ateatro 97.21 Beckett e Keaton: fuori e dentro Film Da Massimo Puliani-Alessandro Forlani, Play Beckett. Visioni multimediali nell'opera di Samuel Beckett di Alessandro Forlani
Questo testo è tratto dal volume PlayBeckett – visioni multimediali nell’opera di Samuel Beckett di Massimo Puliani e Alessandro Forlani, Halley Editrice, Matelica 2006.
Il rapporto Beckett-Keaton principia con un rifiuto: quello di Buster alla parte di Lucky nella prima statunitense di Aspettando Godot. Tocca a Schneider ritentare l’approccio: si reca ad Hollywood nel giugno del ’64 per offrire a Keaton il ruolo di protagonista.
I presupposti non sono dei più felici. La scelta del popolare comico americano, in quegli anni benché non dimenticato ormai sul viale del tramonto, pare dettata da necessità economiche; di produzione più che scelte artistiche. E’ in effetti un approdo di ripiego:
“Avevamo pensato a Chaplin o a Zero Mostel per la parte di Og. Chaplin, come ci aspettavamo, era assolutamente inavvicinabile; Mostel, non disponibile. Puntammo su Jackie MacGowran, un attore amato sia da Beckett che da me. Jackie è un attore brillante, ed era stato più volte interprete delle commedie di Beckett in Inghilterra e in Irlanda; comprese e sentì la parte senza bisogno di una parola di spiegazione. Inoltre era appena stato acclamato nel piccolo ma gustoso ruolo del bandito in Tom Jones, ed era diventato improvvisamente “vendibile”. (…) Poi, come sempre succede, cominciarono a nascere difficoltà. (…) Perdemmo il nostro operatore per un qualche colossal hollywoodiano (…); Jackie aveva ricevuto una parte in un lungometraggio che riduceva pericolosamente la sua disponibilità per l’estate. (…) Mentre tutti noi eravamo presi dal panico per l’improvvisa crisi del cast, Sam suggerì tranquillamente Buster Keaton”.
Schneider non sa neppure se Keaton sia “ancora vivo”. Scopre che lo è, in buona salute ma in difficoltà economiche. Tanto che nel biennio 1964-1965 l’attore partecipa in America e in Europa a produzioni di vario genere non sempre di qualità, dichiaratamente per bisogno di denaro . Né lo entusiasma l’opera di Beckett:
“Keaton aveva letto la sceneggiatura e non sapeva bene cosa si potesse fare per adattarla cinematograficamente. La sua opinione era che eravamo tutti matti, Beckett incluso. Ma aveva bisogno di denaro, una bella somma per un lavoro di meno di tre settimane, perciò accettava la parte. Si, si ricordava della faccenda di Godot, ma neanche quello l’aveva capito bene.
Keaton non faceva nessuno sforzo per nascondere la sua generale perplessità. La sceneggiatura non solo non era chiara, confessò, ma non era neppure divertente (…). Mi confidò che ai suoi tempi aveva fatto molti film e non vedeva come questo qui avrebbe potuto durare più di quattro minuti. Aveva calcolato i tempi (…). Avrebbe fornito volentieri – dietro compenso – qualche idea. Del 1927”.
L’incontro fra i due, “atteso e temuto”, è fonte di aneddoti. Schneider lo riporta come una scena da teatro di Beckett; un dialogo negato. Al di là del suggestivo episodio, è evidente il disinteresse di Keaton per il lavoro dell’interlocutore; il reciproco imbarazzo nello stabilire un rapporto – non uno scambio – che non è artistico ma solo economico e professionale:
“Uno di quegli avvenimenti che sembrano inevitabili prima di aver luogo, impossibili quando avvengono, e incredibili in seguito. Sam aveva atteso l’arrivo di Keaton con ansia; conosceva e rispettava il suo lavoro fin dal tempo dei vecchi film muti. Keaton, conoscendo la fama di Sam come drammaturgo e romanziere, era incuriosito, ma non sapeva bene cosa pensare di un uomo come Beckett. I saluti furono tiepidi, forse senza volere, leggermente imbarazzati. I due si scambiarono pochi convenevoli, era soprattutto Sam a parlare, poi si misero a sedere in silenzio. Ogni tanto Sam, e io, cercavamo di dire qualcosa per mostrare dell’interesse verso Keaton, o solo per tenere in piedi una conversazione inesistente. Tutto inutile. Keaton rispondeva a monosillabi.
Non ha domande da fare su qualche punto della sceneggiatura, Buster?
No. (Pausa).
Cosa ha pensato del film quando l’ha letto?
Beh… (Lunga pausa).
