la crisi del personaggio e della crisi delle ideologie in testi con un forte carattere civile, anche se non programmatico, non dichiarato.

Forse quelli torinesi sono gli spettacoli con una valenza più fortemente politica della sua carriera.

E’ una cosa che non dichiarerò mai, perché amo che la cosa si scopra da sé, senza una chiave di lettura a priori. Il tema della crisi degli anni 1914-18 è certamente presente ne Gli ultimi giorni dell’umanità, la cronaca che ne fa Karl Kraus, ma riecheggia anche nella commedia L'uomo difficile di Hofmannsthal, che avevo allestito pochi mesi prima sempre a Torino.

Anche quando lavora sui classici, ne risultano letture fortemente legate all’attualità. Il suo Misura per misura riflette gli anni di Tangentopoli e dell’Aids, con un fortissimo senso della malattia. Nel Ruy Blas di Victor Hugo riecheggia il tema della corruzione. Così come Gli ultimi giorni dell’umanità dialoga con la situazione in Medio Oriente e in Iraq.

Anche in Venezia salva di Simone Weil riecheggia il tema della crisi. Ma non erano questi i motivi per cui ho fatto quegli spettacoli. Tuttavia mi sembra ci fosse una direzione, anche se non programmatica, anzi. Sembrava fossero i testi a chiamarsi l’uno con l’altro, e non una scelta a priori del regista o del direttore. Stava finendo il secolo, mi sembrava naturale buttare un’occhiata a ciò che era stato fatto e scritto. Forse il risultato è stato promiscuo, un polpettone. Ma, teatralmente parlando, è indubbiamente stato un punto di riferimento.

A Torino, rispetto ad altre situazioni, Ronconi lavora meno alla destrutturazione degli elementi costitutivi del teatro. In genere sono spettacoli formalmente meno “avventurosi”.

È vero. Intendevo il lavoro come uno sguardo retrospettivo. Mi sembrava evidente che tali elementi costitutivi cominciassero a essere piuttosto logori e che il “nuovo” potesse essere la possibilità di leggere, e non di scrivere, in un altro modo le stesse cose. Mi sembrava necessario leggere in un altro modo le stesse cose. Il termine “scrittura scenica” – all’epoca molto in voga – spingeva, a mio giudizio, a lasciare l’Amleto o Aspettando Godot esattamente com’erano, inserendo nello spettacolo alcuni segni esteriori ripresi dalla modernità. Si pensava che un modo “nuovo” di presentare uno spettacolo consistesse nel copiare ciò che di nuovo c’era nelle altre discipline: nelle arti figurative o nella musica. Va bene, ma si tratta di un modo di guardare il teatro piuttosto inflazionato. Tutto sommato, ci accorgiamo che tutti gli Amleti, anche gli Amleti più “diversi”, si assomigliano. Probabilmente bisogna cercare cosa c’è di “diverso” dentro l’Amleto.

Forse è ciò che tutti i registi che hanno rappresentato Amleto nel Novecento hanno cercato di fare.

Credo che per fare qualcosa di “moderno” – aggettivo comunque bruttissimo almeno nell’arte – non si debbano rimodernare le cose. Bisognerebbe fabbricare qualcosa che prima non c’era. Non basta girare il cappotto, inserendo i segni della modernità.

Come è prevedibile, Ronconi ha minor dimestichezza con la drammaturgia contemporanea, per la quale non nasconde una certa diffidenza. Troppo spesso la trova vincolata a moduli ottocenteschi, o a modelli estranei al teatro. Con qualche vittima eccellente.

Considero il teatro di Beckett estremamente legato alla letteratura e gli spettacoli tratti dalle sue opere non mi comunicano altro che una sorta di etichetta attraverso cui devono essere letti.

E’ come se la pratica teatrale avesse subito un’evoluzione che la scrittura per le scene non ha saputo assecondare. Un’eccezione, per quanto riguarda la drammaturgia contemporanea e in particolare quella italiana, è l’attenzione per il teatro di Pier Paolo Pasolini, con cui si è misurato di frequente.

