ateatro 97.25 La cultura scenografica tra formazione e professione L’anomalia italiana di Paolo Felici (direttore di "The Scenographer")
Il recente convegno tenutosi al SIB di Rimini sul teatro e i linguaggi digitali organizzato dalla rivista internazionale The Scenographer ha reso possibile avviare un importante screening sullo status della cultura scenografica tout court nei paesi occidentali e in particolare in Italia, nazione dove la scenografia teatrale e l’allestimento scenografico hanno sempre primeggiato.
Infatti prima di entrare nel clou del programma si è voluto lasciare spazio ai rappresentanti di categoria e ai docenti delle accademie di Belle Arti italiane sufficiente per aprire un dibattito sul tema della cultura scenografica divisa tra formazione e professione. Il dibattito proseguirà poi nei prossimi mesi con un ulteriore symposium che vedrà il coinvolgimento di tutte le Accademie italiane e di alcune importanti istituzioni europee. Il quadro che ne è scaturito non è esaltante.
Come sappiamo, lo studio della scenografia viene impartito principalmente nelle Accademie di Belle Arti, ambito decisamente rivolto alle arti liberali, in cui tecnica, messaggio, espressività, e tutte le altre componenti del processo creativo, hanno pochissime mediazioni e relazioni con la prassi, se non quelle decise o adottate o pensate liberamente dall’artista.
La scenografia ha, come ben sappiamo, natura decisamente diversa: si sommano alle precedenti componenti specificamente creative, anche processi che riguardano la storia, la cultura, la drammaturgia, la psicologia, il tempo, una particolare metodologia tecnica, il luogo ed il suo rapporto con lo spettatore ed altro ancora. E’ un apprendimento difficile, complesso, alla stessa stregua del suo insegnamento: non è affatto facile insegnare scenografia, anche se molte facoltà universitarie ne hanno improvvisato dei corsi, affidandoli a figure, spesso rappresentate da architetti affermati e competenti, che tutto ciò ignorano o conoscono molto approssimativamente.
E’ chiaro che per tutti gli aspetti elencati in precedenza la specifica competenza nel campo scenografico può essere accreditata unicamente ad uno scenografo, ad un professionista della scenografia, data la concomitante assenza quasi totale di una bibliografia di riferimento: non esistono libri che parlino di scenografia se non qualche sparuta monografia su scenografi o sulla storia dello spazio scenico. Mancano gli studiosi di scenografia. Mancano gli esperti, gli appassionati, gli storici e i critici... Un’ancora di salvezza, l’unica che abbiamo oggi per un prezioso aggiornamento, è rappresentata appunto dalla rivista The Scenographer.
Lo stesso discorso naturalmente vale per la scenotecnica, che ancora viene insegnata almeno in Italia come materia accessoria o complementare, se non addirittura assente, come in certi corsi universitari di specializzazione di recente formazione, dimenticando che ormai scenografia e scenotecnica sono praticamente coincidenti nella contemporaneità teatrale (e lo sono sempre state, a monte dell’ideazione, anche nella progettazione...).
Qui meriterebbe un’analisi a parte quel fenomeno iniziato alla fine degli anni ’60, che ha visto il proliferare di riviste iper tecniche da sempre sostenute e protette da un surplus di documentazione aziendale tale da trasformarle spesso in meri cataloghi di prodotti, destinati ad una cerchia ristretta di utenti, cioè gli specialisti, per l’appunto. Fenomeno che è andato crescendo di pari passo con l’avvento delle Fiere di settore, di cui il SIB è l’esempio italiano. Questo fenomeno è figlio di quella “…cultura universitaria dove molti di noi si sono formati mezzo secolo fa, una cultura non preoccupata più di trasmettere un’immagine unitaria del mondo, ma di fornire degli stereotipi di alcune realtà parziali, spezzettate, nell’intento di formare un numero sempre più cospicuo di specialisti che potessero contribuire con la loro opera allo sviluppo della nostra società. Si è creata così a poco a poco un tipo di civiltà sui generis: la civiltà degli specialisti…(Roberto Rossellini). Oggi lo specialista ha il compito di fornire un bagaglio incalcolabile di conoscenze, ma solo in una direzione. Ma lo scenografo è qualcosa di più se non qualcosa di diverso da un bravo tecnico. Egli è come lo definì Josef Svobota: un regista al 50% così come il regista è uno scenografo al 50%. Per essere scenografi occorre dunque avere innanzitutto una buona e vasta cultura generale, base che spesso manca agli specialisti. Ma non ci è fermati qui, non è bastato far sparire del tutto la letteratura scenografica, i testi critici, non è bastato cancellare gli archivi, sopprimere le uniche riviste di documentazione storica e iconografica, annullare dalle agende l’ampio dibattito sulla scenografia che aveva visto i grandi registi e i grandi architetti scenografi confutare e confermare tesi spesso azzardate, ma sempre e comunque futuriste e futuribili e quindi cariche di attenzione per l’avvenire delle nuove generazioni; si ricordi, per esempio, quell’avvincente controversia sull’antiscenografia rosselliniana, avviata senza complessi di inferiorità dal grande scenografo italiano De Marchi alla vigilia dell’esordio del neorealismo italiano.