E così via. Era straziante. E senza speranza. Semplicemente non avevano nulla da dirsi, niente da spartire. E tutta la buona volontà di Sam e i miei accaniti sforzi per iniziare una conversazione non riuscirono a stabilire tra loro alcun contatto”.
Pure, ammette Schneider, Keaton “era lì e dovevamo tenercelo”. Sebbene non entusiasta in principio, o forse proprio per questo, Keaton tenta da subito di imporre a Film il proprio stile. Suggerisce a Schneider, che normalmente non aggiungeva nulla al materiale di Beckett, di moltiplicare le gags; l’inserimento di uno sketch in cui avrebbe continuato ad affilare una matita che diventava sempre più piccola, qualche maniera particolare di camminare e insiste per mantenere il suo vecchio cappello Stetson che considera come il suo “marchio di fabbrica”. Richiesta che Beckett accoglie senza obiezioni (la sceneggiatura prevede in fondo che Og indossi un cappello), suscitando la sorpresa della troupe ma soprattutto preoccupazione da parte di Schneider: il film sarebbe diventato un film di Buster Keaton anziché di Beckett? Timore fondato se consideriamo la fortuna della pellicola:
“Incontrammo delle difficoltà nel vendere il film. Poi, nell’estate del 1965 , giunse un’offerta inaspettata dal New York Film Festival. Amos Vogel ne aveva vista per caso una copia e pensava che valesse la pena mostrarla – come parte di una retrospettiva dedicata a Keaton. Il film stava già diventando di Keaton, non di Beckett. Combattei un’altra battaglia persa per impedire che venisse inserito fra due cortometraggi di Keaton, una comica che aveva girato molti anni addietro e un cortometraggio pubblicitario sulle ferrovie appena ultimato. Erano entrambi divertenti, anche se non eccezionali, e mostravano il Keaton tradizionale. Avevo paura di ciò che sarebbe successo quando sarebbe apparso il Keaton inatteso. Poi Film cominciò. Il pubblico specializzato dei festival cinematografici, composto da critici e studenti di tecnica cinematografica, cominciò a ridere dal momento in cui apparvero i titoli di testa, e le risate divennero fragorose di fronte a quel magnifico grottesco primo piano della palpebra di Buster. Un attimo dopo smisero di ridere. Definitivamente. Per tutti i ventidue minuti successivi stettero là seduti, annoiati, seccati, perplessi e defraudati del Keaton che erano venuti a vedere. Naturalmente i critici ci diedero addosso o ci ignorarono. Quanto al “messaggio” – esse est percipi – nessuno lo afferrò minimamente.
Finalmente Film venne proiettato in vari festival cinematografici europei. Dovunque veniva rappresentato, a volte anche insieme ad altri film di Keaton, riceveva una rispettosa attenzione e il suo significato veniva almeno parzialmente colto. Cominciò ad acquistarsi quello che può essere definito un pubblico underground di ammiratori di Beckett e di Keaton”.
Nella visione di Beckett il film doveva possedere una comicità leggermente stilizzata simile a quella del cinema muto. Più ancora che per “libera interpretazione del testo da parte di attori e regista” Film rischia però, per la troppo ingombrante presenza di Keaton, di mutare carattere. Soprattutto nella ricezione del pubblico. Per tacere dell’equivoco autorale.
Le circostanze hanno costretto Schneider a sostenere – ed egli par di questo accorgersi solo alla risposta a Film delle platee – un pericoloso confronto fra due complessi strutturati immaginari: quello di Beckett e quello del cinema muto; nel volto (tanto più onnipresente in quanto evitato sino alla fine; perciò troppo atteso, indovinato) di uno dei suoi assoluti protagonisti. Certo non è permesso a Keaton di “danzare il tip tap per rendere la sceneggiatura più interessante”; ma Beckett come si è visto acconsente alla Stetson e gli concede di esprimersi “con la sua propria poetica mescolanza di grazia e goffaggine”. Quanto, nella sequenza del marciapiede, è “furia, comica e disordinata precipitazione” come da script o “particolare maniera di camminare” di Buster? Senza che sia nel testo specificato, Schneider gira più volte una sequenza di “corsa ad ostacoli lungo il muro”; anzi continua ad aggiungere impedimenti per esaltare quella buffa andatura. Si dà a Keaton carta bianca nella sequenza con gli animali, ov’egli “si trovò nel suo elemento”: al punto di riprendere molto ma ritrovarsi infine a non poter utilizzare tutto il materiale:
“Alcune delle riprese eliminate, con Keaton che fa le boccacce agli animali e li caccia via, erano fra le più divertenti del film. Il guaio era che, a causa della rigida dicotomia fra le due visioni, non potevamo tagliare dove volevamo e montare assieme parti di due riprese. Ogni ripresa doveva continuare fino alla fine”.
