Pubblicato originariamente sul "Patalogo 19", 1996.
"Le arti che non realizzano alcuna ‘opera’ hanno grande
affinità con la politica. Gli artisti che le praticano - danzatori, attori,
musicisti e simili - hanno bisogno di un pubblico al quale mostrare il loro
virtuosismo, come gli uomini che agiscono hanno bisogno di altri alla cui
presenza comparire: gli uni e gli altri, per ‘lavorare’, hanno bisogno di uno
spazio a struttura pubblica, e in entrambi i casi la loro ‘esecuzione’ dipende
dalla presenza altrui. Tale spazio destinato alle apparizioni degli uomini non
è affatto un attributo fisso e scontato di qualsiasi comunità. La polis
greca fu appunto quella ‘forma di governo’ che forniva agli uomini uno spazio
per apparire, nel quale agire, una sorta di teatro dove la libertà poteva fare
la propria comparsa".
Hannah Arendt, Tra passato e
futuro
"L’arte e la politica non funzionano come due ingranaggi
sincronizzati; un’idea non può essere trasposta semplicemente in un’immagine,
a meno di ottenere un quadro storto o un’esplosione dell’idea. Io sarei
piuttosto per l’esplosione".
Heiner Müller,
1983
"Per la politica ‘passare’ da Costanzo
è importantissimo, se Costanzo
passasse alla
politica subirebbe
una diminutio".
Enrico Mentana, 1996
Se esiste una
cosa che le varie autonomie dell’estetico ed opere aperte, elogi del
disimpegno e cadute di muri, fini della storia e morti delle ideologie,
videopoli e sondaggiomanie sembravano aver cancellato per sempre, è proprio il
teatro politico. Che senso può avere quando ormai, nell’era della telecrazia,
è stata decretata l’obsolescenza della politica?
La questione del teatro politico, oltretutto, pareva risolta già in
precedenza. Il problema, si argomentava, non è quello dei contenuti. Come
diceva Godard, non si tratta di fare film politici (o spettacoli politici o
libri politici), ma di farli "politicamente": il punto è l’elaborazione dei
materiali, la forma, poiché la qualità politica di uno spettacolo non dipende
tanto dai contenuti, o dalle etichette che esibisce, quanto dall’uso del
linguaggio e dal rapporto di comunicazione con il pubblico. Bisogna inoltre
tener conto del paradosso del "politically correct", con il suo paternalismo
apparentemente bonario. In teoria, il "politically correct" avrebbe dovuto
sancire il trionfo delle preoccupazioni "politiche" in qualsiasi discorso
pubblico. Tuttavia, nascondendo i conflitti dietro la griglia degli eufemismi,
degli interdetti e dei divieti linguistici, innesca un meccanismo di
autocensura che rischia di cancellare la realtà dello scontro politico. Di
conseguenza, fermo restando che di qualsiasi testo e spettacolo si può dare
una lettura politica, un teatro esplicitamente "politico" pareva confinato ad
un’età adolescenziale dell’evoluzione estetica, quando ancora era possibile
confondere l’arte con la propaganda, subordinare l’estetica all’ideologia.
Eppure, malgrado tutto questo, e contro ogni logica e previsione, di
recente in Italia sono state numerose le iniziative che focalizzano
esplicitamente l’attenzione e le emozioni dello spettatore su tematiche
politiche e civili. Ancora più significativo, il fatto che questa tendenza sia
avvertibile soprattutto tra i più giovani, sia nelle scelte di molti gruppi di
recente formazione, sia nei tentativi di scrittura drammaturgica presentati ai
vari premi.
Questo ritorno all’impegno ha assunto forme diverse, esplicite ed
impensabili solo qualche anno fa: passando dal recupero del dimenticato Brecht
agli spettacoli pro-Sarajevo, dal monologo sulla pena di morte al lavoro con
carcerati o portatori di handicap o malati di Aids, dalla riflessione critica
in forma di spettacolo su alcune pagine di storia recente (dalle guerre
mondiali alla Resistenza, dall’Olocausto al Vajont, fino alla cupa stagione
del terrorismo, rivisitata magari con la collaborazione dei protagonisti) ai
laboratori nei centri sociali, dalle compagnie multietniche alle ballate per
le vittime della mafia, senza dimenticare la satira dei "comici di sinistra".
In ogni caso se oggi si pratica un teatro politico, non ha un unico
modello, non segue un solo schema. Risponde presumibilmente a necessità
variegate, tanto da parte di chi lo fa quanto da parte del suo pubblico.
L’unico elemento comune è probabilmente l’esigenza di usare il teatro per
trasmettere un messaggio che è (anche) politico. Ovvero di compiere un gesto
politico che assume una forma teatrale.
Questo revival tradisce forse la nostalgia per un’efficacia che il teatro
(e la politica) sembra aver perduto, e che solo alcuni "profeti", considerati
con sufficienza dai più, come se fossero solo sopravvivenze del passato, come
Dario Fo, o Judith Malina e il suo Living Theatre, hanno disperatamente
cercato di tenere viva. O forse è l’indizio di un’esigenza più profonda, e
segna ancora una volta la necessità del teatro di misurarsi con la propria
storia, e ritrovare continuamente le proprie origini. Andando però alla
ricerca di un impegno politico e civile che rifiuta l’ideologia, per muoversi
in una zona che è insieme "prima" e "oltre" la politica, così come viene
tradizionalmente intesa.
Brecht
Parlare di teatro politico significa inevitabilmente rievocare
l’autore-simbolo del genere, il vecchio e tanto bistrattato B.B. A utilizzarlo
direttamente come arma para-elettorale ci aveva provato un paio di stagioni fa
il Teatro di Genova, con una messinscena della Resistibile ascesa di Arturo
Ui: il protagonista Eros Pagni alludeva, senza ombra di dubbio, al nemico
numero uno del momento, il Cavalier Silvio Berlusconi. Nelle parole del
regista Marco Sciaccaluga, la prima delle "emozioni" che l’ha spinto a mettere
in scena il testo è stato proprio "l’enorme, quasi imbarazzante, rimbalzare di
situazioni, battute, temi e trame che rimandano, non solo metaforicamente,
all’attuale grande travaglio della società italiana: la consonanza tra i
poteri finanziario, mafioso e politico nel loro perverso potere di dominio sul
mondo". Perché "in Arturo Ui sono sommati il grande capomafia, il politico che
ha fatto del cinismo finanziario la sua arma più importante, quello che ha
accettato di scendere a patti con la malavita e da questa poi è stato
ricattato. C’è anche il grande comunicatore moderno, che sa bene cosa sia la
propaganda. Arturo Ui è la maschera che li contiene tutti. Guai però a
indicarne con precisione una sola faccia" (dal programma di sala dello
spettacolo).
E’ fuor di dubbio che nel testo brechtiano non manchino possibili agganci
all’Italia della Seconda Repubblica. Ma, aldilà della buona volontà degli
artefici dello spettacolo (e aldilà delle forzature nel parallelismo Weimar
1933-Italia 1993), nell’era delle comunicazioni di massa il teatro appare un
veicolo di propaganda poco efficace: troppo elitario, troppo "colto" e
intellettualistico per poter competere con la forza d’urto della televisione o
con la facile presa di un buon numero di cabaret.
Quello di Genova non è stato però l’unico, né il più ambizioso, tentativo
italiano di recupero di Brecht. All’autore è tornato anche Giorgio Strehler,
che gli ha dedicato con un apposito Festival l'intera stagione del suo teatro.
Una scelta consapevolmente polemica nell’era di Formentini sindaco di Milano e
Berlusconi presidente del consiglio, con un programma che voleva forse
ritrovare - all’interno del ciclo di riprese dei suoi gloriosi spettacoli che
conduce da anni - l’originaria forza dirompente, l’ormai mitica epoca
dell’Opera da tre soldi e del Galileo, con le relative
polemiche. E magari recuperare la centralità del teatro all’interno del
dibattito culturale.
Ma nelle intenzioni programmatiche a interessare non è tanto il Brecht
"ideologico", percepito forse come datato e usurato. Nel presentare il remake
della sua Anima buona di Sezuan, clou della stagione brechtiana del
Piccolo, Strehler ne mette infatti in secondo piano la portata direttamente
politica, privilegiando in primo luogo la poesia: "L’attualità di Brecht sta
nella ricchezza dei suoi contenuti e nella grandezza poetica. In questo testo
si discute di cose eterne, della lotta fra il bene e il male: la nostra
condanna è di dover essere cattivi per poter fare il bene" (dal programma di
sala dell'Anima buona di Sezuan).In secondo luogo, Strehler sottolinea
la dimensione etica: "La risposta di Brecht, che ci arriva in modo poetico,
più che politica è etica. Non c’è solo il bianco o solo il nero, essere buoni
o essere cattivi. Brecht ci dice che per difenderci è inutile chiedere
consiglio agli dei, a chi ci governa, che dobbiamo alzarci noi, abitanti di
questo piccolo universo che non fa che girare su se stesso. Quel grido di
aiuto che Shen Te rivolgerà nel finale agli spettatori, stavolta, sarà più
vero e meno teatrale. Sarà una chiamata di responsabilità a noi tutti"
(Giorgio Strehler, da un’intervista di Anna Bandettini, "la Repubblica", 25
marzo 1996).
