ateatro 113.5
22/11/2007 
Una breve nota sull’attualità dei classici
La trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni, regia di Toni Servillo e Tre sorelle di Anton Cechov, regia di Massimo Castri
di Oliviero Ponte di Pino
 

Come si misura l’attualità di un classico?
La scorsa stagione Luca Ronconi ha portato in scena al Piccolo Teatro, nel giro di poche settimane, Il ventaglio di Carlo Goldoni e Inventato di sana pianta di Hermann Broch, un testo che racconta una serie di maneggi finanziari non molto diversi da quelli dei “furbetti del quartierino” (o della Parmalat o della Cirio, o meglio ancora dei Bond argentini) che hanno occupato le cronache negli ultimi anni, svuotando le tasche di molti italiani. I cortocircuiti tra il testo di Broch, scritto negli anni Trenta, e l’attualità sono numerosi e si decodificano con un misto d’ironia e di inquietudine. La riscoperta del testo nell’attuale contesto economico e politico – la globalizzazione finanziaria era già in atto – è una scelta culturalmente acuta, che al tempo stesso si inserisce nella riflessione civile che da sempre un regista come Luca Ronconi opera sottotraccia: sottotraccia, perché per lui il problema non è mai trasmettere un messaggio (e tanto meno scagliarsi contro qualche facile bersaglio polemico, per questo basta la satira); e non si tratta nemmeno recuperare precedenti in cui riconoscersi (e così gratificarsi tra gli happy few in grado di cogliere allusioni, parallelismi e differenze), quanto di esplorare nel lavoro di scena alcuni nodi problematici.
Tuttavia a graffiare di più, nei due spettacoli, proprio nel senso del rapporto con il presente, era forse una battuta in apparenza marginale all’inizio del secondo atto del Ventaglio, che rende conto del tono emotivo dell’intero spettacolo – e pare riverberare il giudizio del regista sull’attuale situazione del paese. E’ un breve monologo, dove la merciaia Susanna, usando come piedistallo “l’educazione che ho avuta in città”, si lamenta perché “gran poche faccende si fanno in questo villaggio (...) in mezzo a questi villani senza convenienza, senza rispetto”. C’è dunque la consapevolezza di uno stallo economico, e probabilmente di una decadenza forse inevitabile; ci sono l’irritazione contro i nuovi ricchi e la loro insofferenza alle regole, e il sospetto contro il sistema di favori e “protezioni” che li lega. Il pretesto della commedia e di questo sfogo è di scarsa importanza: la vendita a prezzo di saldo del ventaglio che genera tutti i malintesi e gli equivoci intorno a cui ruota la vicenda. Ma la conclusione di Susanna ha il peso di una sentenza, e rende conto dell’importanza che assume il futile commercio di un oggetto in apparenza banale, inutile:

Sono cose da ridere; ma cose che qualche volta mi fan venire la rabbia. Son così, io che sono allevata civilmente, non posso soffrire le male grazie.

Quante volte in questi mesi, in questi anni, la cronaca ci ha regalato “cose da ridere” ma che subito dopo “fan venir la rabbia” a chi è “allevato civilmente”? E quante volte questa educazione civile ha generato un qualche sentimento di superiorità di fronte ai “villani senza convenienza”? Alla luce di questa battuta, l’intero allestimento diventa diversamente necessario. Si può discutere sulla diagnosi di Ronconi (e di Goldoni), ma è senz’altro chiara e precisa.
Lo stesso accade con le messinscene di due altri classici, firmate da due registi di talento come Toni Servillo e Massimo Castri, e sintomi di una sensibilità tutta contemporanea. Il primo si misura con un altro testo goldoniano, la Trilogia della villeggiatura, oggetto qualche anno fa di tre memorabili spettacoli proprio di Castri. Quest’ultimo invece, dopo aver allestito alla fine degli anni Ottanta Il gabbiano, torna a Cechov portando sulla scena Tre sorelle. Ad accomunare i due testi, è curiosamente la fortissima presenza di due esemplari luoghi del desiderio, e forse dell’utopia: nel primo caso la villeggiatura tanto agognata e poi frettolosamente abbandonata, nel secondo la Mosca della giovinezza, e destinata a restare irraggiungibile.
Un elemento caratterizza anche i giovani protagonisti della Trilogia della villeggiatura e delle Tre sorelle: sono tutti orfani, e non hanno figure genitoriali a cui far riferimento. Leonardo e la sua capricciosa sorella Vittoria hanno perso i genitori, così come i quattro figli del dottor Prozorov, e la stessa Giacinta ha un padre che si proccupa solo di spassarsela e giocare a carte.



