In un commento alle tavole dedicate
a Macbeth e Rosmersholm (1) Craig
pronunzia un giudizio molto severo
nei confronti di Ibsen:
Quel che
non riesco a spiegarmi è perché la bellezza, il mistero e
la forza di Ibsen vengono eclissati dal mistero e dalla forza ben più
grandi di Shakespeare. Vicino a lui Ibsen, che paragonato a un autore moderno
sembra un gigante, sparisce. Dove? Nella sua particolare, piccola casa;
mentre Shakespeare sale sempre più in alto. In che cosa consiste
lo straordinario divario tra i due scrittori? Non basta qualche secolo
di distanza per spiegarlo. Per me si tratta di questo: Shakespeare era
un artista, Ibsen non lo è. Ibsen è un uomo straordinario,
uno degli uomini più straordinari del XIX secolo; risolve problemi
che gli altri non possono o non vogliono risolvere, pone domande che nessun
altro ha mai posto, eppure, messo in confronto con Shakespeare, perde ogni
importanza; sembra timoroso, in un certo senso, di essere banale, ordinario,
quel che noi chiamiamo semplice; e questo perché non è un
artista. Non bisogna fare paragoni, dicono, ma io non ne sono così
sicuro, credo anzi che sia necessario e utile. Se non si fissa per la letteratura
drammatica un punto di riferimento a cui riportare le varie opere, il mondo
accoglierà lavori di decima invece che di prima qualità."
Nella sua ansia di definizione
di un nuovo teatro Craig non esita a liquidare un autore amato e più
volte messo in scena.(2) La ragione fondamentale di tanta
severità sta nell'identica tensione di ricerca: la rinascita del
tragico in epoca moderna. Craig pensa che si possa ottenere solo reinventando
una "forma" di teatralità. Quando si volge alla ricerca di testi
adeguati, scopre che la
scrittura non si è elevata
al grado di poesia necessario. Pur nobile, rimane nell'ambito del dramma
borghese: dialoghi e stanze chiuse (non è un caso che egli definisca
la scena per Rosmersholm "room"), che impediscono ai temi, anche
se costruiti secondo i canoni del tragico, di innalzarsi a tragedia. La
drammaturgia di Ibsen viene sentita come ostacolo alla invenzione teatrale,
le parole non risuonano con gli stessi accenti di Eschilo o di Shakespeare.(3)
Ritengo che un superamento di tale dissonanza sia stato lo scopo della
regia di Ronconi del Borkman, di cui qui, per brevità, mi
limito a considerare soltanto la prima scena del primo atto.
La situazione introduce immediatamente
nel dramma dei Borkman. È l'incontro tra le due sorelle Ella e Gunhild.
La prima ha amato John Gabriel Borkman, ma questi le ha preferito la sorella
che ha sposato e dalla quale ha avuto un figlio Erhardt. Dopo il fallimento
della banca di Borkman, questi viene condannato e sconta in carcere una
pena di cinque anni. La famiglia è ridotta sul lastrico. Viene aiutata
proprio da Ella, che ha anche allevato Erhardt nei primi anni sostituendosi
alla madre. Le due sorelle non hanno avuto più rapporti per otto
anni. All'apertura di sipario Gunhild riceve una visita di Ella. Come da
giovani si sono contese Borkman, adesso si contendono Erhardt, al quale
la madre pensa soprattutto come a colui che riscatterà il disonore
in cui Borkman ha precipitato la famiglia.
Da quando Borkman è tornato
dal carcere, si è chiuso in una nuova prigione, una stanza della
villa in cui abita con la moglie, al piano superiore. Mentre avviene l'intenso
colloquio delle due donne, si sentono i passi di Borkman. Non esce, se
non di notte, dalla stanza; non riceve nessuno, tranne un vecchio amministratore
Foldal; non ha nessun rapporto con la moglie. La presenza spettrale di
Borkman ricorre ossessivamente nel dramma e viene avvertita fin all'inizio
della storia. Tutta l'atmosfera è dunque di grande tensione e cupezza.