Malgrado le intenzioni, il ritorno a Brecht del Piccolo Teatro non è
riuscito ad andare oltre il successo di stima. Anche perché l’evento che
avrebbe dovuto chiudere questo percorso e misurare l’attualità del drammaturgo
in un cortocircuito con la realtà degli anni Novanta, l’annunciatissima
Madre Coraggio di Sarajevo (un’opera con cui "esorcizzare la tragica
capacità dell’uomo di distruggersi") non è andato in scena nei tempi previsti.
Lo spettacolo - che avrebbe dovuto finalmente inaugurare l’Incompiuta Nuova
Sede - resta anch’esso un’Incompiuta: infatti nel nuovo teatro mancano le
poltroncine, e Madre Coraggio può essere vista solo in forma di
lettura, in una sera d’estate, in via d’Amelio a Palermo e - a Milano - al
Teatro Lirico.
Per quanto ambizioso, l’isolato (per l’Italia) esperimento strehleriano non
può ovviamente dirimere l’annoso dibattito su Brecht. E’ davvero superato
perché i suoi schemi ideologici, il suo marxismo più o meno ortodosso (un tema
su cui si è discusso per decenni con ferocia), sono stati smentiti dalla
storia? Oppure ha già raggiunto la "sublime inefficacia dei classici"? O forse
è ancora "efficace", ma le grandi istituzioni teatrali non possono più, per la
loro stessa natura, farsi veicolo di un’autentica provocazione? Magari aveva
ragione Eric Bentley quando, parlando dell’influenza di Brecht sul pubblico,
spiegava: "Dante, è presumibile, ha cambiato molte meno persone di Tommaso
d’Aquino: se qualcuno può convertirti al cristianesimo, è più probabile che
sia un sacerdote o un filosofo piuttosto che un poeta. Se pensi che a
convertirti sia stato un poeta, forse ti stai ingannando: probabilmente il
poeta è arrivato dopo che la reale persuasione - se ce ne fosse stato bisogno
- era già stata fatta. Dunque, se qualcuno può diventare marxista, è più
probabile che venga convinto da Marx stesso, e non dai poeti marxisti. Se mi
chiedete se Brecht abbia avuto una qualche influenza sul mondo, dal
punto di vista politico, risponderei: molto poca, e non sempre nella direzione
che auspicava. L’influenza delle parole, dopo tutto, è spesso, in qualsiasi
contesto, abbastanza diversa dalle intenzioni" (Re-interpreting Brecht,
p. 193).
Sarà dunque proprio la sua inefficacia di propagandista a salvarlo
dall’oblio? "Brecht riteneva che fossero gli errori a conferire immortalità
alle opere d’arte. Finché contengono errori, finché non sono perfette - diceva
- sono utilizzabili, sfruttabili" (Heiner Müller, Tutti gli errori, p.
30).
Certo, in Germania, dove solo in questa stagione si sono visti decine di
allestimenti brechtiani (a cominciare dall’attualissimo Arturo Ui,
ultima regia di Heiner Müller, protagonista lo straordinario Martin Wuttke),
la situazione si pone in termini diversi. E se in Italia il ritorno a Brecht
non ha ancora trovato la sua chiave, è probabilmente solo questione di tempo.
Proprio Müller, del resto, ha affrontato nella maniera più diretta
l’eredità brechtiana sia dal punto di vista ideologico che da quello estetico.
O meglio, ha affrontato l’ideologia brechtiana (così come quella della Ddr)
inserendola in una dimensione tanto esistenziale quanto fisica, addirittura
corporea. Fino a portare l’idea stessa di teatro politico a conclusioni
paradossali. Il suo obiettivo non è certo quello di delineare una società
diversa, più equa e più giusta, o di suggerire linee di condotta, quanto
quello di destabilizzare la realtà, di renderla insopportabile.
"Mi trovo sempre leggermente in imbarazzo quando devo parlare
della mia posizione ideologica. Conosco solo un modo per rapportarmi alla
realtà: da artista. Per il resto vivo una condizione piuttosto infelice. Per
me la funzione dell’arte è di rendere impossibile la realtà: la realtà in
cui vivo, quella che conosco. (...) La prima esigenza è il bisogno molto
elementare di distruggere illusioni; sì, ci provo gusto a distruggere
illusioni: forse perché le mie sono andate in frantumi molto presto e ora
voglio provare l’effetto che fa sugli altri. Mi stupisco sempre quando sento
il pubblico, la gente che ha letto o visto qualcosa di mio, dire che li
deprimo. Rimango sempre a bocca aperta. Mi capita spessissimo di sentir
dire: ‘A scrivere cose del genere, dovresti impiccarti’... Non li capirò
mai. Come fa a deprimermi l’oggetto di una mia descrizione? Niente che io
sia riuscito a descrivere è in grado di deprimermi. Mi sembra che a
conversazioni del genere manchi sempre il riconoscimento di quanto sia
politico il lavoro dell’artista, anche a prescindere dalle prese di
posizione ideologiche. Descrivendo qualcosa produco o distruggo ideologia, e
così facendo produco forse consapevolezza. La descrizione di un avvenimento
è attività politica di per sé" ("Oltre il fascismo: riscoprire la
biografia", 1977, in Tutti gli errori, p. 43).
Sarajevo
Allestire come progettava Strehler una Madre Coraggio a Sarajevo
significa mettere il teatro a confronto con una delle più terribili tragedie
di questi anni. Ma ambientare un classico nella città bosniaca non è l’unica
possibilità di misurarsi con la tragedia iugoslava, e in generale con la
guerra e i massacri del mondo contemporaneo. Ci sono naturalmente quelli che a
Sarajevo, durante l’assedio, hanno continuato a far vivere i palcoscenici, in
condizioni proibitive, perché avvertivano la necessità del teatro; per
lo stesso motivo, c’è chi (come Susan Sontag) è arrivato laggiù dal "mondo
senza guerra" proprio per lavorare su quei palcoscenici disastrati(cfr. il
Patalogo 17, "La resistenza intellettuale a Sarajevo"). E sono i numerosi
testi (anche di autori italiani) ispirati a quelle vicende. Ma in reazione
alla catastrofe balcanica si sono sviluppate anche altre esperienze, forse
meno prevedibili e convenzionali.
Ai confini estremi del teatro si muove per esempio Salvino Raco, che nei
mille e più giorni dell’assedio ha organizzato in varie città europee, con
gruppi di attori e amici, una serie di performance di elementare
spettacolarità (semplici oratori, supportati da una colonna sonora di
esplosioni, spari e crolli) dedicate alla città bosniaca e ai suoi abitanti.
Ispirati alla necessità di "rompere il silenzio", sono eventi al confine tra
lo spettacolo e il rito, la manifestazione politica e la pedagogia, l’agit
prop e la performance, che lasciano lo spettatore sospeso tra la commozione e
il disagio. Spiega lo stesso Raco:
"I miei collaboratori sono attori, vecchi amici, che
sentivano il bisogno di lavorare sul tema della guerra. Ci interessa la
figura dell’attore sociale, quello che dice, che fa, che interviene sui temi
sociali, politici. I testi - che sono più che altro delle didascalie -
nascono da testimonianze reali, da lettere che ho raccolto dai profughi
presso il comitato milanese per la Bosnia a Milano".
Il lavoro nasce
in qualche modo da una richiesta dei profughi bosniaci?
"Non proprio,
anche se chiaramente volevano che qualcosa si dicesse. Probabilmente non nei
termini in cui l’abbiamo fatto noi. Per esempio, alcuni profughi non se la
sentivano di provare ancora una volta le sensazioni dell’assedio e sono
scappati via".
Non senti il rischio di spettacolarizzare un tema
tragico come quello della guerra?
"Non so se ho risolto il problema,
spero di sì, a partire dalla scelta di un luogo come la casa diroccata di
via Maggi, a Milano, e dal fatto di usare gli attori come semplici
portavoce. Non credo si possa parlare di spettacolarizzazione. Infatti non
lo chiamo ‘spettacolo’, ma ‘evento con drammaturgia animica’, che cerca di
toccare gli aspetti più intimi dell’esistenza".
Non sarebbe più
utile l’azione politica diretta - che so, una manifestazione di piazza?
"Ce ne sono già abbastanza. Molti spettatori mi hanno detto che non
vogliono più manifestazioni o chiacchiere, ma una sensibilizzazione
attraverso forme artistiche. Poi, secondo me, le posizioni politiche sono
sempre troppo rigide. Su questo tema a Parigi ho avuto uno scontro con una
personalità influente, che mi ha detto che non mi avrebbe sostenuto, perché
il problema iugoslavo è solo politico e tutto il resto non gli
interessa".
Il processo di sensibilizzazione non può passare
attraverso i mass media?
"Non credo che servano a risvegliare le
coscienze sopite".
In questi eventi, per gli spettatori ma credo
anche per gli attori, è molto forte una dimensione rituale, e quasi
religiosa, come se si trattasse di una cerimonia laica, della celebrazione
di una memoria e di una sofferenza che nasce, anche se in maniera
frammentaria, dalle rovine: le rovine di una città bombardata, di un palazzo
diroccato, ma anche le rovine della storia.