Calderón faceva parte di una trilogia che partiva dalla Vita è sogno. Poi, all’inizio degli anni Novanta, ho messo in scena a Torino tre testi – Affabulazione, di nuovo Calderón e Pilade – proprio perché erano passati quasi vent’anni. Nel ’75 avevo lavorato su tre testi in cui la rivolta era al centro, in vari modi – nel testo di Pasolini si parla del ’68, nella Vita è sogno la rivolta diventa un problema metafisico, e La Torre di Hoffmannsthal è a metà tra questi due aspetti. Nel ’90 gli spiriti rivoluzionari si erano abbastanza assopiti, anche nei giovani: così ho voluto lavorare su quei testi per vedere se e come l’eco di situazioni storiche e di temperature non conosciute direttamente potesse essere recuperata attraverso la mediazione teatrale. Devo dire che la risposta è stata positiva, perché i ragazzi si sono veramente appassionati.

Nella teatrografia ronconiana gli autori italiani contemporanei sono molto rari, e gli esiti a volte non del tutto convincenti. Proprio per questo l’attenzione per Pasolini è ancora più significativa.

Contemporaneo non è solamente chi scrive in un determinato periodo, ma chi appartiene alla cultura di quel determinato periodo, in quel determinato paese. Un drammaturgo italiano degli anni Trenta che copia le commedie del boulevard francese non è un drammaturgo italiano, ma un imitatore di cose che hanno una loro contemporaneità nel loro luogo d’origine. Quindi non tutti quelli che scrivono teatro oggi in Italia sono autori italiani contemporanei. Inoltre Pasolini appartiene contemporaneamente al teatro e alla letteratura, e anche questo è un vantaggio: perché è un letterato che in quanto tale condivide il disprezzo dei letterati per il teatro così com’è. Poi, in quanto uomo di teatro scrive testi estremamente importanti, materiali che però hanno la necessità di una mediazione.

Anche Giovanni Raboni, un paio d’anni fa, notava che in Italia i testi teatrali più interessanti, negli ultimi decenni, li hanno scritti dei letterati, non dei drammaturghi professionisti. Anche perché sono più liberi rispetto alle forme e alle convenzioni del teatro. Citava, per esempio, Giovanni Testori e Mario Luzi.

Rosales di Luzi è un testo che mi interessa. Testori, ho pensato di metterlo in scena un paio di volte, La monaca di Monza l’avrei messa in scena volentieri. Ai miei esordi avrei dovuto fare la regia della prima edizione: eravamo un gruppo di attori, i più giovani eravamo Sergio Fantoni, Valentina Fortunato e io. Poi c’era Lilla Brignone, che però aveva la volontà – comprensibile – e l’impegno di farla con Visconti, anche alla fine se non fu un grande risultato. Molti dei testi successivi di Testori sono invece dei monologhi, e io non amo i monologhi.

Però nel teatro di Pasolini i monologhi hanno un ruolo fondamentale, sono quasi la struttura portante del suo teatro…

Ma lo sono anche nel teatro di Shakespeare! Però il teatro di Pasolini è molto spesso autobiografico… Nella sua opera l’io monologante spesso si sdoppia, si triplica, eccetera. Per esempio, già nella prima commedia che ha scritto, Storia interiore, ma anche in Petrolio. Nel suo Pilade, Pilade e Oreste sono due facce della stessa persona: dicono dei monologhi, ma c’è sempre una dialettica e un conflitto tra i due aspetti della stessa personalità. Questo dà spessore e interesse – oltre che ambiguità – ai testi pasoliniani. Anche nel Calderón, non sai mai in quante figure si proietti l’autore.

Ci sono due mondi in cui può essere declinato il rapporto con la biografia. Da un lato lavorare sul rapporto tra l’autore e i suoi personaggi. Ma è anche possibile ricondurre l’opera al vissuto dell’autore, alle sue esperienze e vicissitudini. E intorno alla biografia di Pasolini è sorta una vera e propria mitologia.

Gli aspetti della vita privata di Pasolini appartengono a lui. Non lo dico per delicatezza o per rispetto, ma è sbagliato elevarli a criterio interpretativo. Un’esperienza anche eccessiva è per chi la vive un’esperienza assolutamente normale, naturale. Usare la biografia come criterio interpretativo mi sembra un atteggiamento molto grossolano, sarebbe come leggere La ricerca del tempo perduto per fare la psicoanalisi di Proust. Ma figuriamoci, a chi può interessare?