Il dialogo tra le due sorelle è uno scontro violento tra nemici
irriducibili. Ibsen realizza qui uno dei suoi migliori incipit tragici,
indicando il deflagrare di una lacerazione all'interno del mondo borghese,
costruito sui valori famigliari intesi come potere. Fu il potere a guidare
Borkman nella scelta di una donna che non amava, e a rinunziare all'amore;
fu la sopravvalutazione del proprio dominio a portarlo alla rovina e a
renderlo dipendente con la famiglia da chi aveva oltraggiato. Le didascalie
fanno pensare che Ibsen abbia immaginato una scena, in cui il confronto
delle due donne si gioca in piccoli movimenti attraverso la stanza, nell'intreccio
degli sguardi (sono molte le notazioni riguardo la direzione degli sguardi
e i sentimenti da cui sono dominati) e in gesti minuti. Non è data
nessuna indicazione riguardo le posizioni, per cui si deve ritenere che
egli pensasse alla scena interamente recitata in piedi. La lotta si esprime
in tutta la sua pienezza. I contendenti si affrontano eretti, senza ripiegamenti.(4)
Nel mettere in scena questo testo
Ronconi si è trovato di fronte al problema di mantenere il livello
tragico della situazione, evitando di ridurlo alla dimensione di tragedia
domestica nel salotto di Gunhild Borkman. Ronconi ha voluto sconfessare
Craig, dimostrando che la scrittura ibseniana era idonea a trasformarsi
in poesia della scena. Lo ha fatto affrontando Craig sul suo stesso terreno;
ossia rivelando l'infondatezza del giudizio negativo di Craig attraverso
scelte stilistiche che sono in armonia con la poetica dello stesso Craig.
È possibile avere un'idea
della regia di Ronconi, ricorrendo all'edizione televisiva del 1982,(5)
nella quale il mezzo tecnico concorre a potenziare le scelte dello spettacolo.
Ronconi ha tagliato la premessa introduttiva, la scena con la cameriera
che annuncia l'arrivo di una signora sconosciuta (Ella). Ha potuto così
rendere l'incontro tra Ella e Gunhild più drammatico, eliminando
l'attesa e la sospensione dell'ingresso.(6) Gunhild è
abbandonata su una poltrona, quando Ella entra dalla porta e le si erge
davanti. La scena è in penombra.
La stanza è avvolta in
pesanti cortine che coprono anche la finestra. Solo una piccola luce, per
le tende appena scostate, emana dalla finestra. L'atmosfera è cupa,
grigia. Il colore, monocromo, investe tutto: le pareti della stanza, i
mobili, le tende, gli abiti delle attrici. È un tetro verde, profondo
e pieno d'ombre.
Nel commento a una tavola dedicata
al Macbeth Craig scrive:
Nelle
Conversazioni
con Eckermann Goethe dice a un certo punto:
"La tinta
dello scenario dovrebbe di norma accordarsi con i costumi degli attori.
Lo scenario di Beuther, per esempio, tende sempre più o meno allo
scuro e fa risaltare in tutta la loro vivacità le stoffe dei vestiti.
Se invece lo scenografo è obbligato a rinunciare a questa tonalità
indefinita che va bene con tutto, e a dipingere una sala rossa o gialla,
una tenda bianca, un giardino verde, in questo caso sono gli attori che
devono prendere la precauzione di non indossare costumi degli stessi colori.
Se un attore con giacca rossa e pantaloni verdi cammina in una stanza rossa,
la parte superiore del corpo sparisce e restano solo le gambe; se cammina
in un giardino verde, scompaiono le gambe e resta solo il busto. Ho visto
un attore con giacca bianca e pantaloni molto scuri, visibile metà
per volta, a seconda che si trovasse di fronte a una tenda bianca o a uno
sfondo scuro.
Comunque
lo scenografo, anche quando rappresenta una stanza rossa o gialla, o dell'erba,
dovrebbe sempre attenersi a tinte piuttosto deboli ed evanescenti, in modo
che i costumi possano intonarsi e risaltare".
