ateatro 80.2 29/01/2005 Le recensioni di ateatro: il teatro politico secondo Luca Ronconi Il professor Bernhardi di Arthur Schnitzler di Oliviero Ponte di Pino
Una premessa
Nella carriera di Luca Ronconi le grandi macchine sceniche e l’uso inventivo dello spazio, l’ampliamento e il recupero del repertorio soprattutto italiano, la scelta di portare spesso in scena testi non teatrali, la decostruzione di testo e personaggio (con le sue conseguenze sulla recitazione) hanno messo in secondo piano la dimensione politica e civile di alcuni dei suoi migliori spettacoli.
Un indizio dell’attenzione del regista a questo aspetto della comunicazione teatrale – la sua dimensione politica e civile - può essere un titolo come Utopia, creato nel pieno dei turbolenti anni Settanta. In tempi più recenti, c’è il clamoroso esempio degli Ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, il memorabile spettacolo montato al Lingotto di Torino alla vigilia della Prima guerra del Golfo. Ma anche in allestimenti come Ruy Blas e Misura per misura nei primi anni Novanta non sarebbe stato difficile cogliere allusioni a quel momento della realtà politica italiana, e in particolare ai temi della corruzione e della giustizia. Anche se poi la più polemica più dura, finita persino sulle prime pagine dei quotidiani italiani, si è accesa in Sicilia intorno ai cartelloni con le effigi di Berlusconi, Fini e soci inseriti nella scenografia delle Rane a Siracusa e immediatamente tolti a causa del minaccioso intervento dei politici locali: non deve sorprendere che la valenza politica di un segno teatrale venga colta solo in occasioni come queste, in un paese dove la riflessione civile, al di fuori dei santuari della politica, si è ormai ridotto da anni quasi unicamente alla sua forma più superficiale, la satira.
Dunque ad alcuni può apparire sorprendente la lucidità politica, e anche il tempismo, con cui Luca Ronconi ha portato in scena al Teatro Strehler di Milano Il professor Bernhardi di Arthur Schnitzler, un testo che affronta con straordinaria lucidità una impressionante serie di temi caldi del momento, a cominciare dal contrasto tra scienza e fede, alla vigilia del referendum sulla procreazione assistita.
Lo spettacolo
Di Arthur Schnitzler Ronconi aveva già portato in scena Al pappagallo verde e Commedia della seduzione. Al Professor Bernhardi il regista pensava da tempo, tanto da immaginare un dittico proprio con Gli ultimi giorni dell’umanità, il testo-monstre sulla catastrofe della prima guerra mondiale. Allo stesso periodo storico rimanda anche questo testo, scritto nel 1912 ma rappresentato solo nel 1918, cioè dopo la fine dell’impero austro-ungarico; e soprattutto centrato su un tema, quello dell’antisemitismo, destinato nei decenni successivi a diventare ancora più tragicamente centrale.
Al centro del Professor Bernhardi è un episodio ricollegabile a una situazione vissuta dal padre dello scrittore. All’Elisabethinum, la clinica che il professor Bernhardi dirige a Vienna, e proprio nel suo reparto, una ragazza sta morendo per un’infezione, provocata con ogni probabilità da un aborto. Una iniezione di canfora trasforma la sua agonia in uno stato euforico, che le fa dimenticare la sua situazione. A quel punto Bernhardi (un Massimo De Francovich ai vertici della sua carriera d’attore) impedisce l’accesso al sacerdote (Gianluigi Fogacci) chiamato per impartire l’estrema unzione alla ragazza.
In una situazione dove già circolano i veleni dell’antisemitismo il gesto del medico ebreo diventa presto un caso esplosivo. All’interno della clinica le lotte di potere tra primari di diverse tendenze politiche e cordate carrieristiche si riaccendono immediatamente. Poi è la volta della politica, con i diversi partiti che strumentalizzano l’episodio per le loro battaglie, e successivamente della giustizia, perché il caso finisce inevitabilmente in tribunale. E non può mancare la stampa, prontissima a gettarsi nella mischia, ovviamente con i suoi metodi e obiettivi.