"C’è una
dimensione religiosa. Non era nelle mie intenzioni, ma è accaduto. Forse
perché le 55 vittime che vengono commemorate hanno voluto questo. Ma questo
è un modo per eludere la domanda. Probabilmente la comunione tra attori e
spettatori ha fatto sì che così accadesse. In teatro, la comunione delle
cose che accadono a attori e pubblico può portare a questo. E contribuisce
anche la scansione dell’evento in quattro momenti: attesa-riflessione,
denuncia, evocazione e commemorazione".
All’estremo opposto,
nell’immediatezza assoluta del comico, si pone invece la curiosa esperienza di
Clown senza frontiere, l’organizzazione non governativa fondata da Tortell
Poltrona nel 1993. Nel febbraio di quell’anno il clown catalano si era esibito
nel campo profughi di Veli Joze, in Istria: da quell’esperienza è nata
Pallassos Sense Fronteres (Clowns Without Borders), di cui fanno parte clown,
giocolieri, acrobati, burattinai e musicisti di tutto il mondo, accomunati
dall’obiettivo di alleviare il disagio di chi vive nei campi, soprattutto
bambini e ragazzi. Con i loro spettacoli, vogliono "migliorare la situazione
psichica e, ove possibile, sanitaria, alimentare e pedagogica, dei rifugiati".
Obiettivo principale di Pallassos Sense Fronteres è dunque l’invio di clown e
artisti nei campi, "per contribuire a migliorare le condizioni di vita
soprattutto facendo ridere la gente". Il presupposto è che le tragiche
esperienze e le disastrose condizioni dei profughi finiscano per cancellare
anche una fondamentale capacità umana: quella di ridere. Gli adulti devono
ritrovare il coraggio di ridere. I bambini devono a volte addirittura
"imparare a ridere". Per loro, Poltrona e i suoi amici organizzano spettacoli,
incontri e corsi, oltre alla distribuzione di materiale didattico.
In tre anni di attività Pallassos Sense Fronteres ha organizzato una
cinquantina di spedizioni non solo nei campi dell’ex-Iugoslavia ma anche
nell’ex-Sahara Spagnolo, tra i palestinesi di Gaza, tra i meniñ os de rua brasiliani, in Guatemala e a Cuba
(purtroppo nel "secolo dei profughi" c’è solo l’imbarazzo della scelta).
Gli attori viaggiano a loro spese verso queste destinazioni pericolose, e
cercano di portare un attimo di gioia spensierata (e corroborante) alle
vittime dei bombardamenti, dei cecchini, delle violenze, degli stupri...
Quando arrivano all’improvviso, in qualche desolato campo profughi, vengono
accolti con un attimo di esitazione e diffidenza. Ma ben presto si raccoglie
una folla che ride e sorride, con tanti bambini in prima fila. Per loro il
teatro è un’esperienza forte, forse necessaria. Dunque Poltrona e i suoi amici
organizzano spettacoli, incontri e corsi, per insegnare a ridere e sognare di
nuovo a chi ha dimenticato il segreto. E gli attori? Anche per loro,
l’incontro ha qualcosa di straordinario. Come spiega un "Clown senza
frontiere", l’americano Moshe Cohen, "recitare per spettatori che non hanno
riso da così tanto tempo, è una sensazione indescrivibile".
Il Gran Teatro del Mondo
Di fronte all’enormità delle tragedie della storia contemporanea, di fronte
all’infinito dolore che provocano e alla loro altrettanto grande insensatezza,
Raco e Tortona rappresentano due tappe di un percorso dove lo spettacolo pare
solo una tappa. Su un versante, corre una riflessione personale che tende ad
assumere venature religiose o metafisiche. Dall’altro, lo sbocco è l’azione
pratica del singolo a favore del singolo, nell’immediatezza del bisogno, volta
al ristabilimento della normalità (dove la normalità sono anche il teatro e la
risata). Entrambe le strade finiscono alla lunga per eludere il problema
dell’impegno politico, in uno scenario dove l’azione da parte dei "cittadini
del mondo" appare velleitaria. Come se i nostri strumenti di interpretazione
della realtà fossero diventati inutili, lasciando al singolo un senso di
sconsolata, infinita impotenza, al quale è possibile reagire solo con
l’attivismo volontaristico o con la contemplazione introspettiva.
"L’uomo moderno poco sa delle leggi che governano la sua
vita. Come individuo sociale reagisce per lo più sentimentalmente; ma questa
reazione sentimentale è confusa, indeterminata, apparente. Le fonti dei suoi
sentimenti e delle sue passioni, così come quelle delle sue cognizioni, sono
ostruite e come intorbidate. L’uomo odierno, vivendo in un mondo in rapida
trasformazione e trasformandosi rapidamente egli stesso, non ha di questo
mondo la benché minima idea in base alla quale gli sia possibile agire con
prospettive di successo; le sue concezioni della convivenza umana sono
distorte, inesatte, contraddittorie, potremmo dire impraticabili; cioè, con
una simile visione del mondo - del mondo umano - davanti agli occhi, l’uomo
questo mondo non può dominarlo" (Bertolt Brecht, Scritti
teatrali, vol. I, Einaudi, Torino, 1975).
Proprio intorno a questa sensazione è costruito La febbre, il
monologo (presentato in Italia un paio d’anni fa da Giuseppe Cederna) in cui
l’americano Wallace Shawn affronta di petto uno dei due problemi fondamentali
del nostro tempo, il rapporto Nord-Sud (l’altro, strettamente collegato, è
quello ambientale). Shawn non lo fa in termini generali, o generici, o
attraverso un qualche filtro ideologico, ma mettendo a confronto la coscienza
e la "falsa coscienza" di un individuo del "Primo Mondo". Un privilegiato,
dunque, ma in ogni caso non un paternalista, né un neo-colonialista, né
tantomeno un razzista; al contrario: chi parla nella Febbre è un
progressista ben intenzionato, tendenzialmente liberal e politicamente
corretto, tanto "assetato di giustizia" da confondere le memorie di
un’infanzia felice con la possibilità di realizzare l’utopia. In termini più
banali, è chiunque si interroghi sulle ingiustizie di questo mondo e avverta
la necessità di cancellarle.
A prima vista, un testo di questo genere può apparire "fuori tempo", dopo
che i grandi schemi ideologici di redenzione, quelli che promettevano il
riscatto ai poveri attraverso il mercato, il progresso tecnologico o il
comunismo, si sono rivelati inefficaci: non sono riusciti a diminuire il
divario tra gli eletti e i dannati, tra i ricchi e i poveri, tra i pochi e i
molti. E le azioni individuali, più o meno eroiche, più o meno coscienti, se
aiutano ad acquietare il disagio, appaiono sproporzionate alla dimensione
dell’ingiustizia. Ma è proprio qui, nel vuoto e nell’inefficacia di queste due
posizioni, nella semplicità (o nell’ingenuità) di chi rifiuta la rimozione e
decide di misurarsi con queste banalità fondamentali del vivere contemporaneo,
che esplode la forza del testo di Shawn, la sua provocazione morale.
Come tutti noi, il sensibile e colto protagonista della Febbre è
massimamente colpevole e massimamente innocente. Malgrado le sue buone
intenzioni, per colpa delle sue buone intenzioni, anche la violenza di cui non
è diretto responsabile o testimone finisce per inquinarlo.
In questa ambigua condizione, Shawn (o meglio il suo alter ego) inizia una
confessione visionaria e politica. La sua voce, ora tragica ora patetica, si
muove su un fronte che è insieme pubblico e privato, individuale e collettivo,
intimo e planetario. Perduto tra incubo e realtà in una città del Sud del
Mondo, circondato da violenze esplicite e implicite, assalito dai suoi ricordi
di privilegiato, sempre tentato di tracciare il bilancio di una comoda
esistenza, orgoglioso e vergognoso della propria cultura, del proprio buon
gusto, cerca di sollevare il velo dell’indifferenza morale e del cinismo,
degli alibi offerti dai grandi schemi ideologici (l’illusione che sarà il
motore della storia ad appianare le differenze, a renderci finalmente uguali).
Oltrepassa quello stadio dell’anestesia che è la buona volontà progressista,
ne smaschera le ambiguità e le illusioni. La svuota, anche se non può
superarla. Cerca di assumersi le proprie responsabilità e lascia affiorare
l’angoscia per una realtà insostenibile, eticamente, psichicamente e
fisicamente. Cerca di capire: cita Marx ("il feticismo della merce"), rilegge
magari Fanon e Camillo Torres, riflette, senza nominarli, su Cuba e Nicaragua.
Non trova soluzione, ma suggerisce una diversa consapevolezza.