Faremmo
bene a studiare a fondo questi suggerimenti, a provarli in palcoscenico
e a osservare i risultati. Non occorre un grande sforzo per capire che
contro uno sfondo nero sta bene un costume bianco, e contro uno sfondo
chiaro, uno nero. Questo se si vuol far risaltare la figura; ma se vogliamo
che si immerga, o addirittura si perda nella scena? Macbeth che vaga di
notte intorno al suo castello sembra formare tutt'uno con esso; ricordo
che, quando Irving lo interpretava, aveva indosso un costume quasi simile
a quello delle pareti.(7)
Più tardi, in Scena,
scrive:
La scena
si regge da sola ed è monocroma. Il colore è dato esclusivamente
dalla luce; a volte ho ottenuto tanti di quei colori che nessuna tavolozza
potrà mai produrre.(8)
Ella e Gunhild si perdono nelle
tonalità verdi della scena, i loro capelli grigi si immergono e
riaffiorano creando particolari riverberi nella tonalità dominante.
Solo i loro volti sembrano galleggiare, secondo ancora una intenzione craighiana:
Una delle
prime esigenze del pubblico è di vedere e udire l'attore che recita,
e di vederne specialmente il volto (o la maschera) , le mani e la persona.
[…] Potete vedere un volto, una mano, un vaso, una statua, meglio su uno
sfondo piatto e incolore che su uno sfondo su cui sia dipinto o scolpito
un modello colorato o qualche altro oggetto. […] Quando ascoltiamo uno
che parla, sia esso in una stanza o in una sala o in un teatro, vediamo
una cosa sola: il suo volto. A teatro i nostri occhi seguono colui che
parla. perciò quando sono in due a parlare, di solito è bene
che siano il più vicino possibile l'uno all'altro.(9)
Il mezzo televisivo ha la possibilità
di realizzare questo effetto con maggior aderenza che in teatro con i primi
e i primissimi piani dei volti delle due attrici: Franca Nuti (Gunhild)
e Marisa Fabbri (Ella) .
Se la scelta della monocromia
e del rapporto tra scena e attore, tra ambiente e volto, sembra dunque
ispirato alle teorie di Craig, nella stessa direzione Ronconi si dà
il compito di stabilire un rapporto tra il luogo e il movimento degli attori.
Dalle battute e dalle didascalie Ibsen lascia supporre che le due sorelle
si affrontino in piedi. Ronconi non segue tale indicazione. Gunhild, in
alcuni casi, tenderà ad appoggiarsi ai mobili o a sedersi. Di fronte
all'attacco di Ella perde sicurezza e si accascia.
La soluzione parrebbe in qualche
modo riportare elementi realistici e ridare tridimensionalità ai
mobili divenuti un'unica cosa con le tende, trasformare di nuovo il luogo
in scenografia. In realtà la ragione di questa scelta produce l'effetto
contrario. Anzi tende ancora di più a rendere astratto il luogo
dello scontro. I sostegni di Gunhild diventano simboli dei suoi cedimenti,
della sua fragilità. Fanno acquistare senso alla impostazione generale
che è quella di evitare il dialogo da salotto. Le sorelle infatti
non si parlano. Parlano a se stesse, parlano al vuoto. Le battute di Ibsen
acquistano una dimensione irreale. Ognuna delle due donne sfugge all'altra.
Non intende parlare ma affermare una volontà irriducibile. I movimenti
sono pochi e lenti e non avvengono in un luogo reale, calpestabile. I corpi
e i volti delle due sorelle sono ripresi in posizioni impossibili, in sequenze
di movimento che denunciano l'irrealtà dello spostamento. I movimenti
sono "assurdi"; non hanno cioè sequenza reale e le figure emergono
da uno sfondo cupo e unitario. Il linguaggio televisivo permette di immaginare
i personaggi in un luogo che nega ogni spazialità e la successione
degli spostamenti. Quando una sorella segue l'altra, nella inquadratura
successiva può precederla o starle davanti. Ogni relazione di spazio
tra le posizioni degli attori viene eliminata. L'effetto è marcato
dalla mancanza di stacchi fra inquadrature.
Quando i due volti sono uno di
fronte all'altro l'affrontamento dà alla battuta un rilievo particolare.
