ateatro 64.33
14/02/2004 
Le ragioni del radicchio
Ancora sull'ETI
di Silvio Castiglioni, Direttore artistico Santarcangelo dei teatri
 

Di cosa parliamo quando parliamo di teatro? Come domanda non è originale, ma non me ne viene una più intelligente scorrendo le risposte delle Istituzioni al dossier ETI di Mimma Gallina e soci pubblicato su www.ateatro.it.
Un’occasione perduta, almeno fino a qui, per capire indirizzo, campo di lavoro e progetti. A cosa serve l’ETI? E come intende dar corpo alle sue funzioni? Bastava poco per rispondere, e il tempo per pensarci c’è stato. Invece registriamo un imbarazzante silenzio progettuale che fino a prova contraria pare la conseguenza della singolare pratica di fare e disfare cultura a colpi di maggioranza.
Il tono delle risposte poi, il loro carattere tecnico amministrativo, personalmente mi intimidisce. Magari hanno ragione loro, pensi. E ti figuri il povero amministratore che nuota fra mille difficoltà verso la sponda troppo lontana dove finalmente applicarsi ai compiti dell’Ente: il sostegno e la promozione del teatro italiano. Viene in mente il proverbiale acquedotto siciliano, fa acqua da tutte le parti e poca ne giunge a destinazione. Poi cerchi un pensiero che possa orientarti al di là dei tecnicismi, della difesa dei posti di lavoro, o della immaginaria dismissione dei teatri dell’Ente. Insomma cerchi un pensiero che giustifichi tanta fatica, lo cerchi e non lo trovi.
A parte alcune oscure o bizzarre argomentazioni (come la semplice opposizione fra la gestione a carattere ideologico che avrebbe contrassegnato la passata gestione dell’Ente e quella attuale improntata invece alla massima democraticità: ma cosa vuol dire?) leggo solo autodifese d’ufficio. Eppure, ripeto, l’occasione era buona per una risposta ad alto livello, per assumere vincoli chiari di fronte al teatro italiano, che comprende anche tutti quegli spettatori che preferiscono impegnarsi in una partecipazione attiva all’evento teatrale e non si reputano semplici consumatori di prodotti culturali.
Quando l’incuria e l’abbandono si abbattono su quei fragili organismi che sono le compagnie di teatro e di danza, fatti di persone che rischiano in proprio, o quando si toglie il sostegno a progetti di lungo respiro che fanno circolare linfa vitale nelle aree meno favorite e suscitano aspettative nelle nuove generazioni, allora bisogna avere una alternativa all’altezza se no tutta la comunità si impoverisce. E si impoverisce il nostro futuro. Per esempio nessuno mi pare abbia ricordato come recentemente siano stati lasciati morire due festival: uno a Rovigo, e l’altro a Castrovillari, par condicio Nord - Sud. Perché non si è andati in soccorso? Non toccava anche all’ETI prendersene cura? E non serve una risposta tecnica, se si ha a cuore la cosa.
Par di capire invece che la mai abbastanza esecrata eventizzazione della cultura sia finalmente approdata anche all’ETI. Una vera sciagura che ha origini lontane e non è certo un brevetto della maggioranza al governo. Guai perciò a caricare tutto il peso sulle povere spalle dell’attuale dirigenza. Come se si parlasse dell’eventizzazione dell’agricoltura. In nome di che cosa poi? Del cosiddetto ritorno di immagine, che è una espressione che prima ti fa sorridere e poi ti mette i brividi. Basterebbe considerare il teatro alla stregua della coltivazione del radicchio. Che preferisce la cura quotidiana agli avvenimenti epocali seguiti da successivo abbandono. Insomma te ne devi occupare ogni giorno. Gli eventi che segnano sono quelli già accaduti, e appaiono tali solo nel ricordo. Non quelli preparati ad arte, che puzzano di marcio il giorno dopo. Ma è vero che quando sistema della comunicazione e sistema del potere si rispecchiano l’idea cultura uguale grandi eventi ha una sua agghiacciante coerenza. E il radicchio va a farsi benedire.
Regole, assenza di regole… Paghiamo ancora l’antica diffidenza nei confronti dello stato borbonico e l’aristocratica paura di un egualitarismo verso il basso. Così gli artisti di teatro italiani, compresi i grandi, spesso hanno preferito concludere un patto separato col principe, piuttosto che usare la loro influenza per ottenere buone regole comuni. Poi ci sono anche le semplici regole del galateo, a volte clamorosamente disattese nelle quotidiane relazioni di collaborazione fra colleghi o compagni di strada; o quelle invece, perfide, imposte dai potentati di turno ai giovani artisti emergenti obbligati a rinnegare le umili origini, ancora una volta in nome di un malinteso senso del marketing.
Eppure di lavoro da fare ce n’è molto e abbiamo una grande ricchezza a portata di mano. Generazioni di artisti straordinari, riconosciuti anche all’estero. Negli ultimi anni, e non solo al festival di Santarcangelo, si sono realizzati significativi progetti italiani in collaborazione con partner stranieri. Opere che non potremmo sostenere con le sole nostre forze e che poi girano più all’estero che in Italia, come è noto. Insomma l’Europa dei teatri sostiene il teatro italiano. Torna la domanda iniziale: ma di cosa parliamo? Parliamo di invenzione, di creazione? Non tocca anche all’ETI proteggere le condizioni della ricerca? Che futuro può avere un paese che trascura la ricerca? Non tocca anche all’ETI incoraggiare il teatro a rischiare, ad aprirsi alle sfide del mondo contemporaneo, perché possa reggerne l’urto con la sua capacità di invenzione? Cosa se ne fa il teatro, incluso il teatro italiano, della sua fastosa tradizione se non è in grado di fronteggiare l’esperienza quotidiana della catastrofe? E non è lecito aspettarsi che venga incoraggiato e sostenuto proprio quel teatro che getta sabbia nell’ingranaggio che fissa l’equivalenza fra sistema di comunicazione e sistema di potere?
Oggi più che mai abbiamo bisogno di inventori. Penso che si dovrebbero sostenere gli inventori e non assistere i rivenditori.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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