Provare a costruire una diversa consapevolezza: forse il teatro non può
andare molto aldilà di questo (e dunque, alla lunga, ridursi dalla dimensione
politica a quella psicologica). Forse il teatro e la politica (almeno così
come l’abbiamo intesa fino a oggi) non sono più in grado di affrontare
problemi che hanno scala planetaria, che superano di molti ordini di grandezza
le possibilità d’intervento individuale. E allora quelle affrontate da Shawn
sono tematiche troppo generiche perché possano dar vita a un autentico
conflitto drammatico: naturalmente siamo tutti contro gli stupri di massa e la
pulizia etnica, tutti noi - a cominciare dalle star del cinema e della
televisione, con i loro sensi di colpa e l’attenzione all’immagine - siamo
contro l’Aids, la sclerosi multipla e le altre malattie alla moda, tutti noi
detestiamo le violenze contro i bambini e lo sterminio di foche, balene e
rinoceronti, nessuno di noi desidera che le moltitudini del Terzo Mondo
muoiano di fame nelle bidonvilles, nessuna organizzazione lotta perché il
pianeta si trasformi in una pattumiera.
Ma allora, se lo scenario globale è troppo grande, può essere possibile
ritrovare l’efficacia politica del teatro restringendo l’obiettivo e
focalizzando problematiche più specifiche e controverse? Forse tornare
all’orizzonte della polis, dove il teatro occidentale ha le sue
origini, e dove è nata e si è definita anche la politica, può offrire una
soluzione.
Teatro civile
Vajont di Marco Paolini e Mi uccideranno in maggio di Luciano
Nattino sono due esempi di teatro "militante" che affrontano temi di
indiscutibile impegno civile. Paolini attraverso la tragedia di Longarone
racconta la distruzione di una civiltà contadina, lo scempio ambientale e
l’arroganza dei potentati economico-politici nazionali. Nattino si cala nei
panni di Paul Rougeau, condannato alla pena capitale in Texas, che ha
raccontato attraverso le sue lettere la vita e l’insopportabile attesa
dell’esecuzione nel braccio della morte. Questi monologhi necessitano di un
supporto tecnico minimo (una lavagna per Paolini, lo scheletro di una cella e
un sistema video a circuito chiuso per Nattino) e quindi si prestano ad essere
presentati nelle situazioni più varie ed a costi contenuti; inoltre "il dramma
didascalico assume un suo rilievo di caso particolare sostanzialmente perché,
attraverso la peculiare povertà della messa in scena, semplifica e raccomanda
lo scambio tra il pubblico e gli attori e tra gli attori e il pubblico"
(Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica. Arte e società di massa, p. 132).
Realizzati da attori professionisti (che quindi non si limitano ad
utilizzare tecniche acquisite altrove, ma le usano per ampliare ed
approfondire la loro gamma espressiva), questi lavori vengono presentati in
genere fuori dai teatri e dai normali circuiti distributivi, in collegamento
con realtà in vario modo "militanti": le repliche vengono richieste da
organizzazioni che operano nella società civile (ambientaliste ed ecologiste
per Paolini, in particolare là dove sono in corso battaglie in difesa del
territorio e del paesaggio; vicine invece ad Amnesty International per il
lavoro contro la pena di morte di Nattino). Nascono da un’esigenza "forte" dei
loro autori-interpreti, per certi aspetti più etica che direttamente politica,
e si riallacciano forse all’epoca della loro formazione artistica e civile, le
lotte degli anni Settanta.
"Questo lavoro teatrale nasce dal bisogno di fare qualcosa
per fermare la barbarie della pena di morte nel mondo. Perché è così
difficile essere contro. Perché ci sono mani pronte, anche da noi. E’ vero
che c’è Amnesty e c’è un comitato ‘Paul Rougeau’ per la tutela a distanza
dei diritti dei detenuti nei bracci della morte. Ma non basta. Cosa possiamo
fare di più, tutti?" (Luciano Nattino, dal programma di sala).
"Il racconto si è arricchito di testimonianze raccolte nel lungo
elenco di luoghi che mi hanno ospitato: aule, municipi, biblioteche, centri
sociali, chiese, case, piazze ed alla fine anche teatri. Ma era lungo perché
non è mai stato pensato come uno spettacolo teatrale. E’ lungo per forza!
...perché alla fine ci sono quelli che si fermano perché vogliono sapere il
seguito... spesso restano tutti e si parla del processo, di oggi, di cose
che ci toccano da vicino, e si fa presto a tirar tardi. In quei momenti mi
sento spesso ‘esposto’, investito dal ruolo dell’intellettuale, e non mi
sento per niente a mio agio. Nessun artista di mia conoscenza vorrebbe oggi
essere investito di un tale onore, nessun artista studia da intellettuale
oggi, c’è penuria. Io in questi momenti resto lì perché mi vergogno di non
aver saputo e poi di aver saputo e di aver dimenticato questa Strage di
Stato che come uomo non posso ancora tollerare in silenzio. (...) Un paese
che dimentica se stesso è un paese triste; spero con tutta l’anima che
ascoltare questa storia serva a non dimenticare che è anche la nostra; che
questo popolo ci appartiene e non vuole essere dimenticato. Che il teatro
serva anche a questo, normalmente, non una tantum. Che questo mestiere
antico e bellissimo che faccio non sia del tutto inutile agli umani"
(Marco Paolini, dal programma di sala).
E’ probabile che
spettacoli di questo genere finiscano spesso per coinvolgere e "commuovere" un
pubblico già sensibilizzato e conquistato alla causa (e potrebbero rischiare
alla lunga di assumere una valenza consolatoria). Ma non vogliono essere
occasioni di semplice denuncia. Ambiscono ad essere prima di tutto momenti di
conoscenza e comunicazione, una funzione che evidentemente gli altri media non
riescono a svolgere in maniera altrettanto efficace: o perché evitano certi
temi, oppure perché si limitano a fornire un’informazione superficiale,
raffreddata da giornalisti ed esperti, filtrata dal supporto tecnico, senza
poter restituire la sostanza della reale esperienza umana. Nel contempo,
confrontandosi con una realtà forse troppo grande per poter essere ridotta in
uno spettacolo, esperienze di questo tipo tendono a sfuggire alla gabbia dello
specifico teatrale.
Tendono a slittare da un lato verso una forma saggistica, riconducendo
l’attore a un ruolo di didatta: "Spesso ci siamo detti che questo era un
lavoro da giornalisti, da giudici, non da attori, ma perché su queste cose non
fanno un’altra bella inchiesta?", si sfoga Marco Paolini nel programma di
sala. Oppure aspirano ad un iperrealismo documentaristico, nel quale a parlare
dovrebbero essere unicamente "i fatti" - mentre lo spettacolo non può essere
che un pallido (e in definitiva falso) surrogato dell’esperienza e della
sofferenza reali.
La storia
A raccontare come Vajont un frammento degli ultimi decenni di storia
(ma alla stessa pagina di storia è dedicato anche il testo di Maurizio
Donadoni Memoria di classe) sono molti altri spettacoli ed esperienze
di queste stagioni. (Anzi, spesso è l’intera esperienza del secolo che
vorrebbe essere condensata in uno spettacolo, in forma più o meno metaforica:
dal Novecento e Mille realizzato una decina d’anni fa da Leo De
Berardinis si è approdati, nelle ultime stagioni, al Novecento di
Alessandro Baricco, al Signor Novecento di Vincenzo Cerami e Nicola
Piovani per Lello Arena, al Millenovecentonovantadieci secondo Corrado
Guzzanti alla Ballata di fine millennio che Moni Ovadia ha presentato
all’interno del Brecht Festival del Piccolo...)
E’ come se ci fosse un vuoto di memoria, un salto nella trasmissione di
esperienze tra le successive generazioni, un vuoto che la scuola e i mezzi
d’informazione non possono (o non vogliono) colmare. Per chi è cresciuto nella
dimensione (vera o fittizia) della "fine della storia", per chi non li ha
vissuti in prima persona o ne è stato testimone, le due guerre mondiali, i
campi di concentramento e l’Olocausto, la Resistenza, ma anche gli anni del
terrorismo, sono stati oggetto per lo più di retorica e di rimozione, al
massimo di strumentale polemica ideologica.
Il teatro allora può offrire l’occasione per una riflessione storica, che
al tempo stesso permetta di accostarsi - indipendentemente da ogni filtro
ideologico - all’esperienza dei padri e dei nonni. In questa chiave è forse da
interpretare (aldilà del fascino da maledetto attribuito al personaggio e alle
più facili mitologizzazioni) l’interesse per l’opera di Pier Paolo Pasolini,
il cui nome viene evocato con costante frequenza: come se venisse ritenuto
l’ultimo Maestro in grado di confrontarsi con i movimenti più profondi, a
livello antropologico, della società italiana.
Entr’acte: Dalla politica-spettacolo allo spettacolo della politica
Alcuni di quei movimenti "viscerali" li hanno invece colti alcuni dei
nostri comici, che hanno fatto della battuta politica (e della battuta sul
politico) un’arma di sicuro successo. E in questi tempi convulsi, chi prima e
chi poi, hanno praticamente tutti deciso di darsi alla politica: se
Berlusconi, che aveva iniziato la carriera suonando il pianoforte sulle navi
da crociera, era riuscito in poche settimane a creare un partito che vale il
20% dei voti degli italiani e diventare primo ministro, un vero professionista
dello spettacolo avrebbe dovuto fare di meglio, con facilità. Ecco dunque
scendere in campo, tra gli altri, Beppe Grillo (30 giugno 1994: "Domani fondo
un nuovo partito, il partito del ‘Come va? Bene, grazie’. E alle prossime
elezioni mi candido. Scommettiamo che batto tutti?"), Claudio Bisio (8 gennaio
1995: "Quando eravamo a Viterbo, sui muri della città c’erano manifesti del
mio spettacolo Tersa Repubblica, dove mi si vede in una immagine bella
patinata, vestito di tutto punto, sorriso a trentadue denti, lo sguardo
rassicurante. Un po’ in stile seconda Repubblica, insomma. Quando il sindaco,
credo democristiano, li ha visti si è allarmato: ‘Bisio? Chi è ’sto Bisio?