Un altro dei motivi d’interesse del teatro di Pasolini riguarda la lingua.

Quell’impasto di passionalità e di retorica che c’è nella sua scrittura teatrale, e che ha dato tanto fastidio ai suoi colleghi letterati, è un ottimo materiale per essere messo in voce, per essere somatizzato.

Pasolini scrive le sue tragedie in un arco di tempo molto ristretto e in una fase molto precisa della storia del teatro italiano. La scrittura di Pasolini e le invenzioni teatrali di Ronconi sono due risposte a quella crisi.

In quel momento, per pochissimi anni, il teatro è stato un veicolo interpretativo estremamente forte. Dopo un periodo di crisi e di apparente isterilimento, è come se si fosse aperta una diga. E come sempre, quando si aprono le dighe, vengono distrutte le catapecchie ma anche delle cose pregevoli: aver buttato via tutto non è stata una cosa proficua. Nel caso di Pasolini, l’interesse per il teatro è venuto anche perché in quegli anni, fra il ’65 e il ’70, ci furono delle vere esplosioni.

Sono gli anni in cui arrivano in Italia il Living Theatre e il Teatr Laboratorium di Grotowski, e con Carmelo Bene nasce l’avanguardia teatrale italiana… A questa situazione, Pasolini dà una serie di riposte: quello che scrive sul teatro in ambito giornalistico, naturalmente le sue tragedie, e poi il Manifesto per un nuovo teatro del 1968 e nello stesso anno la regia di Orgia allo Stabile di Torino. Sono risposte molto articolate.

Più che articolate, contraddittorie. Le tragedie di Pasolini sono importanti, e restano. Il Manifesto, riletto con il senno di poi – ma forse anche prevedendolo con il senno di allora – è velleitario. Quella che lui ritiene essere la vera funzione del teatro, non può essere quella che indica lui…

Nel Manifesto Pasolini contrappone il suo teatro di parola da un lato al teatro borghese della chiacchiera, e dall’altro al “teatro dell’urlo”, cioè del gesto e del corpo, delle varie avanguardie. Insomma, per il recupero di una funzione civile, politica del teatro.

Ma su questo siamo tutti d’accordo. Il problema è che pensava che parola e teatralità siano due termini antitetici. Non lo sono. Sono complementari. Questa è l’impasse di quel Manifesto. Tanto è vero che quando ha voluto dare con la messinscena di Orgia un’esemplificazione di quel tipo di teatro, è stato un vero disastro. Non solo un disastro rispetto al pubblico, anche se comprensibilmente quelle élite operaie che lui sperava assistessero allo spettacolo se ne fregavano. Ma è stato un esperimento snobistico, e recepito come tale, senza nessun tipo di comunicazione, uno spettacolo totalmente inerte. Pensare che la sillabazione di un testo – eliminando quella che è la mediazione dell’attore – possa essere sufficiente, pensare che possa esserci una comunicazione diretta dal palcoscenico alla platea, è assurdo. La comunicazione è sempre trasversale, obliqua. Altrimenti ricadi in un didascalismo piattissimo. Certo, lo si può fare, ma non con i testi di Pasolini, che sono pieni di ambiguità e di reticenze.

Anche se per altri aspetti la sua è una scrittura profondamente esibizionistica…

…e allo stesso tempo reticente. E’ il fascino dei suoi testi. E’ impossibile leggerli piattamente. Perché proprio il carattere nascosto, non voluto, di un testo, quello che sfugge all’autore perché grazie a dio è un grande autore, è quella la matrice che genera la rappresentazione.

Dopo la regia di Orgia, Pasolini si disamora del teatro. Anche se a muovere entrambi era forse una consapevolezza comune: che l’ipotesi nazional-popolare, quella da cui erano nati i teatri stabili, non funzionasse più, o almeno non potesse più funzionare allo stesso modo.