Non è il cedimento al dialogo, quanto piuttosto il valore di una
ferita inferta. Le posizioni che più ritornano sono infatti l'inseguimento
(una caccia l'altra), l'affiancamento (l'identica volontà delle
due sorelle che si sono contese l'uomo, Gunhild ha rubato il marito a Ella
e Ella il figlio a Gunhild), l'affrontamento (lo scontro dovuto alla contesa
presente: conquistare Erhardt il figlio di Borkman). Le posizioni si succedono
implacabili e quando si arriva a una congiunzione (abbraccio), le due teste
sono riprese, ognuna al di sopra della spalla dell'altra, in modo da costituire
una X: l'abbraccio non è che una altra forma di affrontamento, come
quando due spadaccini sono costretti dalla lotta a un corpo a corpo che
li lega in un abbraccio di minaccia e le spade si incrociano per respingersi.
Ronconi realizza pienamente l'idea
di Craig che la scena non va intesa come scenografia, ma come "place",
come luogo, ma luogo ideale dello scontro dei personaggi che si misurano
con forze che li sovrastano. Così il luogo è il luogo dell'impossibile
azione dell'eroe tragico, votata alla sconfitta, e non il doppio di un
luogo reale (ambientazione scenografica). La scena sembra non avere confini,
le tende si perdono oltre il cielo, come nelle tavole craighiane, al di
là dell'arco scenico. Il palco inquadra una porzione limitata dello
spazio dell'azione che non è misurabile, come non è misurabile
il dolore degli attori. Il grande specchio che si apre all'interno, al
posto della finestra, non rimanda riflessi di luce, ma immagini cupe, funeste.
Il vuoto in cui agiscono i personaggi ha un solo confine: il destino a
cui sono condannati. Ronconi restituisce a Ibsen quella grandezza tragica
che Craig gli aveva negato e lo fa utilizzando indicazioni craighiane,
quasi a voler dire che Craig aveva i mezzi per cogliere il tragico ibseniano,
ma è stato cieco a se stesso.
1)
Tavv.1 e 14 dell'ed. it. di Towards a new theatre (London 1913):
Per
un nuovo teatro, in Il mio teatro, a cura di F. Marotti, Milano,
Feltrinelli, 1980², p.188.
2)
Oltre a
Rosmersholm
(1906), Craig dedica tavole e in alcuni casi
realizza messe in scena di Peer Gynt, I guerrieri a Helgeland
(The
Vikings) (1903), I pretendenti al trono (1926),
La donna
del mare.
3)
F. Mastropasqua,
In cammino verso Amleto. Craig e Shakespeare, Pisa,
BFS, 2000, in part. pp. 45-71.
4)
Mi baso sulla traduzione di A. Motzfeld Tidemand-Johannesen, condotta sull'edizione
di Oslo (1930), pubblicata da Mursia: H. Ibsen, Opere teatrali,
Milano 1962-1986, voll.I-IV. John Gabriel Borkman (Giangabriele Borkman)
è nel IV vol.
5)
Il video è conservato presso l'Archivio del Teatro Stabile di Torino.
La produzione è TST Torino-RAI, 1982. L'adattamento e la regia sono
di L. Ronconi; le scene di E. Guglielminetti; i costumi di V. Marzot; gli
attori principali: Omero Antonutti, Marisa Fabbri, Franca Nuti, Claudia
Giannotti, Gianni Bonagura.
6)
v. R. Alonge, Luca Ronconi, John Gabriel Borkman, in R. Alonge-R.
Tessari, Lo spettacolo teatrale. Dal testo alla messinscena, Milano,
LED, 1996, p. 75.
7)
La stessa tonalità era stata usata da Craig per Rosmersholm
nel 1906, v. F. Marotti, L'itinerario di Gordon Craig, in
E. G. Craig,
Il mio teatro, cit. p. XXVIII-XXIX.
8)
Tav. 16 dell'ed. it., E. G. Craig, Il mio teatro, cit., pp. 189-190.
9)
Craig fu guidato da queste idee quando realizzò la tavola 16 del
Macbeth
(ed.it.),
le tavole a fronte delle pp. 71 e 78 dell'ed. or. Towards a new theatre,
London 1913.
10)
E. G. Craig, Scena, in Il mio teatro, cit., p. 223.
11)
Ivi, pp. 226-227.