Sarà mica il candidato di Forza Italia?’, pare abbia chiesto ai suoi
collaboratori. ‘Che fa? Comincia già ora la campagna elettorale? E’ sleale!’
"), Roberto Benigni (21 febbraio 1995: "Io vorrei tanto metter su un partito
con lei, Biagi. Ora va di moda gli alberi, si prende per simbolo un bel pero.
Slogan: fate una pera, e come va a finire va a finire"), eccetera.
E’ difficile dire quanti voti abbia portato all’Ulivo (o portato via al
Polo delle Libertà) la forza d’urto della satira di sinistra. Però è certo che
nei mesi della campagna elettorale il satirico si è trovato impigliato in una
forbice: chiaramente, quanto più il suo avversario è potente e individuabile
(e dunque "caricaturabile"), tanto più la sua satira avrà successo presso il
pubblico. Dunque la condizione del suo successo artistico e di pubblico è il
successo politico dei suoi avversari. Viceversa, il risultato del suo successo
politico è la sua estinzione.
Così, dopo la vittoria delle sinistre nelle ultime elezioni, alla precisa
domanda degli intervistatori preoccupati del declino del genere, i comici
davano come Benigni la risposta di prammatica: "Certo la destra viene meglio
perché è naturalmente più dotata per suscitare le risate. E’ come i
carabinieri. Perché si fanno tante barzellette sui carabinieri e nessuna sui
poliziotti? Mistero. Comunque mi sforzerò anche di sfottere la sinistra.
Veltroni-D’Alema: Kennedy contro Molotov. Magari regge" (E l’alluce
fu). Il tono è il rimpianto di chi sa benissimo che i tempi eroici ma
spassosi di Bettino e i Quaranta Ladroni, di Andreotti gobbo e diabolico, del
Miliardario Ridens e della sua gang, sono tramontati per sempre.
Già prima della vittoria delle sinistre alle ultime elezioni, del resto, i
più avvertiti avevano già annunciato l’abbandono della satira politica (anche
perché avvertivano, probabilmente, la stanchezza del pubblico di fronte
all’argomento). Tuttavia la possibilità che il comico, al di là degli stretti
confini della satira, possa ancora trasmettere un messaggio politico, non è
affatto esclusa. Almeno nella prospettiva di Beppe Grillo, che ha portato in
tournée il suo scatenato show teatrale tra gli applausi di folle calcistiche
nelle piazze di tutta Italia, prima di un finale di grande effetto
pubblicitario: il suo show è stato censurato dalla Rai nel gennaio del ’96 (la
logica dice che se esiste la censura, esiste anche un messaggio politico da
censurare).
"Posso farmi un complimento? Il problema non sono certo le
battute, ma gli argomenti che tratto. Il mio spettacolo fa paura perché è un
pezzettino di televisione diversa. E’ di questo che hanno paura: in una
televisione fatta tutta di lotterie, quiz e intrattenimento, di giochi e di
medium non possono accettare il precedente di un uso intelligente dei media.
I guizzi creano più danno che benefici. Di fronte a uno spettacolo come il
mio, io agirei esattamente come loro. Perché poi la gente dice: ‘Ma come?
C’è una cosa così e non me l’ha detto nessuno?’. Mi immagino la gente che
dice: ‘Ma come? C’è un paese dove la gente vive facendosi l'energia da sola?
Se la comprano, se la vendono, uno va in vacanza, torna e dal suo
apparecchio un computer gli prende l'energia e gliela pagano? E io sono qui
a battagliare con l’Enel?’ ".
E’ meglio che il tuo show non vada in
onda perché turberebbe il pubblico della televisione?
"La paura di
queste persone è che un pezzettino di televisione diversa creerebbe un po’
di turbe nell’ascoltatore medio, perché sono concetti serissimi, però
mediati da un comico. E quindi hanno un effetto dirompente".
Quindi
secondo te questi contenuti hanno più effetto se vengono veicolati da un
comico che da un esperto.
"Le cose che dico le prendo dagli esperti,
sono cose che tanta gente ha detto prima di me, su di essere non ho nessun
diritto. Ma il loro potere dirompente è la mediazione mia: perché attraverso
di me arrivano alle persone normali. Mentre l’esperto rimane lì, si
compiace, ha sempre paura di essere giudicato da un altro esperto".
Il ruolo della satira è dunque quello di dare voce a istanze che
altrimenti non raggiungono il grande pubblico?
"Non so che cosa
significhi satira. Io faccio della politica, attraverso la mia personalità,
che è paradossale. Mi esprimo in toni grotteschi, sudo, mi trasformo anche
fisicamente. Quando ho finito di lavorare, sembro più un cantante rock".
Nei tuoi ultimi lavori, il rapporto che hai con il pubblico è più vicino
al concerto rock che allo spettacolo teatrale o di cabaret...
"Oggi
vedo che la vera politica la fanno Brian Eno, Bono degli U2, Sting, un
pittore. La fanno tutti tranne i politici, che non hanno capito che non
stanno facendo più politica. Stanno facendo delle piccole rubriche della
settimana enigmistica, ‘Strano ma vero’, ‘Forse non tutti sanno che...’, ‘Il
tenero Giacomo vi rimanda all'ultima pagina’. I politici sono tutti soggetti
enigmistici, da cruciverba. La politica si è spostata. Chi fa politica con
qualche risultato, ci riesce perché è insospettabile. Chi viene a vedere il
mio spettacolo non pensa di venire a vedere un comizio".
Pensa di
assistere allo spettacolo...
"...ma sente un comizio. E’ questa la
mia macchiavellica".
La perdita della storia
Lo svuotamento della storia non riflette però soltanto il difficile
rapporto degli italiani con il loro passato prossimo, ma più in generale la
perdita del senso della storia nella società postmoderna. La ricostruzione
della storia attraverso il teatro (spesso basata su diari, racconti e
testimonianze della "gente comune") promette un’alternativa, per quanto debole
e fragile, a questa polverizzazione, spersonalizzazione e de-umanizzazione
della storia operata dai mass media. Offre la possibilità di costruire un
linguaggio e di raccontare delle storie. Del resto la rivisitazione della
storia (tanto in chiave di critica quanto in chiave di ricerca d’identità) è
da sempre una delle funzioni del teatro come luogo d’incontro e di
autorappresentazione di una collettività. Ma è sintomatico (ed è probabilmente
inevitabile, in uno "Stato senza nazione" come il nostro) che la scena
ufficiale, e in particolare il teatro pubblico, abbiano preferito evitare di
misurarsi su questo terreno, trascurando una delle proprie vocazioni
(implicita nel termine "nazional-popolare" che ha segnato l’epoca della
nascita degli stabili italiani), e dimostrandosi incapaci di offrirsi come
luogo di riflessione sulla situazione e la storia nazionale (salvo eccezioni,
come quest’anno il Pasticciaccio di Gadda-Ronconi). E’ altrettanto
sintomatico che l’interesse per la materia sia stato appannaggio di esperienze
in qualche misura marginali, episodiche, e sia avvertita in particolare dai
più giovani.
Leonka
Quella di definire e rappresentare un’identità collettiva non è certo
l’unica funzione di quel "teatro civile" di cui "l’Unità", presentando la
stagione teatrale, avvertiva il bisogno (Teatro civile ...in paese
incivile, 9 ottobre 1995). Una "scena civile" non deve solo costruire e
riflettere l’identità della polis e la sua storia: deve anche essere in
grado di riflettere e rappresentare i conflitti che la attraversano e la
dividono. Uno dei rari segni di ostentato dissenso antropologico, culturale e
politico nell’Italia di questi anni è venuto dai Centri Sociali, dove - in una
fase di relativa "permeabilità" con la realtà esterna - sono state realizzate
diverse esperienze teatrali (e più in generale culturali e artistiche), sia di
ospitalità sia laboratoriali, fino ad approdare alla realizzazione di veri e
propri spettacoli. Emblematico è il lavoro condotto all’interno di uno dei
centri più noti, il milanese Leoncavallo, attraverso due spettacoli "corali":
Randagi, realizzato alla fine del ’94, e Viaggiatori, andato in
scena nella primavera del ’96 (cui va aggiunta la messinscena della Visita
della vecchia signora di Dü rrenmatt
realizzata sempre nel ’96 da Roberto Corona).