In forme diverse, ci siamo abbastanza ritrovati, ma è anche vero che Pasolini rifiutava tutto quello che c’era.

Aveva e voleva avere una funzione provocatoria e pedagogica nei confronti del sistema culturale – e dunque anche teatrale – di quegli anni.

Il problema è che il teatro non lo conosceva, non ci andava. Se invece di pensare al teatro come a un rito borghese, con l’odio che aveva per la borghesia, l’avesse pensato come a un rito aristocratico, come di fatto era, lo avrebbe odiato di meno.

Un altro filo rosso che attraversa l’intera produzione di Ronconi è l’interesse per testi che non sono nati per il teatro: agli inizi l’Orlando furioso, e negli ultimi anni i romanzi di Carlo Emilio Gadda (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana nel 1996), Fëdor Dostoevskij (I fratelli Karamazov nel 1998) e Henry James (Nella gabbia con Annamaria Guarnieri nel 1991, Quel che sapeva Maisie con Mariangela Melato nel 2002), la trasposizione cinematografica di Nabokov per la sua Lolita, sceneggiatura, con un innovativo uso del video (2001), i saggi di Barrow (Infinities, 2002), in una attenzione costante a quella che gli studiosi hanno nel frattempo battezzato “intertestualità”. C’è, dietro a questa scelta, una consapevolezza: qualunque testo può diventare teatro, ma senza necessariamente il filtro delle tradizionali forme teatrali (il personaggio, la rappresentazione, il dialogo e il monologo, il plot e via dicendo). E’ una consapevolezza che può trovare conferma solo nella pratica, nel lavoro sulla scena, con gli attori, e poi nella verifica con il pubblico. Il successo di questi ambiziosi esperimenti fornisce la verifica empirica dell’idea di teatro che Ronconi è andato elaborando negli anni.

Noi siamo abituati a immaginarci il personaggio teatrale come una raffigurazione fedele della persona umana. Questo ha funzionato nei secoli scorsi finché ha avuto un valore di sorpresa e di scoperta, ma quando diventa una codificazione generalizzante, può asfissiare la drammaturgia, anche perché ci accorgiamo che non è vero, che è solo un luogo comune. Qui c’è invece un insieme drammaturgico che non propone dei personaggi ma solo delle figure. E’ una cosa davvero insolita, che permette però di lavorare con gli attori non alla costruzione di personaggi obbligatoriamente antropomorfi: per me è insolito e anche divertente lavorare all’incontro tra una persona vera come è un attore con una figura artificiale come lo sono quelle delle commedie di Andreini.
(intervista con Gianfranco Capitta, dal programma di sala di Amor nello specchio)

Al centro di questo processo è dunque l’attore. Che, soprattutto nell’interpretare testi non teatrali, deve sperimentare nuove possibilità.

Il lavoro dell’attore è essenzialmente basato sulla consapevolezza di abitare un territorio aperto in una specie di stato di bilocazione. Uso questo termine per descrivere uno stato di attenzione necessaria all’attore nel momento in cui il suo territorio è ancora una sorta di “terra di nessuno”. In questa terra di nessuno l’attore impara a controllare le ragioni e i meccanismi emotivi del suo personaggio, ma le parole che gli escono dalla bocca sono “dislocate” rispetto alle parole che uscirebbero dalla bocca del personaggio in quella situazione. Le prospettive e le condizioni del percorso sono differenti sia da quelle del teatro di estraniazione che da quelle del teatro di immedesimazione. Non è una semplice oscillazione tra una prima e una terza persona. È la necessità di controllare con continuità, durante lo spettacolo, i propri meccanismi percettivi e quelli del pubblico, in virtù di questa bilocazione. L’attore è tenuto ad avere una soglia di attenzione e una vigilanza estremamente alte perché sa che è impossibile proporre allo spettatore un’identificazione con “due persone” contemporaneamente presenti. Questo processo è basato su un principio di discontinuità molto forte e vivificante che porta l’attore a non appoggiarsi a niente: né al personaggio né alla sua interpretazione del personaggio perché il suo dettato è in parte interno e in parte esterno a quella figura, e quella figura è fluttuante. L’attore, in quella condizione, è il montatore di un film il cui girato è sé stesso. Una forma di scomposizione e ricomposizione, che è un metodo di improvvisazione determinata.

