ateatro 14.4
 
Festival de Théâtre des Amériques
Un diario
di Anna Maria Monteverdi
 

Dal 24 maggio al 10 giugno Montréal ha ospitato la Nona edizione del Festival de Théâtre des Amériques. Nato come manifestazione biennale sotto il sotto il segno della creazione teatrale contemporanea e diretto sin dalla sua prima edizione, nel 1985, da Marie-Hélène Falcon, il Festival ha puntato su nomi eccellenti della sperimentazione e della ricerca, drammaturgica e scenica, internazionale, ospitando, tra gli altri, Peter Brook, Bob Wilson, Peter Sellars, Richard Foreman, Tadeusz Kantor, la Raffaello Sanzio, Eimuntas Nekrosius, François Tanguy. Il Festival ha da sempre offerto anche un palcoscenico privilegiato per gruppi teatrali canadesi (da Gilles Maheu e il suo teatro Carbone 14, legato al drammaturgo dell’Ontario Hernan Vader e al suo “espressionismo sinfonico” a Denis Marleau e il suo Théâtre Ubu - presente quest’anno con Catoblepas - a Marie Brassard).
Quest’anno per le tre sezioni “The world at our doorstep”, “New works from Québec” e “Nouvelle scène”, sono state selezionate opere teatrali del Nord e del Sud America (Canada, Stati Uniti, Argentina), produzioni internazionali in lingua francese (Francia, Belgio) e nuovi autori giovani (tra cui segnaliamo Claudie Gagnon con i suoi dodici folli “tableaux vivants“ che compongono il tabarin Petits miracles misérables et merveilleux e Stephane Hogue con Ceci n’est pas une pipe, surreale attacco alla tv verità e agli effetti della televiolenza sulla realtà). Menzione speciale per Young@heart chorus del musicista americano Bob Cilman che dirige una compagnia di scatenati ultrasettantenni che cantano Gloria Gaynor o ballano sulle musiche di Led Zeppelin in Road to heaven.
Per quest’edizione 2001 spicca tra tutti la presenza di Ariane Mnouchkine, di Robert Lepage e del coreografo belga Alain Platel.
Il regista teatrale e cinematografico Robert Lepage è atterrato al FTA con La face cachée de la lune, ultima sua creazione “solo”, in cui le invenzioni “moderniste” dell’artista canadese fanno i conti con una macchina scenografica “antica”, che evoca insieme materialità, semplicità e attrezzeria, mentre l’intervento sul palco di una tecnologia discreta, fatta di luci e di video (indubbiamente il “marchio di fabbrica” della sua scena), finalmente affrancata dall’obbligo di stupire, accompagna (e sostiene) visivamente l’intero spettacolo.
Significativa la scelta di inserire in cartellone la produzione belga Rwanda 94 (in scena attori belgi e rwandesi), dell’ensemble Groupov sul genocidio in Africa del 1994, scritto sulla base dell’esperienza della tragedia vissuta e narrata da una testimone scampata al massacro, Yolanda Mukagasana autrice di due autobiografie relative all’argomento. La persecuzione continua: alcuni attori della compagnia non sono riusciti ad ottenere il visto di ingresso in Canada e sono stati fermati per alcuni giorni alla frontiera dalla autorità per paura – si legge in “Le Soleil”, giornale di Québec - “che potessero chiedere asilo politico”, creando un vero incidente diplomatico al margine della lunga maratona del festival.