Nel Professor Bernhardi i temi di un teatro civile ci sono tutti: nei loro intrecci e rapporti reciproci, la politica e l’informazione, la scienza e la fede, l’antisemitismo, l’informazione e la giustizia, il denaro e la corruzione, le politiche sociali e l’insegnamento… Perché quella che mette a nudo Il professor Bernhardi è la meccanica del potere, forse addirittura quella che Michel Foucault ha definito “microfisica del potere”.
Attraverso un esauriente campionario di casi umani, a partire soprattutto dai medici dell’Elisabethinum, Schnitzler mostra come si costruiscono i discorsi politici: non tanto i grandi discorsi, gli ideali (o le ideologie), i programmi, quanto più modestamente i rapporti di forza, le alleanze, i centri di potere, le complicità. Ecco dunque schierarsi i nemici di Bernhardi, con le diverse sfumature della loro retorica e aggressività: il dottor Ebenwald (Giovanni Crippa), nazionalista e antisemita; il dottor Filitz (Riccardo Bini), per il quale la scienza senza fede “resta sempre una pratica insicura”; il carrierista dottor Tugendwetter (Lele Vezzosi); il dottor Schreimann (Sergio Leone), tedesco e cristiano; il tirocinante mediocre, servizievole e opportunista Hochroitzpointner (Pasquale Di Filippo). Ma si schierano, anche se con minor efficacia, anche i suoi sostenitori: il dottor Loewenstein (Elia Schilton), subito pronto a gridare al complotto antisemita; il dottor Pflugfelder, che difende l’operato di Bernhardi (Simone Toni) soprattutto come medico; e il dottor Cyprian, sempre alla ricerca del compromesso (Virgilio Zernitz). Completerà il quadro il geniale – ma totalmente impolitico – dottor Wenger (Tommaso Minniti), che Bernhardi sostiene nella carriera.
E’ già una illuminate galleria di tipi psicologici e politici (nazionalisti tedeschi, cattolici, sionisti…). La loro interazione – vivisezionata con lucida freddezza da Schnitzler - non può che risultare esemplare. Per di più intorno a loro si muovono altre figure ugualmente rivelatrici, a cominciare dal dottor Flint, un tempo compagno di studi di Bernhardi e di recente arrampicatosi fino alla poltrona di Ministro della Pubblica Istruzione (Massimo Popolizio gli regala una straordinaria caratterizzazione). Flint è ovviamente il prototipo dell’uomo politico, abilissimo a fiutare dove soffierà il vento, sempre pronto a cambiare posizione e amici, opportunista e cinico, sentimentale e spietato. E malgrado la diffidenza della sua vittima, continuerà facilmente a giocare al gatto con il topo.
I cinque atti della commedia – perché di commedia si tratta, malgrado i temi scottanti – si svolgono in altrettanti diversi luoghi deputati: tre luoghi pubblici inframmezzati da due luoghi privati, a dar conto dell’intreccio tra i due poli della vicenda, quello personale e quello politico.
La scenografia di Margherita Palli per i cinque atti del Professor Bernhardi nelle foto di Marcello Norberth. Il primo atto, nell'Elisabethinum, la clinica privata del professor Bernhardi.
Il secondo atto, nell'ambulatorio privato del professor Bernhardi: Massimo Popolizio (Flint) e Massimo De Francovic (Bernhardi) (foto di Marcello Norberth).
Il terzo atto, nell sala riunione dell'Elisabethinum. (foto di Marcello Norberth).
Il quarto atto, nel salone di casa Bernhardi (foto di Marcello Norberth).
Il quinto atto, nella segreteria del Ministero della Pubblica Istruzione: ancora un testa a testa tra Massimo Popolizio (Flint) e Massimo De Francovic (Bernhardi) (foto di Marcello Norberth).