Forse così si possono superare le difficoltà specifiche degli attori italiani, prima tra tutte la mancanza di una autentica tradizione, di una vera e propria lingua (è per questo che Ronconi preferisce gli scrittori, che hanno una lingua propria, ai drammaturghi, che tendono a inventarsi un parlato italiano inesistente); fino ad arrivare alle distorsioni e ai malvezzi del teatranti nostrani.

Il controllo della voce nel canto ha del virtuosismo, dell’effetto brillante. Controllare le sfumature, ecco il difficile. L’attore italiano recita sui clichè. Ogni buon attore ha il suo repertorio di clichè, di effetti personali. Più il suo repertorio è vasto, più i suoi mezzi sono ricchi e più facile è di utilizzare. In Inghilterra, in Francia, in Germania, l’attore e lo spettatore si incontrano su un terreno comune: la lingua. Da noi questo non esiste, no, veramente. Niente – né l’italiano classico, né i dialetti, la cui vitalità è peraltro una leggenda – niente getta un ponte fra la scena e la sala. L’attore italiano lavora su una scrittura seconda, che crea uno scarto, traduce-tradisce il senso dell’opera. E lavora all’interno di questo décalage.
(intervista di Colette Godard, “Théâtre en Europe”, n. 1, gennaio 1984)

Malgrado questi difetti, l’attore è da sempre al centro del progetto di rinnovamento del teatro ronconiano.

Io credo nell’attore: ma penso a un teatro nel quale gli sia data la possibilità non tanto di esibirsi, ma di costruire il proprio lavoro. E’ il solo teatro “stabile” che vorrei fare e metto stabile fra virgolette, dando a questo termine l’accezione di una continuità, di una lunga prospettiva, di lavoro con una stessa compagnia. Perché è dalle lunghe prospettive che nasce il prestigio di un teatro, che è qualcosa di diverso che portare in villeggiatura questo o quel grande regista, questo o quel grande spettacolo. Che fare? In un teatro in cui trionfa l’omologazione fare comunque teatro è una sfida. Io amo le sfide. Allo stesso tempo non dico che se avessi in sorte un teatro mio le cose andrebbero sicuramente meglio. Ma penso che se Strehler avesse (come ha) il suo teatro, se Dario Fo avesse il suo, Guazzotti il suo e così via, si potrebbe sviluppare sul serio un confronto che non c’è. Solo allora – faccio un esempio – l’eventuale confronto fra Fo e Proietti diventerebbe qualcosa di civile per il pubblico perché sarebbe un confronto fra due modi di fare teatro e non fra due attori. Il vero teatro è continuità. L’importante è che ci siano possibilità per creare altre continuità: il che ovviamente non significa creare altri teatri stabili. Significa, invece, ribadire la necessità del confronto: solo così il teatro vive, solo così nasce una vera storia teatrale.
(“Il lavoro del pubblico”, in “Rinascita”, 22 febbraio 1986, poi in Il Patalogo 9, Ubulibri, Milano, 1986)

Quello da cui è tratta questa citazione – uno dei rari interventi pubblici di Ronconi – è una sorta di documento programmatico. Un paio d’anni più tardi, nel 1989, a 56 anni, Luca Ronconi assume la direzione del Teatro Stabile di Torino. Fino a quel momento, malgrado il sostegno di una parte della critica, il suo non è stato un percorso facile. La sua carriera ha scatenato polemiche e sollevato diverse resistenze: il suo stile registico e i moduli recitativi dei suoi attori sbeffeggiati come “ronconese”, i suoi sostenitori nel pubblico e nella critica bollati come “la setta dei ronconiani”. La direzione della Biennale e il Laboratorio di Prato erano incarichi di grande prestigio e responsabilità, e tuttavia marginali rispetto al sistema teatrale italiano, che nei teatri stabili hanno la loro spina dorsale. Quando approda alla direzione dello stabile torinese, non è più giovanissimo; ha alle spalle una serie di spettacoli memorabili e una lunga esperienza di lavoro con altri teatri pubblici (come il Teatro di Genova, l’emiliana Ater, l’umbra Audac) ed ha evidentemente riflettuto a lungo sul ruolo del teatro pubblico. Dopo Torino, nel 1994, passa alla direzione del Teatro di Roma. Nel 1998, dopo la morte di Giorgio Strehler, ne prende il posto come direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano (affiancando il direttore Sergio Escobar), fino al 2005.