Toni Servillo (foto Fabio Esposito).

Servillo sceglie di condensare l’intera Trilogia in un’unica serata (come nella memorabile mesinscena di Strehler): sono tre ore e mezza di spettacolo divise in due atti, a metà della villeggiatura vera e propria. Dunque, malgrado i tagli, ritmi inevitabilmente accelerati (ma è una scelta che il regista-attore aveva già fatto anche per testi più brevi, come Le false confidenze di Marivaux, dove a tenere il tempo era addirittura un metronomo che si poteva udire ticchettare in sottofondo). Di conseguenza in questo “slapstick Goldoni” salgono in primo piano, con gran divertimento del pubblico, gli incastri farseschi e gli scambi di battute tra i personaggi: non si può non restare ammirati dalla maestria del drammaturgo dalla vivacità dei suoi dialoghi e dagli intrecci perfetti, dalla precisione essenziale della regia, e naturalmente dal virtuosismo degli interpreti, a cominciare da Paolo Graziosi, straordinario nella parte dello stordito signor Filippo, e dallo stesso Servillo, che si cuce addosso il ruolo dello “scrocco” Ferdinando, per passare al deus ex machina Fulgenzio (Gigio Morra).



Paolo Graziosi e Tommaso Ragno (foto Fabio Esposito).

A sorreggere questa soluzione è anche l’essenziale scenografia di Carlo Sala: una parete con il taglio di due porte per le frazioni urbane, e per le Avventure della villeggiatura due scorci, prima l’angolo della villa nella noia di un mattino d’estate, e poi un bosco, un antro notturno e verdeggiante che ricorda la foresta iniziatica in cui si perdono le due coppie del Sogno di una notte di mezza estate.
Naturalmente nell’atmosfera più distesa della campagna la frenesia euforica che aveva sospinto fin dall’inizio i giovani protagonisti appare in qualche modo stonata, sempre sopra le righe, malgrado i segni di crisi e le difficoltà che si accumulano. Anche quando il clima si fa più disteso e malinconico (e dovrebbe forse farsi riflessivo), è come se i personaggi non avessero voglia di guardarsi dentro, di interrogasi, di crescere. Il triangolo tra Leonardo (Andrea Renzi), la sua promessa sposa Giacinta (Anna Della Rosa) e l’intruso Guglielmo (Tommaso Ragno) resta in sostanza irrisolto. L’affetto di Giacinta per Leonardo pare solo facciata, e l’infatuazione per Guglielmo non è solo un capriccio tardo-adolescenziale o una gratificazione narcisistica; non è neppure l’ultimo amoretto di chi, di fronte alla necessità di impegnarsi a metter su famiglia e per equilibrare il peso di queste nuove responsabilità, si concede un’ultima evasione – magari solo immaginaria.



Anna Della Rosa (foto Fabio Esposito).

Potrebbe sembrare un sentimento autentico, se la stessa Giacinta non lo lasciasse cadere senza oppore resistenza. Così quando si tratta alla fine di partire per Genova – dopo che la crisi è stata miracolosamente appianata dall’intervento dei “grandi”, e in particolare di Fulgenzio, ma si è persa la faccia – la sensazione è che là ricomincerà tutto daccapo: Leonardo a sperperare in consumi voluttuari, sua sorellina Vittoria (Eva Cambiale) a far capricci per abiti e cappellini, e Giacinta a farsi corteggiare e innamorarsi. Non c’è stata maturazione, non è stata acquisita una maggiore consapevolezza, non è stato conquistato alcun senso di responsabilità.



Anna Della Rosa e Chara Baffi (foto Fabio Esposito).

Dopo l’esaltante parentesi della villeggiatura (che diventa un po’ il corrispondente di una settimana tutto compreso a Riccione o Sharm-el-Sheik, o di una comparsata in un reality show), la vita dei giovani sposi si apre a due possibili alternative: tutto ricomincerà come prima, e dunque i “bamboccioni” combineranno altri guai, e un qualche “padre assente” dovrà preoccuparsi di rimediare, finché potrà; oppure vivranno nella frustrazione e nel risentimento, pensando a quel che avrebbe dovuto essere la loro vita.