Ma oggi sembra giunto il tempo in cui la scienza e l’arte dovranno tornare a convergere, come ampiamente teorizzato dagli studiosi della Gestalt (in primis Arnheim), non è più possibile, ad esempio, per uno studioso che adotta procedure informatiche, non avere nozioni basilari sull’uso e sulla qualità delle immagini e delle interfacce; allo stesso modo uno studioso d’arte non può ignorare aspetti formativi scientifico-matematici per addentrarsi negli affascinanti meandri degli strumenti interattivi. Abbiamo bisogno gli uni degli altri e soprattutto di un continuo, infinito aggiornamento attraverso il quale è impossibile ogni nuovo, imprevisto risultato o creazione. La tradizionale messa in scena vede spesso competenze e saperi diversi procedere, nello stesso spettacolo, quasi isolati, pur nella comune finalità, ognuno convinto di essere l’elemento indispensabile: così l’attore, così il regista, così lo scenografo, così il musicista, così il tecnico. Ma nelle nuove forme di spettacolo intermediale, ad esempio, questo non può succedere: è impensabile che il performer non collabori con l’ingegnere per arrivare ad un risultato ottimale e che quest’ultimo non si consulti con il regista e che questi non decida con lo scenografo la variazione e che il tecnico non capisca la natura di questa esigenza ecc. L’inter-attività sembra essere quindi un concetto guida soprattutto in campo formativo laddove corsi di specializzazione e centri di ricerca rappresentano l’anello mancante fra il mondo dello studio e quello della professione e della produzione. Specializzazione e ricerca che manifestino i loro risultati con cadenza ritmica e aperta, proprio per finalità divulgative e, perché no, promozionali.
Tornando così al tema centrale, dicevo che solo uno scenografo dovrebbe insegnare scenografia: aggiungerei anche che, fra tutti gli scenografi, solo una parte potrebbe essere adatta all’insegnamento, compito che richiede ancora altre, diversificate caratteristiche che sarebbe lungo elencare (il rischio, come per l’arte, è una sorta di plagio diffuso...). Ma il punto non è ancora questo.
Come primo dato, si constata che nella maggior parte dei corsi di scenografia, più che l’aspetto progettuale, funzionale e drammaturgico, viene invece privilegiato l’aspetto principalmente compositivo-visivo e questo proprio per la naturale propensione verso quello estetico, così caro alle accademie. Ai nostri studenti manca il contatto con gli altri colleghi discenti delle discipline dello spettacolo: registi, attori, ballerini, musicisti, drammaturghi. Da ciò deriva il fatto che i famosi “bozzetti” e “teatrini” che si vedono circolare nelle aule di scenografia (a parte la loro scarsa propensione a diventare vera e propria scena funzionante soprattutto registicamente...), presentano dei rimandi storici, che proprio a causa della loro specifica natura basata su un virtuosismo “manuale” principalmente grafico-pittorico, illusorio, possono essere accostati al massimo a periodi storico-teatrali relativi ai primi decenni del novecento, se non a quelli ottocenteschi: sembra quasi che il ‘900 e la contemporaneità non siano mai esistiti....Sembra che tutto si fermi ad Appia: i contenuti de “Il teatro e il suo spazio” di Peter Brook (1968) paiono quasi irraggiungibili.
Si hanno quindi degli strani fenomeni fra gli studenti: di giorno, nelle aule, imparano i metodi ed i contenuti di una scenografia quasi ottocentesca, d’immagine, di ricostruzione pedestre, anche se “artistica”; la sera, poi, vanno a vedere uno spettacolo contemporaneo, non capiscono più le distinzioni fra regia, scenografia, scenotecnica, illuminotecnica, attrezzistica, trucco e tutto ciò che concorre alla complessiva immagine dello spettacolo (perché è solo qui che la scenografia acquista il suo vero valore e la sua funzione...), di “quello” specifico spettacolo; addirittura la performance viene sempre meno spesso presentata in un teatro: si scelgono, come più interessanti ed adatti, luoghi che hanno altri tipi di fascino, e questo la dice lunga anche sulla capacità di rinnovamento e flessibilità operativa e funzionale del teatro inteso nella sua accezione puramente architettonica.