Nel primo atto siamo nel reparto del professor Bernhardi, il teatro dell’incidente. Il secondo nel suo studio medico privato, dove è momentaneamente sostituito dal figlio Oskar (Raffaele Esposito), a rispecchiare, in un testo carico risvolti autobiografici, il rapporto tra lo stesso Schnitlzer – che era medico - e suo padre. Il terzo ci porta invece nella sala riunioni della clinica, per il fatidico consiglio in cui Bernhardi deciderà di dimettersi, in seguito alle dimissioni del consiglio d’amministrazione e al tradimento dell’amico Flint, che in Parlamento lo ha dato in pasto ai partiti antisemiti e ai giudici. Il quarto ci riporta a casa di Bernhardi, poco dopo la disastrosa conclusione del processo che ha condannato il protagonista a due mesi di detenzione (è lì che si svolge anche una delle scene chiave del testo, il dialogo “impossibile” ma chiarificatore tra il medico e il sacerdote). L’ultimo atto ci porta al cuore del potere, nell’ufficio di Flint al Ministero, proprio nel giorno in cui Bernhardi ha finito di scontare pena, accolto fuori dal carcere da una folla plaudente. E’ il momento della riabilitazione e del lieto fine. Questa vicenda tutta maschile, come si conviene a una storia di potere, era però iniziata con l’agonia di una donna. E alla fine sarà un’altra donna a rovesciare il destino del protagonista: perché la suora laica che dopo aver chiamato il parroco l’aveva accusato ora ritratta, aprendo la strada alla riabilitazione del medico ingiustamente perseguitato.
Con il senno di poi, Schnitzler appare un inguaribile ottimista: vedeva e sentiva con lucidità i veleni e i pericoli dell’antisemitismo, ma sperava che potessero essere neutralizzati. Non poteva sapere che nella stessa città in cui viveva e scriveva abitava in quegli anni Adolf Hitler.
La tensione fondamentale che dà energia al testo nasce dal rapporto tra il protagonista e tutti coloro che lo circondano. Lo scandalo che travolge Bernhardi parte da un evento apparentemente minimo, quasi privato, un episodio marginale: la scelta di compiere quello che ritiene il proprio dovere professionale, in quel momento, senza neppure pensare alle eventuali conseguenze, ma solo alla felicità e al benessere della sua paziente, lo induce a fermare il sacerdote. Insomma, Bernhardi agisce a prescindere dal contesto politico, seguendo solo la propria coscienza. A questa posizione Bernhardi resterà sempre ancorato, con pacata ostinazione, fino a perdere tutto. Pretenderà – all’inizio del suo calvario – giustizia e magari vendetta, ma alla fine chiederà solo di tornare a fare il proprio lavoro, rifiutando di dare una dimensione politica alla sua vicenda.
Invece gli altri personaggi – tanto gli amici quanto i nemici – misurano i suoi gesti e le sue scelte in base al contesto e ai loro obiettivi. In questa sua ottusità, Bernhardi è insieme un eroe e un antieroe, un martire che però può apparire vocato all’autodistruzione. La sua ostinazione, quella che il parroco definisce la sua “presunzione”, lo rende irrimediabilmente diverso, e in questa diversità sta il nucleo tragico della sua vicenda.
Da un lato c’è l’individuo, il caso particolare. Insomma, i diritti del singolo e il sentire etico al quale si attiene. Dall’altro c’è la collettività, con tutte sue logiche di appartenenza (le chiese, i partiti, le professioni, la famiglia, le istituzioni, le scuole, le cordate, eccetera), e con l’inevitabile subordinazione del bene immediato del singolo a un bene comune che ha scadenze più lunghe. Sono i due poli inconciliabili tra i quali siamo tutti per così dire sospesi: dunque cerchiamo quotidianamente mediazioni e compromessi più o meno dignitosi, più o meno efficaci. In condizioni “normali”, per così dire, tutto questo è possibile e giusto, praticabile, perché il corpo sociale ha flessibilità e inerzia sufficienti a evitare le esplosioni del tragico. Perché alla fine, malgrado le sue vicissitudini e traversie, Bernhardi verrà riabilitato (e, si può aggiungere, i malvagi la faranno franca…).
Ma a volte, quando il veleno s’insinua nelle menti e nei rapporti interpersonali, la “gestione corrente” delle coscienze diventa impossibile. I rapporti tra il singolo e la collettività determinano scontri sempre più duri. Nel caso del Professor Bernhardi, e della storia del Novecento, uno dei veleni più tossici è stato l’antisemitismo. Il testo di Schnitzler mostra gli effetti dell’antisemitismo allo “stato nascente”, quando è ancora difficile capire le sue conseguenze estreme, ma è tuttavia facile identificare le distorsioni che impone alle relazioni sociali e interpersonali, e come in qualche modo queste distorsioni si possano autoalimentare, in una spirale perversa.