A volte il flusso dell’esperienza - che in un centro sociale come il
Leoncavallo scorre più tumultuosa e turbolenta che altrove - si blocca per un
istante. L’esistenza nella sua immediatezza, come manifestazione di energia
vitale e reazione agli stimoli esterni, si trova sovrapposta alla propria
immagine. E questa sovrapposizione apre l’abisso, che può essere terribile,
che esiste tra sé e la propria immagine. In questo movimento di presa di
coscienza, energie e pulsioni vengono incanalate e formalizzate per dare una
struttura alla propria percezione di sé, e alla percezione che ne hanno gli
altri. Seguendo il percorso che va dall’esercizio, con i suoi meccanismi
consapevolmente ripetitivi, ad una auto-rappresentazione via via più
articolata e complessa, la pratica teatrale è uno dei metodi - forse uno dei
principali - di questa ricerca: perché il teatro impone di passare da una
messinscena dell’io (attraverso abbigliamento, atteggiamento, linguaggio
eccetera) a una rappresentazione del sé e dei conflitti che lo coinvolgono.
Proprio nella freschezza quasi laboratoriale, prima che per valutazioni
puramente estetiche, sta l’interesse del lavoro condotto al Leoncavallo da
Gigi Gherzi (per Randagi in collaborazione registica con Roberto
Corona, e nei due casi con il supporto per la drammaturgia con Claudio
Tomati).
Randagi ha la forma di una favola corale tipo La collina dei
conigli, in cui si fronteggiano due realtà: quella degli abitanti di una
città che si vuole felice a tutti i costi, popolata da una borghesia
efficientista e consumista; e quella dei randagi del titolo, beffardamente
refrattari a questa utopia senz’anima. In questo apologo politico non ci sono
veri e propri personaggi (a parte la maschera del Borgomastro): piuttosto due
cori che utilizzano forme della danza, della commedia dell’arte, del fumetto,
per rappresentare il conflitto che divide la città in un agit-prop ironico e
pieno di passione. Alla fine i "cattivi" bruceranno e distruggeranno il branco
dei randagi - che però rinasceranno come dalle loro stesse ceneri, a ricordare
che è impossibile cancellare il conflitto, che la parte oscura (nell’uomo,
nella società) non potrà essere eliminata. Con voluta ingenuità,
Randagi radicalizza il conflitto tra "normali" e "dropouts", ed
esibisce una contrapposizione frontale che non può (e non vuole) trovare una
sintesi. Non mette in scena solo la dialettica tra un centro e una periferia,
ma (se è consentita la metafora psicanalitica) lo scontro tra un super-io
distruttivo e un inconscio tendenzialmente autodistruttivo.
Viaggiatori è la fase successiva di questo laboratorio-incontro che
utilizza le tecniche del teatro per ricercare, esprimere e poi comunicare in
forma di spettacolo un’idea di sé e della propria esperienza di una "tribù" di
frequentatori dei centri. Questa volta il tema è quello della festa: cioè il
tempo e lo spazio "liberati" da vincoli sociali troppo stretti ("L’unica
libertà è nel tempo dato! L’unica libertà è nello spazio dato! Fuori c’è solo
SPAZIO per il TEMPO della malattia, della follia, del suicidio!"). E’ uno
spazio in cui ciascuno arriva con una propria identità di emozioni ed
esperienze: ciascuno dei trenta attori accoglie un gruppetto di spettatori
mostrandogli "le cinque cose a cui tengo di più". Ma questa identità non è
solo una ricchezza: limita le possibilità di fondersi nel caos originario, e
spesso porta con sé immaturità e infantilismi. E però la liberazione nel caos
non arriva spontaneamente: è necessario addirittura un truce maestro di
cerimonie, assistito da tre "streghe" in stile cubiste da discoteca, in grado
di innescare il processo, di guidarlo e di mantenerlo in moto.
Tra lo psicodramma e Mad Max, tra l’happening e l’animazione,
Viaggiatori (sottotitolo Esercizi di vertigine) è un
percorso di scoperta, un viaggio iniziatico in cui le guide - i veri
personaggi - hanno connotazioni sinistre e mostruose. Il gruppo degli attori,
incitati dal regista-domatore ed eccitati dalle sue streghe, si trasforma ed
evolve sotto gli occhi dei testimoni-spettatori. La danza guida il corpo verso
la liberazione: verso la fusione comunitaria, l’emancipazione dai tabù, il
piacere della trasgressione. Ma insieme, ambiguamente, questa liberazione può
coincidere, almeno in apparenza, con il divertimento coatto e industriale
della discoteca; l’emancipazione dalle pastoie regressive dell’individualità
ricorda il processo di disumanizzazione dei lager; la perdita d’identità può
scatenare processi di esclusione e di aggressività... Insomma, dai felici e
ingenui anni Sessanta dei figli dei Fiori a questi anni Novanta, anche se le
tecniche e il linguaggio restano gli stessi, anche se si spera di catturare le
stesse vibrazioni, la creazione di uno spazio e di un tempo "liberati" si è
fatta molto più difficile e a tratti angosciosa. Le tecniche "scoperte" (o
riscoperte) allora sono un indispensabile strumento di conoscenza, di
allargamento della coscienza e di scoperta di sé. E tuttavia possono diventare
anch’esse mistificazione e inganno, e si rivelano tali non appena la zona
liberata in cui vengono praticate queste tecniche si illude di aver tagliato i
ponti con il resto del mondo. Proprio nel tenere costantemente presente
l’ambiguità dell’esperienza della "liberazione", aldilà di facili utopie
consolatorie, Viaggiatori trova il suo senso: nel tentativo di dare
l’ordine di un racconto a un’esperienza in cui le estasi e le angosce, il caos
della comunità e la cristallizzazione della solitudine, si ritrovano
inestricabilmente allacciate.
Quello compiuto al Leoncavallo - aldilà dei risultati artistici - può
rappresentare un uso paradigmatico del teatro, sia per quanto riguarda la
definizione di sé sia per quanto riguarda la definizione di uno spazio
"altro". Ma pone anche un’altra questione fondamentale, che riguarda il
rapporto tra il teatro e la città. Che cosa accadrebbe se la città non fosse
altro che un amalgama di individui indifferenziati e intercambiabili? Se la
collettività non avesse uno spazio pubblico in cui rappresentarsi (e da questo
punto di vista "teatro" come luogo di autorappresentazione collettiva può
essere ed è anche un’assemblea, una piazza, o la televisione)? Chiaramente
smetterebbe di essere una polis, nel senso in cui l’abbiamo definita
finora.
Ma che cosa accadrebbe se, in questa collettività, un gruppo più o meno
marginale decidesse di dare una rappresentazione di sé in forma teatrale? Il
semplice fatto che un gruppo si illuda che esista una polis a cui
parlare, di fatto la fa esistere. Nel momento stesso in cui ne postula
l’esistenza, la realizza.
Nel caso degli spettacoli del Leoncavallo, per esempio, non è la
polis, l’insieme della città, che si rispecchia e si rimette in
discussione. Anzi: è solo una parte della città, un suo segmento in qualche
misura marginalizzato (o autoemarginato) che cerca attraverso il teatro una
rappresentazione di sé, una identità, per poi proporla all’insieme della
polis. Quel "noi", contrapposto al "voi" di chi non condivide la stessa
esperienza, nel momento stesso in cui si offre in quel luogo di comunicazione
e di scambio di esperienze che è lo spazio teatrale, rimanda immediatamente a
un altro "noi" che li comprende entrambi.
E’ questo meccanismo a fare la forza politica ed estetica di ogni gruppo
teatrale in grado di costruire una propria autonoma cultura teatrale. E’
questo meccanismo che rende reciprocamente necessari il teatro e la città:
l’uno senza l’altra non esistono. Ed è questo meccanismo che rende necessari,
per il teatro le esperienze di quei gruppi che possiamo raccogliere - malgrado
le caratteristiche specifiche e irriducibili di ciascuno - sotto l’etichetta
di "diversi" o di "marginali" (o magari di "stranieri", di "barbari"), per
scelta oppure per sesso, origine o caratteristiche psicofisiche: carcerati,
handicappati, immigrati, anziani, malati, eccetera. Senza dimenticare negli
anni scorsi le esperienze del teatro omosessuale e di quello femminista,
costruite proprio sulla diversità e che hanno avuto, fin dall’inizio,
espliciti obiettivi politici.
I diversi
E’ una sensazione che gli spettatori di Ravenna Teatro, della Compagnia
della Fortezza o dello Oiseau-Mouche conoscono bene: quegli attori
(rispettivamente immigrati africani, detenuti del supercarcere di Volterra,
handicappati) hanno una presenza particolare, emanano un’energia che è
difficile ritrovare in una "normale" compagnia teatrale. La loro "diversità" è
talmente evidente nei loro gesti e nell’intensità della loro presenza da
caricare la scena di una fascinazione irresistibile, insieme inquietante e
poetica.
