ateatro 107.30 05/03/2007 Tracce di Fassbinder nel Motus operandi Conversazione con Daniela Nicolò sull’ultimo spettacolo dei Motus Rumore rosa, ispirato al cinema di RW Fassbinder di Andrea Balzola
I Motus, fondati e diretti da Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, sono uno dei gruppi italiani di ricerca che con maggiore continuità, originalità ed efficacia espressiva assimilano ed esplorano nel linguaggio teatrale l’uso delle nuove tecnologie e dei media, dal cinema alla televisione, dal video alle nuove frontiere digitali di internet e della post-produzione. Non a caso oggi il loro lavoro è tra i più richiesti e apprezzati oltre confine. Dopo aver attraversato l’universo pasoliniano di Teorema (con L’ospite) e di Petrolio (con Come un cane senza padrone), affrontano ora un’altra dimensione poetica stratificata e complessa come quella del regista tedesco Fassbinder, percorrendo le due anime delle sue ossessioni artistiche: quella “politica” con lo spettacolo Piccoli episodi di fascismo quotidiano, e quella “melodrammatica” con Rumore rosa, attualmente in tournée (20-21 gennaio a Scandicci, 21-25 febbraio a Napoli, 8-10 marzo a Modena, 30 giugno-1° luglio a Roma). Mentre il primo è costruito a episodi/eventi unici, liberamente ispirati all’anomalo testo teatrale-cinematografico Pre-paradise Sorry Now del 1969, il secondo doveva essere nelle intenzioni iniziali un remake teatrale del film Le lacrime amare di Petra von Kant del 1972, ma dopo la negazione da parte Siae dell’autorizzazione si è trasformato in qualcosa di molto diverso. Lo spettacolo comincia dalla fine del film (ma anche dalla fine di Fassbinder, che abbandona i suoi personaggi), dalla separazione e quindi dalla solitudine delle tre donne Petra, Marlene e Karin: le prime due sono “recluse” nelle loro rispettive abitazioni, la terza vaga con una valigia per la città. Protagoniste bravissime sono Silvia Calderoni, che viene dal mondo performativo e della danza, Emanuela Villagrossi, una delle attrici più intelligenti ed espressive della nuova scena italiana, già protagonista delle due precedenti pieces pasoliniane, e la giovane Nicoletta Fabbri.
Anche questa volta l’allestimento dei Motus produce uno spiazzamento percettivo e un’invenzione espressiva mediante l’intreccio tra il linguaggio teatrale e il linguaggio dei media e dei new media. Se nelle messinscene pasoliniane l’azione si sdoppiava e si compenetrava con grande efficacia con ambienti e scene videoproiettate, in Rumore rosa le attrici agiscono su un palcoscenico vuoto come un foglio bianco, dove di volta in volta appaiono esterni urbani ed interni bidimensionali, disegnati e animati. I personaggi vivono come incarnazioni provvisorie dentro un grande story-board (videoproiettato) che ne scandisce la dimensione spazio-temporale.
L’immaginario cinematografico, con esplicite citazioni o con sofisticate e “archeologiche” rielaborazioni, è uno dei motivi conduttori dei lavori dei Motus, abbiamo quindi chiesto a Daniela Nicolò, che tipo di legame esiste in questo ultimo lavoro con il cinema.
Daniela Nicolò Rispetto all’Ospite, dove i riferimenti cinematografici pasoliniani erano espliciti, qui non c’è un legame diretto con un film in particolare di Fassbinder. Infatti, dopo che è venuta a mancare la possibilità di fare un remake delle Lacrime amare di Petra von Kant, abbiamo cambiato radicalmente rotta e abbiamo raccolto in modo trasversale degli spunti da diversi film di Fassbinder (in particolare Un anno con 13 lune, Veronika Voss, Selvaggina di passo...) per la ri-costruzione dei tre personaggi femminili. Ci siamo anche rivisti tutti gli straordinari melodrammi cinematografici di Douglas Sirk, che Fassbinder considerava il suo maestro, non per trarne citazioni dirette ma per respirare e far traspirare quel clima, quella dimensione di catastrofe sempre latente, che irrompe sempre improvvisa, ma inevitabile, a spezzare gli equilibri e i sogni dei personaggi. Come il motivo tipico dell’incidente automobilistico in cui una donna è investita, che abbiamo ripreso nello spettacolo lasciandone ambigui gli esiti.