Tamburi sulla diga
Ariane Mnouchkine regista francese che mette in scena la Storia, la Rivoluzione e la lotta dei popoli per la libertà (1789, 1793, L’Age d’Or) da quando è arrivata in Canada nel 1992 con il ciclo degli Atridi ha creato intorno a sé una vera e propria mitologia; i critici hanno iniziato ad occuparsene e lo stesso Ministero della cultura del Québec (insieme con molte altre realtà economico-culturali canadesi) ha prodotto interamente il suo ultimo spettacolo Tambours sur la digue, che ha aperto quest’anno il FTA a Lachine, nella periferia di Montréal, nell’Arena che in inverno ospita una pista di pattinaggio su ghiaccio.
Il testo di Hélene Cixous - dal sottotitolo “sotto forma di pièce antica per marionette interpretati da attori” - è ispirato alle inondazioni del 1998 in Cina e trasposte in un non specificato antico regno dell’impero d’Oriente. Lo spettacolo è costruito sulla reinvenzione di una antica tradizione teatrale: come nel teatro giapponese bunraku, i “servi di scena” con abito nero e cappuccio muovono gli attori-marionette sul palco per questa favola epico-politica dal finale tragico. Interpretato da un totale di 28 attori, Tambours sur la digue ha indubbiamente il suo punto di forza nelle scene corali (il battere dei tamburi di coloro che organizzano la resistenza e che dovrebbe avvisare la popolazione dell’imminenza del pericolo dell’inondazione) e sconvolge per la bravura e l’estrema abilità tecnica degli attori che muovono altri attori sollevandoli, facendoli danzare, duellare, nuotare in scena, trasformandoli in marionette viventi. In un vero incontro tra Oriente e Occidente. La profezia di Gordon Craig della Supermarionetta - che nella sua visione di un “Teatro dell’avvenire” sostituirà l’attore - sembra avverarsi.
Nel teatrino delle vicende umane (e delle divisioni sociali) sono messe in scena tutte le sue possibili variazioni: tradimento e fedeltà, amore e odio, desiderio di ricchezza e intollerabile povertà. Come nelle favole di cui ci parla Propp, viene da pensare. Tra tutte queste passioni il fiume passa oltre, sciacquando omicidi, inondando uomini e terre, facendo sopravvivere, unico cantore, il manovratore di marionette, il racconta storie di tutte le tradizioni e di tutti i tempi.
La musica è suonata dal vivo dal geniale Lemetre, nella compagnia da oltre 15 anni il quale utilizza nello spettacolo oltre 100 strumenti diversi dalle sonorità indiane e giapponesi.

Interiors
In una città come Montréal che conta 3 milioni di abitanti, moltissimi sono i centri artistici, gli spazi culturali e i teatri: il famoso Cirque du Soleil, famoso per le acrobazie degli artisti e per aver rinunciato agli animali "teatralizzando" lo spettacolo circense, ha sede proprio a Montréal. In occasione del Festival gli spettacoli sono disseminati in vari spazi che vanno dal Monument national (in una via animata di locali porno, peep show e sexy shop) alla piccolissima sala dell’Union Française, all’Usine C (ex struttura industriale ora adibita a sala polifunzionale dalla compagnia fondatrice, Carbone 14), al teatro La Chappelle, situato in una traversa del vivace Boulevard Saint-Laurent che mescola nel classicissimo melting pot americano, cinesi, giapponesi, indiani, greci e messicani.
Il teatro La Chappelle (dove entro chiedendo il permesso a un “living in a box” che aveva scelto di dormire sulla soglia del teatro), luogo “underground” alternativo e molto “londinese”, ospita uno dei migliori spettacoli del Festival. Migliore drammaturgicamente. Migliore interpretativamente. Il titolo è House, regista e drammaturgo è Richard Maxwell, rivelazione dell’avanguardia newyorchese, già attore della compagnia di Foreman e fondatore del New York City Players. Creato nel 1998, House ha vinto l’Obie Award, uno dei più prestigiosi riconoscimenti per il teatro americano. Protagonisti un uomo, una donna, un bambino e un altro uomo che sta cercando chi ha ucciso il fratello. L’interno della casa ricostruita in scena è, in realtà, solo una parete bianca  davanti al quale gli attori recitano quasi letteralmente “messi al muro”. Il regista alla conferenza stampa ha tenuto a precisare che è stato ricostruito con esattezza di dettagli il muro di Manhattan dove la pièce è stata rappresentata all’aperto per la prima volta. Per riportare la realtà dentro il teatro. Dialoghi serrati. La madre ha sempre in mano un piatto con pane toastato. Lo sfondo e il contesto è quello di una quotidianità grigia che incute timore. Poche parole infilate tipo domanda e risposta in sequenza rapida intercalate da un contrappunto di silenzi fotografano una realtà deformata all’origine. Vestiti “da casa” con tute a buon mercato dei grandi magazzini e immobili come statue o manichini i protagonisti ricordano i grandi ritratti iperrealisti in bianco e nero dell’americano Chuck  Close:

Father: Ask me a question, son.
Son: What does city like?
Father: Every city have the same things. Cars, streets, men, governments. There’s no green but it’s ok. People goes, comes, cries.
Pausa
Father: We are slaves. Slavery is a work.

Maxwell riesce a colpire nel segno con dialoghi ridotti all’osso che raccontano il precipizio, la catastrofe latente. E’ la rappresentazione del quotidiano, eliminato il superfluo; oltre ogni naturalismo, la scena è piuttosto di un “iperrealismo postmoderno”, come ha ricordato “Le Devoir”. Che azzera tutto e lascia spazio unicamente a quella realtà che non possiamo ignorare, alla povertà, possibile destino di ognuno di noi se la società per cui lavoriamo non ha abbastanza profitti alla fine dell’anno o al vuoto di una classe media priva di ideali che non siano incentivi alla produzione.
Anche Allemaal Indiaan (Tutti indiani, dal folle ragazzo che nello spettacolo indossa il copricapo di piume da capo indiano) della compagnia belga Victoria et les ballets C de la B diretta dal regista-coreografo belga Alain Platel insieme con Arne Sierens guarda a quello che accade nel quotidiano. La situazione è apparentemente più colorata e mossa rispetto ad House ma dietro l’allegra e caotica brigata di figli metallari e figlie che vestono alla moda delle Spice Girls si nasconde il dramma di famiglie che hanno storie comuni: in una casa manca la madre, in un altro manca il padre. In una casa qualcuno se ne va, in un’altra si spera che qualcuno ritorni. Dentro le due case a due piani perfettamente ricostruite una a fianco all’altra, accade di tutto: i personaggi si spogliano, fanno colazione, cantano, stendono i panni, litigano, si picchiano, si lasciano, si rincorrono, tentano il suicidio buttandosi dal tetto. Con un sottofondo musicale da rock opera tutti insieme ballano sulle note di Nathalie Imbruglia continuando a lavare i panni nel lavatoio. That’s life! Alain Platel è conosciuto e apprezzato in Italia soprattutto per il suo precedente lavoro, più vicino al teatro-danza Bernadetje (1997).

Evidentemente quella di guardare cosa accade dentro le case è una vera e propria tendenza nell’arte di questi ultimi anni: i Motus in Italia hanno recentemente presentato all’interno della rassegna Contemporanea al Museo Pecci di Prato il progetto teatrale Rooms che avrà la sua prémiere al Festival di Sant’Arcangelo il prossimo 6 luglio: dentro una camera d’albergo ricreata nei minimi dettagli gli attori danno vita ad una tipica situazione da film anni ‘50 con sottofondo di dialoghi tratti dai film di Bigas Luna; Bill Viola guarda invece ad un’interiorità di tipo spirituale nella video-opera Catherine’s room: un’unica stanza contiene cinque diverse scene di vita colte in altrettanti momenti della giornata (le varie fasi del giorno ma anche le varie fasi della stagione umana). I riquadri video rispondono ad un’unica legge: quella dello spazio prospettico brunelleschiano.

“Nel mondo brunelleschiano il meccanismo è la percezione, l’immagine retinica. Quando l’enfasi è posta sull’atto del vedere un luogo fisico, allora anche il tempo entra a far parte della pittura. Le immagini diventano “momenti congelati”, manufatti del passato. Assicurandosi un posto sulla terra, esse hanno accettato la propria mortalità” (Bill Viola, Nero video. La mortalità dell’immagine, in Vedere con la mente e con il cuore, a cura di V. Valentini).


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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