In questo senso, Antonio Viganò, regista di Excusez-le ou Il vestito più
bello, parlando degli attori della Compagnie de L’Oiseau-Mouche dice: "Ho
rubato momenti di verità assoluta a degli attori, non a delle persone". Come
precisa una breve auto-presentazione del gruppo: "Si tratta di una compagnia
teatrale unica in Europa; i suoi componenti, attori professionisti, sono
ragazzi e ragazze con handicap mentale. La compagnia è nata nel 1981 e si è
stabilita a Roubaix, in Francia, lavora con differenti registi e coreografi e
fino ad oggi ha prodotto più di tredici spettacoli che sono stati portati in
tournée in tutta Europa e negli Stati Uniti. Gli attori ricevono una
formazione seria e completa (danza, arti plastiche, voce, musica e video) che
poi utilizzano negli spettacoli. Al teatro portano la profondità del loro
mistero, il loro silenzio a volte, una presenza teatrale intensa, dei gesti
insoliti e una stranezza propriamente poetica. Per gli Oiseau Mouche il teatro
non è questione di terapia, ma una scelta radicale di teatro professionale in
cui la qualità dell’agire, dell’essere in scena, viene al primo posto senza
scuse o concessioni. Gli attori della compagnia, nel loro handicap e nella
loro volontà di superarlo, sono una testimonianza di lotta contro tutte le
sofferenze e soprattutto contro le esclusioni. Sono diversi, ma solo loro sono
in grado di modificare il nostro sguardo. Liberano la nostra visione perché
più di altri ci invitano a viaggiare oltre le apparenze".
E’ proprio l’aspetto specificamente teatrale (più dell’interesse
sociologico o terapeutico, più del progetto d’integrazione di questi
"diversi") ad affascinare registi e pubblico. Ancora Antonio Viganò:
"Intorno all’handicap, oggi, ruota un grande business,
alimentato da un intervento pubblico enorme. Disabili e malati mentali fanno
anche sci, ma sempre in regime di separazione: li caricano su un pulmino e
via, verso un’attività che può essere anche la più costosa, ma non deve
turbare lo sguardo sul mondo - e i valori che lo innervano, anzitutto la
produttività - di chi si dice normale. Una cosa simile accade in ambito
teatrale, dove si parla di malattia e disagio, ma quasi sempre l’io-narrante
(e dunque lo sguardo che regge la rappresentazione) è una persona
normo-dotata. Noi abbiamo cercato di ribaltare questa impostazione.
L’io-narrante de Il vestito più bello sono i ragazzi che vanno in scena; con
le loro esperienze e il loro approccio alla vita. La diversità è rivendicata
e valorizzata. Aiutata a raccontarsi. Noi evitiamo di impostare il rapporto
con loro come se si trattasse di una terapia: ciò che facciamo è arte e
lavoro. Più la si nasconde, d’altronde, più la diversità si rende visibile:
sulla scena, un disabile o un malato mentale non può che essere e raccontare
se stesso".
Un atteggiamento analogo caratterizza il lavoro di
Armando Punzo con i detenuti del carcere di Volterra: "E’ come se fossi
diventato un archeologo: scrostando dallo strato più vecchio quelli più
recenti, facevo emergere quello che mi sembrava più autentico. Mi sono
lasciato catturare dalla loro emotività compressa. Ho voluto valorizzare tutto
il potenziale espressivo di questi uomini. Ho usato quel materiale, quella
gestualità ribelle - conosciuta quando ero bambino - per creare e ricreare una
realtà fittizia, l’immagine di un popolo che era nella mia fantasia, frutto di
un mio bisogno. Un popolo semplice, vitale e combattivo, non ammansito, non
ammaestrato, lontano dall’ipocrisia e dalla falsità" (La scena
rinchiusa, p. 28).
Ma il processo, che si svolge per la maggior parte in realtà chiuse e
segregate, interessa in primo luogo la percezione di sé di chi ne è il
protagonista: "Viene in mente che, probabilmente, l’asprezza di un’esistenza
passata in cella, ma poi sconvolta dall’opportunità che sa offrire il teatro
quando riesce a farti scoprire diverso da quello che ti sei sempre creduto, ha
finito per far nascere persone nuove. C’è il dubbio che possano esser nati
nuovi talenti. Ma la certezza che il lavoro del teatro, fatto così, abbia
insinuato tra quei ‘peccatori’ un’immagine di se stessi inedita, quella sì che
c’è" (Armando Punzo, da un’intervista di Carlo Ciavoni, "la Repubblica", 24
luglio 1996).
I "diversi", per riprendere la prospettiva di Hans Mayer, sono coloro per i
quali "non brilla la luce dell’imperativo categorico, poiché il loro agire non
può diventare la massima di una legislazione universale. Ma proprio per questo
l’illuminismo deve provare la sua verità davanti a loro" (I
diversi, p. 7). Non è inutile precisare che alla categoria dei
"diversi" appartengono secondo Mayer tanto i grandi eroi tragici, "prototipi
della diversità esistenziale in quanto perlopiù soggiacciono alla maledizione
divina", quanto i "personaggi drammatici che hanno potuto sopravvivere come
unica alternativa ai nomi mitici della tragedia greca: Faust e Amleto, Shylock
e Eulenspiegel, don Giovanni e don Chisciotte, Giovanna d’Arco e le femmine
distruttive".
Il diverso vive in una maniera particolare e personale questa "maledizione
divina". E vive anche un rapporto con il proprio corpo e con il mondo,
un’energia e un senso del tempo irrimediabilmente diverso da quelli degli
"uguali". Questa diversità è in qualche modo riconducibile alla diversità
dell’attore sulla scena, alla sua radicale alterità: la prima maschera, la
maschera originaria, è probabilmente quella della morte. Perché Dioniso, il
dio del teatro, è anche il dio dell’alterità, dell’uscire dal sé.
L’Altro
Con i "diversi" (gli immigrati, i carcerati, gli handicappati, ma anche i
giovani del Leoncavallo, eccetera) quello che entra in scena con tutta la sua
forza è l’altro. O, per usare le maiuscole care a Lévinas, "Autrui",
"Altri": "La manifestazione di Altri all’inizio si fa avanti allo stesso modo
in cui si fa avanti qualsiasi significato. Altri è presente in un sistema
culturale e ne viene illuminato come un testo dal suo contesto. La
manifestazione del sistema garantisce questa presenza e questo presente, che
si rischiarano reciprocamente alla luce del mondo. La comprensione di Altri è
in tal modo un’ermeneutica e un’esegesi" (Emmanuel Lévinas, La traccia
dell’altro, pp. 33-34).
Il gesto registico e lo sguardo dello spettatore si inscrivono dunque in
una "esegesi dell’Altro", che ha una lunga storia: "La filosofia occidentale
coincide con quel disoccultamento dell’Altro, in cui, manifestandosi come
essere, l’Altro perde la sua alterità. Dalla sua infanzia, la filosofia è
colpita da orrore per l’Altro che rimane Altro, è colpita da un’insuperabile
allergia" (op. cit., p. 27). Non solo la storia della filosofia
occidentale, ma anche più in generale quella della sua cultura e del suo
teatro sembrano aver ottemperato a questo imperativo: evitare che l’Altro
rimanga tale, assimilarlo alla propria razionalità, al proprio discorso.
Questa "assimilazione" genera tuttavia un altro dei paradossi di cui è
intessuta questa riflessione sul teatro politico. Affermare la propria
soggettività in quanto "diversi", renderla riconoscibile e comunicabile,
significa sottoporsi a questo processo. Nella speranza naturalmente di essere
accettati, come eguali tra eguali. Ma con il rischio di perdere la propria
identità, la propria "anima", per annullarle in un intreccio di tolleranze
reciproche, in un implacabile processo di omologazione. Si apre così una
incessante dialettica tra la richiesta di accettazione (per annullare le
discriminazioni e le ingiustizie) e l’autoemarginazione (per salvaguardare la
propria identità, magari postulando una diversità assoluta, irriducibile, in
grado di resistere a tutte le assimilazioni).
Del resto, una cosa è la "diversità", l’alterità in astratto, e un’altra
sono le diversità concrete che si incontrano nella vita e nella pratica
quotidiane. In astratto, la "diversità" e il suo "orrore" rischiano di
produrre solo mostri: uno spettacolo da baraccone che dà un brivido, ma riduce
l’Altro a cosa, a "monstrum" da esibire allo stupore e al sollazzo della
gggente. Fermo restando che il mostruoso può avere un suo valore
estetico.
Concretamente, invece, le diversità esprimono una loro visione del mondo,
una loro storia, una loro cultura, un loro rapporto con la realtà. Dunque la
prospettiva si può ribaltare. L’Io può diventare Altro e viceversa, come sa
bene Marco Martinelli: "E’ un paradosso: se la Romagna è Africa, incontrare la
cultura africana ha significato per noi approfondire la nostra tradizione.
Abbiamo trovato il fulèr perché abbiamo incontrato i
griot: e viceversa, lavorare in scena con attori italiani è stato un
modo per Mor, Mandiaye e Has di andare a scoprire le loro tradizioni più
antiche, come la cultura animista che sta sotto l’Islam, e che l’Islam tende a
cancellare. Mi diceva Mandiaye che tante cose importanti della ‘sua’ Africa,
le ha scoperte perché un giorno ha messo piede a Ravenna, perché ha incontrato
noi, perché ha cominciato a fare quella strana cosa che è il teatro, un po’
arte un po’ scienza, un po’ gioco un po’ messa in causa di ciò che si è"
(intervento al convegno "Theatre in a multicultural context", Stoccolma, 9-11
febbraio 1996).