Una delle caratteristiche principali del vostro lavoro è quella di creare un inedito intreccio fra il linguaggio del teatro e i linguaggi mediatici. In questo caso avete imboccato una nuova strada...
Daniela Nicolò Sì, non abbiamo usato il video ma il disegno animato, per realizzare gli ambienti in cui si trovano le tre donne. Un giovane molto bravo, Filippo Letizi, ha fatto i disegni di interni ed esterni urbani, poi il team “visual composing p-bart.com” li ha animati elaborandoli con il software After Effect. Non è uno sfondo scenografico e nemmeno un’animazione classica, è di fatto uno story-board di soli ambienti, animati da piccoli movimenti, all’interno dei quali si collocano i personaggi reali. Com’è nostro costume, abbiamo scritto lo spettacolo come una sceneggiatura cinematografica, ma in questo caso si è aggiunta la dimensione visiva dello story-board, infatti questo passaggio continuo tra gli interni (in cui si trovano Petra e Marlene) e gli esterni (la città dove si aggira Karin) è stato per noi un supporto drammaturgico importante sia nel risultato scenico finale sia nel processo di costruzione. Tutto, gli ambienti e le azioni, è visto come attraverso una finestra e la finestra è anche l’inquadratura cinematografica. Esiste tra l’altro una singolare omonimia nella lingua tedesca: la parola EINSTELLUNG significa sia “inquadratura” in senso cinematografico, sia atteggiamento nei confronti di qualsiasi fenomeno e, per estensione, anche “giudizio” in senso morale. Si tratta quindi di una definizione perfetta per il cinema di Fassbinder, che osserva uomini e cose alla luce di principi e valori, e dove le vittime si possono trasformare ad ogni momento in carnefici.
Qualche traccia originale di Fassbinder resta nello spettacolo, in un’originale soluzione teatrale che mescola voyeurismo e nostalgia, due componenti essenziali del genere melò...
Daniela Nicolò E’ vero, abbiamo conservato dei brevi frammenti di dialoghi tratti dal film di Fassbinder, che abbiamo rifatto con le nostre attrici e inciso su un disco di vinile, che Marlene ascolta continuamente insieme a vecchie canzoni d’amore (lei è la segretaria-serva, il personaggio che osserva e ascolta tutto, che incarna quindi la figura del testimone e del voyeur, memoria e filtro di tutta la vicenda amorosa fra Petra e Karin). Il fruscio del disco e la puntina che riga e s’incanta alimentano quel clima di patetismo estremo ed ossessivo che volevamo restituire, sottolineandone anche l’artificiosità.
Non potendo basarvi su un testo pre-esistente, come avete condotto il lavoro drammaturgico e come avete elaborato il copione?
Daniela Nicolò C’è stato un grande lavoro preliminare di improvvisazione, fatto insieme alle attrici. Non avevamo nessun testo di partenza, solo vecchie canzoni d’amore, perché questa volta volevamo lavorare anche sul canto. Abbiamo costruito lo spettacolo associando ciascun personaggio ad alcune situazioni fondamentali: la solitudine; l’attesa di una telefonata (con un importante riferimento alla Voce umana di Cocteau); una donna sola con la valigia che vaga per la città. I testi sono scaturiti soprattutto da queste improvvisazioni e da alcune rielaborazioni fassbinderiane (soprattutto da un Un anno con 13 lune, tra i più cupi melodrammi del regista tedesco, sulla solitudine amorosa di un transessuale), mescolandosi e compattandosi con parti scritte da me. E’ importante sottolineare che nel nostro “motus operandi” il testo non è mai definitivamente compiuto, ma rimane un work in progress che noi ci riserviamo di modificare e integrare prima di ciascuna replica, recentemente Emanuela ha aggiunto un suo contributo e anch’io tendo a rimetterci ogni volta le mani...
Per concludere, il Rumore rosa del titolo potrebbe riferirsi al borbottio solitario di queste perdute anime femminili, ma ha anche un altro significato...
Daniela Nicolò Sì, il “rumore rosa” è un termine tecnico per definire quelle frequenze artificiali che i tecnici del suono utilizzano per evidenziare la curva di equalizzazione ottimale in un ambiente che ospita una esecuzione musicale. Richiama quindi sia la costruzione artificiale di un mondo sonoro, sia l’artificiosità della messa in scena contemporanea, dove si manifesta la frattura insanabile fra l’immaginazione melodrammatica delle origini e la crisi odierna dei sentimenti e degli stereotipi teatrali. Una cesura che Motus porta impressa come un tatuaggio indelebile...
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