La tavola imbandita e il brindisi per Tre sorelle (foto Serafino Amato).

Massimo Castri lavora al contrario sul rallentamento, fin dalla prima scena. Anche qui l’impianto, firmato da Maurizio Balò, è di grande essenzialità e suggestione: una distesa di sabbia e ghiaia grigia punteggiata di detriti scuri, al centro un grande tavolo circolare che la anziana balia Anfisa (Barbara Valmorin) apparecchia con meticolosa lentezza, via via che in questa terra desolata vagamente beckettiana s’affacciano gli altri personaggi, ciascuno con la sua valigia, come gli omini di Magritte. Siamo molto lontani da ogni realismo di marca stanislavskiana: anche perché gli attori, più che costruire il personaggio dall’esterno, lavorando su una coerenza psicologica prestabilita, si lasciano trasportare dal testo - scena per scena, dialogo per dialogo - e dalle sue accensioni ora tragiche ora melodrammatiche. Più che agire, reagiscono al testo e alle sue provocazioni, agli sbalzi d’umore dei personaggi, ai loro scontri.
Ma aldilà di questa sensibilità dinamica all’istante (o forse proprio a partire da queste discontinuità), è ben percepibile il disegno d’insieme della regia. Emblematico è il cambiamento del colore dei fondali, che dallgli azzurri e grigi iniziali approda nella scena dell’incendio a un nero cupo e luttuoso, sostituito nell’ultima scena – quella della partenza delle truppe e della catastrofe finale – da un livido giallo. E’ una lettura decisamente pessimista e struggente del testo, senz’altro filtrata dal crollo dei progetti utopici del Novecento: la fede in un futuro radioso, quella di cui si fa portavoce Veršinin (Sergio Romano) nei suoi ispirati monologhi, quelle aperture sognatrici che avevano fatto di Cechov una sorta di anticipatore profetico della Rivoluzione d’Ottobre, appaiono ormai come una beffa crudele, per lui come per le tre sorelle. Non è arrivato, dopo di allora, alcun futuro radioso, anzi sono arrivati i Lager, il Gulag e la Bomba. Al abianco e ai toni grigi che caratterizzano i costumi delle tre sorelle (e quelli degli altri personaggi) si contrappone la sguaiataggine sempre più colorata delle mises dell’arrivista e ipocrita Nataša di Alice Torriani.



Roberto Salemi e Alice Torriani (foto Serafino Amato).

Il progetto di felicità individuale e collettiva basato sull’amore per l’arte e per il prossimo, fondato sulla solidarietà e sulla cultura, si conclude con una catastrofe irrimediabile, schiacciato da una quotidianità implacabile e dai colpi del destino: a decretare il fallimento di questo progetto di emancipazione non sarà neppure l’intervento repressivo di un potere ottuso, ma piuttosto la debolezza di queste anime belle, il loro contegno, e in fondo la loro impossibilità di amare e di essere felici, che pagheranno a carissimo prezzo: Olga (Bruna Rossi), infelice sposa del il borioso e goffo Kulygin (Paolo Calabresi), non potrà mai coronare il suo sogno d’amore con Veršinin; Maša è condannata fin dall’inizio alla solitudine; la giovane Nataša (Claudia Coli) l’amore potrà solo sognarlo, e dopo il tragico duello tra il suo promesso sposo Tuzenbach (Roberto Salemi) e Solënyj (Milutin Dapcevic) non avrà nemmeno diritto a un matrimonio infelice. Per non parlare del fratello Andrèj (Mauro Malinverno), affondato nella disperazione dai tradimenti e dalla volgarità di Irina.



Le tre sorelle: Bruna Rossi, Alice Torriani e Claudia Coli (foto Serafino Amato).

E’ un disastro che porta direttamente dalle speranze d’inizio Novecento al cinismo di quest’inizio secolo, del suo vuoto ideale e progettuale: e getta su quelle speranze una luce crudele, quella della tragedia.
Un’ultima annotazione: sia quello di Servillo sia quello di Castri sono prima di tutto spettacoli d’attore, costruiti sulla materialità del lavoro degli interpreti, con compagnie equilibrate (e cast abbastanza ricchi). A volte con punte di virtuosismo, a volte con qualche acerbità (soprattutto nei ruoli delle “prime amorose”), e tuttavia nell’insieme determinate e convincenti, in grado di sostenere la chiave di lettura suggerita dalla regia e al tempo stesso di arricchirla.


 
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