ateatro 47.7 La sapienza di Shakespeare (e di Leo De Berardinis) Appunti su Lear Opera di Oliviero Ponte di Pino
Nell’arco della sua quarantennale carriera, Leo de Berardinis è tornato quasi ossessivamente a misurarsi con Shakespeare, affinando a ogni incontro la propria idea di teatro nel confronto costante con i suoi testi. Perché Leo non mette mai in scena "da regista" i copioni, e neppure si limita a cucirseli addosso, alla maniera del grande attore, e neppure li disfa – smantellando con essi il teatro – come ha fatto Carmelo Bene nella sua fase più gloriosa. No, Leo nel corso degli anni utilizza in scena capolavori di Shakespeare, ma in realtà scontrandosi con essi, per affinare progressivamente la propria idea di teatro e la propria drammaturgia.
Lear Opera è l’ennesima tappa di un percorso che rifiuta programmaticamente la filologia per la libertà in apparenza totale di tagliare e ricucire – in questo caso, oltre al Lear del titolo, attingendo abbondantemente ad altri due testi da lui assai frequentati, Amleto e La tempesta. Per poi contaminare il tutto con inserti della farsa napoletana ed evidenti parodie. Il montaggio di pagine notissime e di invenzioni e improvvisazioni d’occasione risponde tuttavia a una logica interna dello spettacolo, e all’intuizione di una personale forma del teatro che si è andata via via affinando.
All’inizio del percorso questo gusto per la contaminazione poteva apparire un gioco dissacrante, un oltraggio beffardo. Del resto – ed era lo stesso Leo a teorizzarlo e praticarlo – l’intreccio tra cultura alta e cultura bassa, l’accostamento di sublime e degrado, lo scontro tra forme classiche e post-moderne potevano rispondeva a varie funzioni: imponevano di rinnovare il linguaggio scenico, permettevano di entrare in contatto con la vita e d’incontrare un nuovo pubblico, riallacciavano il teatro alla sua tradizione (in particolare quella napoletana, e al suo culmine l’amato Eduardo), e dunque a una forma di verità.
E però dietro questi brandelli farseschi ha iniziato a muoversi anche qualcosa d’altro, di più profondo. Tanto per cominciare, la parabola degli eroi shakesperiani – Lear, Amleto, Prospero – ha assunto il valore un percorso sapienziale, che attraverso la sofferenza porta a una superiore forma di saggezza, e alla poesia. L’attore che dà voce e carne a questi personaggi in qualche modo ne diventa il portavoce. Come accadeva agli sciamani, viene invaso dalla loro saggezza e poesia. Il rito di morte che ha attraversato in loro vece lo investe di una luce sacrale. Il lavoro dell’attore sul personaggio è un’operazione alchemica: quelle sofferenze – vissute nella finzione, è vero, ma nella materialità dei gesti e delle parole – affinano, distillano, riducono all’essenza l’uomo. In Leo si riverberano così altri autori che hanno segnato il suo itinerario: Dante al culmine della sua "commedia" nell’oltretomba; e Beckett che misura nel deserto dell’essere l’ultimo sottilissimo filo della vita.
Ma la poesia ha la fissità del sublime. Leo lo cerca spesso, e tuttavia sa che non è quella l’essenza del teatro. Così per ritrovare una dialettica drammaturgica cerca innanzitutto una sorta di controparte, un controcanto d’altra tonalità, in una figura femminile. In Ofelia la sposa mancata, ma soprattutto nelle figlie Cordelia e Miranda. Questa fanciulla innocente è la prima destinataria del suo messaggio, e forse anche l’ispiratrice (secondo uno schema ben noto alla poesia e alla mitologia). Poi Leo l’Illuminato s’impatta nella materialità dell’esistenza e del teatro, e anche la leggerezza stupida e liberatoria del riso, attraverso i giochi di parole, le beffarde polemiche, le gag alla Totò, le contaminazioni farsesche e parodistiche, le consapevoli autoparodie. A opporgli le resistenze della realtà e la sua ottusa impermeabilità al trascendente, ma anche la brulicante e corrosiva forza vitale, è il collettivo degli attori più giovani che lo circondano (dall’ormai veterano e spassosissimo Enzo Vetrano a Antonio Alveario, Elena Bucci, Valentina Capone, Donato Castellaneta, Ilaria Drago, Marco Manchisi, Fabrizia Sacchi e Marco Sgrosso),
È su questa dialettica – ormai chiaramente formalizzata – tra una sfera alta eppure continuamente corrosa, irrisa, oltraggiata, e un mondo che può d’improvviso riscattare la sua pesantezza e trivialità attraverso il dolore e il sentimento, la generosità e l’amore, che si costruisce Lear Opera (e in questa commistione siamo più vicini forse agli umori di Molière-Scaramouche). Vista la precisione quasi cristallizzata delle figure che abitano la scena vuota, i materiali vengono montati, più che lungo un intreccio narrativo o magari fiabesco, per intuizioni musicali, per tema e variazioni. La dinamica di queste maschere-archetipo ricorda ormai l’intreccio delle varie voci nel melodramma, con arie e cori, e intermezzi da opera buffa, ma anche con spazi riservati a improvvisazioni quasi jazzistiche. E come tutto il lavoro di Leo, anche questo Lear Opera non vuol mai essere un gioco fine a se stesso, un’esercitazione estetizzante. Vuol mostrare una via, un percorso, coinvolgere nella sua dinamica di saggezza e spasso, estasi e trivialità. È una macchina che vuol agire sullo spettatore con la forza della poesia, del riso e dello struggimento.
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