Ecco un altro punto: ci ostiniamo a far riferimento ad una tecnica che non esiste più. E poi, non ultimo per importanza, il contatto col luogo e con il “fare” performativo: nella formazione e nella specializzazione, sono completamente assenti le occasioni per capire da vicino come funzioni uno spettacolo o una messa in scena. Non c’è alcun rapporto fra le istituzioni di istruzione e quelle dello spettacolo: la maggior parte delle lezioni teorico-visive non hanno nessuna possibilità di trovare applicazione, a parte qualche isolato caso particolare, a nessun livello della pratica teatrale.
Tutto viene affidato quindi alla personale esperienza, dopo il ciclo di studi specifici, ed alla buona sorte di trovare un qualsiasi modo per mettere finalmente in pratica le cose imparate (fra parentesi in Italia siamo sconcertati nel constatare che l’iscrizione all’Ufficio collocamento speciale dello spettacolo come scenografo, non richiede alcun titolo di studio specifico: chiunque vi si può iscrivere...).
Ma che possibilità ha, una volta terminati gli studi, un giovane neo laureato in discipline progettuali dello spettacolo? Lasciando perdere chi intraprende altre vie ed altre professioni, quando è fortunatissimo, riesce a diventare una di quelle figure chiamate “assistenti”, divise, nella maggior parte dei casi, fra compiti di servilismo domestico-grafico e “galoppinaggio” fra ditte e luoghi diversi, alla ricerca, spesso, di “capricci”, cose che non si trovano, ammesso che esistano (e sembra essere comunque, questo, un percorso, quasi sempre a titolo gratuito, necessario per imparare...).
Quando è meno fortunato, comincia a darsi da fare per qualche piccola compagnia semiamatoriale letteralmente impazzendo, assalito da problemi che non ha mai affrontato (i principali dei quali sono naturalmente economici e tecnici), ma soprattutto in preda a registi improvvisati, che al massimo hanno fatto qualche corso di recitazione e che non sanno neppure prefigurare nella loro testa le idee grafiche che vengono loro presentate (non per colpe loro, ma perché non hanno nessuna nozione o intuizione di tipo visivo...). In nessun altro campo del sapere e della cultura, infatti, vi è da una parte ignoranza visiva, e dall’altra, un’ingerenza così massiccia come nell’arte in generale e nella scenografia in particolare: tutti si sentono in grado di dare dei “preziosi consigli” o semplicemente accurati giudizi estetici; ognuno toglierebbe o aggiungerebbe qualcosa; la competenza specifica dello scenografo non viene neppure presa in considerazione.
A ciò si aggiunge anche la normativa: incredibilmente un progetto scenografico in Italia non è neppure tutelato dal diritto di immagine e d’autore... E’ un riflesso dell’incultura e dell’ignoranza rebound in cui ormai versa il Bel Paese.
Fino a qualche anno fa, qualche possibilità di lavoro era offerta dal campo della realizzazione scenografica: molti laboratori di pittura, scultura e di scenotecnica ricorrevano a prestazioni più o meno occasionali di “manodopera specializzata” per far fronte ai numerosi impegni che in particolari periodi dell’anno (a causa di concomitanti ed imminenti stagioni teatrali) venivano assunti. Ora, molti ateliers di scenografia hanno chiuso i battenti, non solo quelli piccoli, ma anche grossi e storici laboratori, e quelli rimasti si rivolgono sempre più spesso ai mercati, più proficui e continui, degli stands fieristici ed espositivi o ai parchi a tema o anche al settore delle giostre e dell’intrattenimento e l’antichissima arte del pittore scenografo si sta estinguendo quasi completamente. Mai come in questo periodo le occasioni di esercitare questa bellissima professione a livelli medi o medio alti sono praticamente prossime allo zero. La mancanza di fondi da destinare alla scenografia, in generale, ci costringe a vedere letteralmente e simbolicamente “nero”: sempre più spesso vediamo spettacoli teatrali montati su un impianto di quinte e fondali neri; opere liriche date in forma di concerto; pièces teatrali che nella maggior parte dei casi hanno uno o due protagonisti e non hanno scena. Ma è così poco significativa la parte visiva di uno spettacolo?