Il Piccolo Teatro del Mondo
Il passo successivo consiste dunque nel costruire un rapporto paritario,
non paternalistico, tra un Io e un Altro: un rapporto di reciprocità, di
scambio tra un Io e un Tu. "Ricordo il momento preciso in cui tutti l’abbiamo
‘vista’, quest’idea: in treno, tornando da Mulheim, primavera 1992, avevamo
recitato Siamo asini o pedanti? al Theater an der Rhur. Rocco Militano
ci stava raccontando del progetto suo e di alcuni suoi amici di costruirsi una
casa in Sudamerica. Chiacchierando con lui è venuta l’illuminazione: perché
non costruire una casa, ma non solo una casa, una casa del teatro in Africa,
dove Mor, Mandiaye, El Hadiy, possano ritornare e praticare lì quell’arte
scenica che hanno cominciato a praticare in Italia, con le Albe? (...) L’idea
di costruire un teatro in Senegal, dove gli Arlecchini neri possano
improvvisare con la loro lingua, davanti al loro pubblico, ci lavora giorno
dopo giorno, ponendoci tante domande. Sarà un teatro al chiuso o all’aperto?
C’è bisogno davvero di quattro muri o è meglio una struttura itinerante? E le
Albe nere, che lo dirigeranno, in che relazione dovranno restare con Ravenna
Teatro? Continueremo a fare spettacoli e progetti insieme, ma quanti mesi qua,
quanti in Senegal? E certo, dovrà essere una casa del teatro aperta alle case
del teatro in Italia e in Europa, un luogo di fertile scambio tra il teatro
occidentale e la teatralità africana, ma come dovrà relazionarsi con la realtà
senegalese? E in che relazione con le Istituzioni di là? Con i gruppi di
musica e danza che già esistono, con gli intellettuali, con le scuole? Il
luogo dove operare è già stato individuato: Guedawaye, leggi Ghegiavai, un
piccolo comune alla periferia di Dakar, sull’oceano. Le Albe nere lo hanno
scelto perché è un mondo particolare: formato dagli immigrati che hanno
abbandonato i villaggi d’origine per trovare lavoro e sopravvivenza a Dakar, a
Guedawaye convivono le quattordici etnie senegalesi, e rispettive lingue e
tradizioni, dai musulmano wolof agli animisti diola. Un laboratorio vivente
per la società multiculturale: se dobbiamo imparare a convivere, bianchi e
neri, mi dice Mandiaye, è bene che impariamo a farlo prima tra noi senegalesi,
per questo il teatro può essere utile" (Marco Martinelli, "Hystrio",
aprile-giugno 1995).
Senza dimenticare che in molti paesi del Terzo Mondo, dall’Asia all’America
Latina, e naturalmente nel mondo arabo, il teatro resta un potente mezzo di
liberazione e di emancipazione: "Per circa venticinque anni - e con maggior
sistematicità a partire dall’inizio degli anni Ottanta - nei paesi in via di
sviluppo è nato un nuovo tipo di teatro politico, di orientamento pragmatico.
Alcuni osservatori lo definiscono ‘teatro del popolo’, altri preferiscono
‘teatro popolare per il cambiamento sociale’. Sfortunatamente entrambi i
termini evocano precedenti e sfortunati tentativi occidentali di fare un
teatro politico per i diseredati. Dunque preferisco chiamare questo nuovo tipo
di teatro per il mondo in via di sviluppo ‘teatro della liberazione’. Le
associazioni con la teologia della liberazione e il teatro degli oppressi sono
intenzionali, poiché l’attività e i metodi del teatro della liberazione sono
ispirati da attività che hanno un orientamento analogo nel campo della
religione e della pedagogia nei paesi in via di sviluppo. Dunque c’è una
differenza fondamentale con gran parte delle esperienze di teatro politico
occidentali: il teatro della liberazione è centrato sul processo e non si
focalizza sulla rappresentazione come unico scopo del teatro" (Eugéne van
Erven, The Playful Revolution, p. 1).
Ma senza neppure dimenticare, in quest’utopia di scambio interculturale,
che "la comunicazione avviene solo tra due esseri messi in gioco
- lacerati, sospesi, chini entrambi sul loro nulla" (Georges Bataille, Su
Nietzsche, p. 51).
Nota
Nel corso di questa riflessione ho utilizzato innanzitutto
gli Scritti teatrali di Brecht e gli scritti di Heiner Müller (in
particolare Tutti gli errori, Ubulibri, Milano, 1994); poi, sulla
storia e la crisi del teatro politico, Walter Benjamin ("Che cos’è il teatro
epico?", in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica, Einaudi, Torino, 1974), Erwin Piscator (Il teatro
politico, Einaudi, Torino, 1976), Massimo Castri (Per un teatro
politico, Einaudi, Torino, 1973), Re-interpreting Brecht: his influence
on contemporary drama and film (a cura di Pia Kleber e Colin Visser,
Cambridge University Press, Cambridge, 1990).
Per quanto riguarda il pensiero "impolitico" (inteso non come
spoliticizzazione, né ispirato da un atteggiamento apolitico, ma vissuto come
"un eccesso, un’intensificazione, una radicalizzazione del politico"), mi è
stato prezioso il volume Oltre la politica, a cura di Roberto Esposito
(con scritti di Adorno, Arendt, Barth, Bataille, Blanchot, Broch, Canetti,
Patocka, Weil), Bruno Mondadori, Milano, 1996. Sul tema "oltre il politico",
non è inutile citare le Albe di una decina d’anni fa: "Le Albe producono
teatro politttttttico. Perché politttttttico? Perché con sette t? Vediamo
sette possibili risposte. (...) 5. E’ sapere che non possiamo cambiare il
mondo (leggi Rivoluzione) ma qualcosa, in qualche angolo, qualcosa di noi, di
qualcunaltro, dispersi su un piccolo pianeta che ruota attorno a un sole di
periferia in una galassia tra le tante, arrestare una lacrima, curare qualche
ferita, sopravvivere, essere odiosi a qualcuno, saper dire di no, piantare il
melo anche se domani scoppiano le bombe, perdersi in un quadro di Schiele,
aver cura agli amici, scrivere certe lettere anziché altre (leggi
Rivoluzione)" (intervento a Narni, 1987, poi in Ravenna africana, a
cura di Marco Martinelli, Edizioni Essegi, Ravenna, 1988).
Nella mia ricerca delle possibilità di un teatro
"impolitico", ho utilizzato tra l’altro Hannah Arendt (Vita Activa,
Bompiani, Milano, 1964; "Bertolt Brecht: il poeta e il politico", in Il
futuro alle spalle, Il Mulino, Bologna, 1981; Tra passato e futuro,
Garzanti, Milano, 1991), Simone Weil (Quaderni I-III, Adelphi, Milano,
1982-1986), Emmanuel Lévinas (La traccia dell’altro, Pironti, Napoli,
1979; Umanesimo dell’altro uomo, il melangolo, Genova, 1985; e, sul
numero 273-274 della rivista "aut aut" la sezione L’"Altro" di Lévinas
con interventi di Vattimo, Rovatti, Polidori, Berto, Boella, Greblo). Ma anche
Hans Mayer (I diversi, Milano, Garzanti, Milano, 1992), Leslie Fiedler
(Freaks, Garzanti, Milano, 1981), Karl Rosenkranz (Estetica del
Brutto, Olivares, Milano, 1994).
Per quanto riguarda la "anti-polis" postmoderna e la crisi
della rappresentazione e della rappresentanza, un possibile punto di
riferimento è Paul Virilio (Lo schermo e l’oblio, Anabasi, Milano,
1994, e Cybermonde, la politique du pire, entretien avec Philippe
Petit, Les éditions Textuel, 1996).
Le citazioni della parte finale le ho rubate a La scena
rinchiusa. Quattro anni di attività teatrale dentro il Carcere di Volterra
(a cura di Maria Teresa Giannoni, TraccEdizioni, Piombino, 1994), Eugène van
Erven (The Playful Revolution. Theatre and Liberation in Asia, Indiana
University Press, Bloomington and Indianapolis, 1992) e Georges Bataille
(Su Nietzsche, Rizzoli, Milano, 1970).
E mi sono risultate illuminanti alcune conversazioni, a volte
brevissime, con registi e attori (non solo quelli citati): colgo l’occasione
per ringraziarli tutti.
Le interviste con Salvino Raco e Beppe Grillo, qui
parzialmente riportate, sono state pubblicate sul "manifesto". Il testo di
Wallace Shawn La febbre è edito in Italia da e/o, Roma, 1992; il nuovo
testo di Shawn, The Designated Mourner, ha debuttato a Londra, al Royal
National Theatre, lo scorso aprile (sul testo e sull’autore, vedi anche The
Dangling Man di John Lair, "The New Yorker", 15 aprile 1996). La battuta
di Benigni è ripresa da E l’alluce fu, a cura di Marco Giusti, Einaudi,
Torino, 1996. Le lettere di Paul Rougeau che hanno ispirato lo spettacolo di
Luciano Nattino sono raccolte in Mi uccideranno in maggio, Sensibili
alle foglie, Roma 1994.