Quando si parla di un Teatro Stabile, bisogna innanzitutto chiedersi qual è il proprio obiettivo: se lo si vuole scassare o qualificare o ampliare o, invece, circoscrivere. Fra i miei obiettivi, c’era quello di dare la massima qualificazione, sempre. Di rispettare la struttura e il luogo che un’istituzione teatrale cittadina richiede. Ho già smesso di fare il direttore artistico, a Roma e a Milano, proprio perché questo non era più possibile. Ho sempre pensato, e continuo a pensarlo, che un teatro non debba mai identificarsi con la linea personale del suo direttore, anche se il direttore è un regista. Avere una certa vocazione che porta a fare in un determinato momento un determinato spettacolo non è quello che bisogna potenziare. Tanto è vero che, per gli spettacoli torinesi, ho preso la struttura per quella che era. Non ho cambiato nulla, non ho “rivoltato il teatro come un guanto” per farne chissà cosa. Anche a Roma è stato così. Il buono stato di salute cittadino si misura da ciò che c’è. Se fossimo a Parigi, sarebbe inutile fare una seconda Comèdie Française. Se fossimo a Wroclaw, sarebbe inutile fare un museo del Teatro Laboratorio di Grotowski, perché c’è già. Inutile fare una cosa, quando già c’è, buona o cattiva che sia: è già accreditata. Ciò che sto per dire è modesto e riduttivo, ma penso che uno dei guai del nostro teatro è che manchi un “medio di alta qualità”. Manca un teatro medio di alta qualità, per esempio. E se pensiamo a direzioni alternative, c’è stato del grande teatro di ricerca e del pessimo teatro di ricerca. Negli anni in cui ero a Torino, e ancora di più oggi, il teatro di interpretazione era piuttosto abbandonato a sé stesso. Il primo obiettivo che volevo raggiungere a Torino era farlo riemergere e portarlo in una direzione. Se questa eclissi del teatro di interpretazione fosse un fenomeno generalizzato a tutti i paesi del mondo, si potrebbe pensare che sia un fatto storico. Ma è circoscritto all’Italia. In quegli anni, quindi, la funzione naturale di un teatro pubblico mi sembrava quella. È ciò che ho cercato di realizzare.

Tutto questo non può ovviamente prescindere dal destinatario dello spettacolo, ovvero dal pubblico teatrale.

Torno all’idea che è mia da sempre, che non esiste un solo teatro, ma che ne esistono tanti quanti – potenzialmente – possono essere i pubblici e che la vitalità del teatro si misura non soltanto sulla qualità degli spettacoli – che è irrinunciabile – ma anche sulla mobilità dei pubblici, sulla possibilità che esistano diversi modi di fare teatro che, di volta in volta, cercano il loro pubblico. Noi invece abbiamo un’idea generale del pubblico, un’idea quantitativa, veramente generica. (…) Un tempo pensavo – erano gli anni del Laboratorio – che fosse necessario ridefinire quanto avveniva sul palcoscenico. Ora invece mi chiedo: per chi? Perché sono consapevole che fare uno spettacolo in una situazione piuttosto che in un’altra equivale a fare una selezione del pubblico. In un Laboratorio contiamo noi – gli attori, i registi – e qualcuno viene a vedere quello che abbiamo fatto. Ma se si esce da questo cerchio sostanzialmente protetto il discorso è completamente diverso e l’interlocutore sono delle istituzioni teatrali che commissionano uno spettacolo che in qualche modo le rappresenti. E’ la maggior difficoltà, questa: perché ancora una volta sei costretto a porti la domanda del per chi lo fai.
(“Il lavoro del pubblico”, in “Rinascita”, 22 febbraio 1986, poi in Il Patalogo 9, Ubulibri, Milano, 1986)

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