Per contro (è paradossale e spesso incomprensibile...), quando grandi organizzazioni teatrali o culturali decidono di investire sull’allestimento scenico (spesso consorziandosi e coo-producendo), si affidano (per “andare sul sicuro”, per non rischiare o semplicemente per mancanza di competenza...) alla solita “gerontocrazia scenografica”, una sorta di piccola accolita di notissimi, ricchissimi, protetti (dalle agenzie) e potenti scenografi (anche se peraltro capaci) che, per il loro spettacolo e per il loro cachet, letteralmente rastrellano tutte le risorse economiche dell’evento o della stagione, lasciando terra bruciata ai pochissimi emergenti che hanno l’avventura di lavorare dopo di loro. Il doppio risultato è che agli allestimenti scenici viene sempre più spesso imputata la causa degli eccessivi costi di uno spettacolo, (che, per contro, dati alla mano, rappresentano forse una delle spese minori) e nel panorama della scenografia italiana i giovani non hanno modo di dimostrare non solo il loro valore, ma spesso anche lo spirito innovativo che portano come loro bagaglio generazionale.
Troppo “nera” questa visione? Probabilmente.
Che fare quindi per dare un significato positivo all’analisi ed essere quindi propositivi?
Premesso che ovviamente nessuno ha la verità in tasca, i cambiamenti dovrebbero riguardare piani e competenze diversificati, da quello istituzionale a quello sociale a quello più propriamente professionale. Innanzitutto l’insegnamento della scenografia dovrebbe, a nostro giudizio, essere impartito in istituzioni che affrontino i temi dello spettacolo nelle sue componenti principali (assieme a regia, drammaturgia, musica, balletto, recitazione, canto, tecnica ecc.), con un diretto aggancio al mondo della produzione artistica (teatrale, cinematografica, televisiva e performativa), almeno nel periodo di studio finale, creando figure che si occupino anche degli aspetti storico-critici specifici, naturalmente. Questo consentirebbe altresì di sviluppare una fase di ricerca (indispensabile) e di aggiornamento soprattutto per quanto riguarda i rapporti con le nuove tecnologie, convergendo verso un mondo espressivo maggiormente legato alla contemporaneità, pur non rinnegando la storia, sia nei contenuti sia nelle molteplici forme e contaminazioni.
Favorire la nascita e l’apertura pubblica di centri di documentazione, archiviazione ed aggiornamento di tutti gli spettacoli che vengono prodotti, in modo che diventino patrimonio educativo comune il più ampio ed il più diffuso possibile.
Avviare da subito iniziative convergenti che portino alla tutela delle competenze (di tutte le competenze, una sorta di quello che con un brutto termine viene chiamato “albo” professionale) e soprattutto all’allargamento anche in nuovi settori dello spettacolo nel suo insieme, del diritto d’autore e di tutela di immagine.
Attuare una politica culturale ed educativa che oltre a privilegiare ogni aspetto relativo alle scienze, consenta anche alle arti, comprese quelle dello spettacolo, di diventare patrimonio indispensabile del sapere e testimonianza di cultura sociale (attualmente lo sono solo a parole).
Potrebbero essere moltiplicate tutte le iniziative che portino in qualche modo a rendere pubblici (quasi concorsuali, o quantomeno maggiormente competitivi) gli affidamenti di allestimenti scenici o almeno di quelli più importanti (questo già avviene nel campo della musica, del canto e del balletto): ciò consentirebbe di calmierare i prezzi e di avere un notevole spettro di scelta dell’allestimento sia sotto il profilo dei costi che su quello dei contenuti. Oppure trovare delle formule che premino (economicamente) tutte quelle istituzioni che in qualche modo favoriscano la scoperta di nuovi talenti in campo progettuale scenografico tenendo ampiamente conto principalmente del rapporto prezzo/qualità.
Tutto ciò comporterebbe anche e soprattutto la crescita ed il moltiplicarsi della specifica competenza di figure specialistiche anche nei quadri istituzionali: i responsabili di tutti i settori relativi al mondo dell’allestimento dovrebbero essere individuati sulla base di specialistici saperi che gli istituti, sopra accennati, dovrebbero saper e poter formare.
Tutta la cultura dello spettacolo ne trarrebbe un cospicuo beneficio e probabilmente consentirebbe quella crescita del gusto che certe forme di pessimo intrattenimento, soprattutto ultimamente, hanno notevolmente abbassato, se non imbarbarito.
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