Per l’austro-ungarico Schnitzler, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, nell’atmosfera ovattata ma già carica di tensioni della Finis Austriae, l’esito della vicenda non è tragico, anche se potrebbe chiaramente esserlo (alcuni dei personaggi di Ibsen, nei quali però è spesso presente una hybris violenta che in Bernhardi è totalmente assente, vivono per certi aspetti drammi analoghi). Anzi, nel dialogo finale sarà proprio un funzionario come il Consigliere Aulico del Ministero, il paradossale dottor Winkler (Massimo De Rossi), a offrire a Bernhardi l’ultima sponda: questa volta quella di un ingranaggio di un sistema in fondo impersonale come quello amministrativo-statale, che proprio per questo può professare una sorta di paradossale anarchia e trovare uno spazio di libertà, fino a sostenere le scelte di un singolo refrattario ai meccanismi di condizionamento collettivo.
Ronconi ha portato in scena il capolavoro di Schnitzler con umiltà e assoluto rigore, senza alcun filtro intellettualistico, come se si divertisse a dissezionare i meccanismi che governano le interazioni tra i personaggi ¬– e la drammaturgia analitica dello scrittore austriaco. La scena di Margherita Palli differenzia i cinque diversi ambienti con i colori del fondale, dal grigio al rosso, dal verde all’azzurro, disseminando nello spazio scenico gruppi di mobili che li scandiscono visivamente con rigore grafico. Questi oggetti abilmente disposti suggeriscono agli attori una serie di percorsi e di posizioni, quasi creassero un campo di forze e una griglia su cui scandire e misurare i rapporti reciproci. E’ proprio a partire da questa gerarchia spaziale che la regia costruisce i movimenti di scena. Basta osservare, nella scena nella sala riunioni, i percorsi dei diversi membri del consiglio direttivo dell’ospedale: quella che porta in scena Ronconi è una vera e propria politica dello spazio, che mette a nudo i rapporti che collegano i vari personaggi, gli individui e i gruppi, le fazioni. Ma è l’intero spettacolo a essere impaginato con una sapienza registica che permette di portare alla luce i diversi temi e livelli interpretativi del testo. La regia di Ronconi non privilegia una chiave con cui interpreta il testo, un’unica lettura, ma riesce invece a tirare contemporaneamente diversi fili ideologici e narrativi.
Sono cinque ore di spettacolo, Il professor Bernhardi, e tutte godibili. L’intreccio si sviluppa quasi come un thriller, seguendo la parabola del protagonista, e poi squaderna via via altri colori e temi in una complessità quasi sinfonica. Non si tratta mai di trasmettere un messaggio, ma di evidenziare le ambiguità e le contraddizioni del reale. Lo sostiene un cast di grandissimo livello, dove possono il rigore e la pulizia di alcuni attori possono convivere con caratterizzazioni più marcate, sempre di grandissimo livello, a cominciare dagli straordinari Bini e Popolizio. E tra tutti, naturalmente, perno centrale della vicenda anche nelle sue passività, c’è il Bernhardi di Massimo De Francovich, ormai diventato emblema quasi irrinunciabile del teatro ronconiano: lucido e misurato, nella sua costante introspezione, e tuttavia sempre pronto a mettere in gioco la propria sensibilità, a lasciar trasparire la forza trattenuta dei sentimenti. Mai vittimistico, trasforma l’umiltà e la ritrosia in una forza morale che gli permette di fornire un costante contrappunto al girotondo di amici e nemici. E’ proprio questo a permettergli di essere insieme, per l’appunto, eroe e antieroe. E di incarnare così i paradossi e le ambiguità di un testo di straordinaria ricchezza e sottigliezza. Prima di tutto politica, e di totale attualità.
Il professor Bernhardi di Arthur Schnitzler
Traduzione di Roberto Menin
Regia di Luca Ronconi
Scene di Margherita Palli
Costumi di Gianluca Sbicca e Simone Valsecchi
Luci di Gerardo Modica
Milano, Teatro Strehler
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