Materiale che assume carattere tale da determinare incertezze anche in fase di montaggio:
“Il lavoro di montaggio richiese molta cura – e fu un’impresa ardua. Sidney Meyers cercava sempre, garbatamente, di cambiare l’impronta che avevamo dato durante le riprese, e Sam e io, in modo diverso, cercavamo, sempre garbatamente, di farlo rimanere fedele ad essa”.
Qui, dettato beckettiano, ci si porta con rigore e fermezza. Era stata precisa cura di Schneider procurarsi un “montatore privo di un ego troppo forte”. Ma si è altrove accondiscendenti con Keaton, probabilmente perché “persuasi” dal personaggio di Keaton.
Se il dato visivo si dà come fondamentale nel teatro di Beckett, testo azioni senso profondo del dramma sono legati a un’immagine, Beckett e Schneider hanno commesso un’imprudenza semantica nell’affidare ad un volto del cinema così noto il ruolo di protagonista di una storia di complessi contenuti per di più non immediatamente espliciti. Altro è vagamente alludere, con le bombette di Aspettando Godot, alla clownerie e alle maschere dello slapstick; altro e mostrarne una ben definita. Problema che si sarebbe posto in modo eguale nei presupposti, differente negli esiti, a seconda dell’attore, se altrettanto famoso, cui si fosse rivolti. E’ anzi opportuno anzi interrogarsi sulla maschera. Osserva Cremonini:
“C’è qualcosa nel cinema comico che lega i personaggi al di là delle storie che vivono in ogni singolo film e non è solo questione di faccia (non basta che alcuni film siano interpretati da uno stesso attore perché esistano necessariamente delle analogie): ogni film comico – o quasi – si iscrive infatti in una specie di super-serie del tipo Le Avventure di… e cioè nella tradizione narrativa del romance e della serialità. Ciò è in buona parte dovuto all’uso di maschere in luogo di personaggi; in analogia con la commedia dell’arte e il circo. Charlot, Harold Lloyd, Larry Semon, Harry Langdon, persino i fratelli Marx, sono maschere inconfondibili e poco o nulla importa che i loro personaggi cambino nome e professione da un film all’altro. Nemmeno Keaton sfugge alla regola, anche se interpreta sempre personaggi diversi e non ha quasi nulla dei caratteri convenzionali della maschera: il suo volto è pulito, tutt’al più pallido quel tanto che basta per far risaltare i grandi occhi attoniti. La discrezione figurativa e il rifiuto di sovraconnotazioni clownesche disegnano un’anti-maschera in cui rientra anche l’imperturbabilità.”
Si consideri la scena del volto e dello sguardo (“III. 3. Investimento vero e proprio”):
“A poco a poco quello sguardo.
Stacco su Oc, del quale questa è la prima immagine (solo il volto, sullo sfondo la parete scrostata). E’ il volto di Og (con la benda), ma con un’espressione molto diversa, impossibile a descriversi, né di severità, né di benevolenza, piuttosto di penetrante intensità”.
C’è nella trasposizione cinematografica una piccola, determinante differenza con lo script. Poiché non è in questa sequenza la “prima immagine” di Oc/Og/Keaton: lo spettatore scopre piuttosto quello sguardo, quel volto, già in “III. 2: Og apre la cartellina, ne estrae un pacco di fotografie”. La foto indicata nelle Note con 7):
“Stessa persona. 30 anni. Aspetto oltre i 40. Indossa cappello e soprabito. Benda sull’occhio sinistro. Rasato. Espressione arcigna”.
La foto ritrae un inconfondibile Buster, identità anticipatamente svelata rispetto al tempo/tema del racconto. Ma già il piatto Stetson della prima sequenza determina nel pubblico un’aspettativa altra, di cose keatoniane. E la sequenza dell’esse est percipi diviene quella della “lucidità nevrotica, quasi disperata nella sua solitudine, anzi nel suo essere fuori dal mondo” del volto di Keaton rivelato.
Stilisticamente – spesso lo troviamo nella pagina beckettiana – gli a-capo che pongono quel “a poco a poco quello sguardo” al centro del foglio, esaltato fra pause, indicano il tempo e l’importanza dello stesso. Quello sguardo, non altrimenti traducibile, proprio in effetti di Buster Keaton come, altrove che in Film, altri hanno osservato. Ancora Cremonini:
“Keaton non è inespressivo: è misurato, quasi sempre attonitamente imperturbabile, a tratti malinconico o preoccupato. Quello di Keaton è uno stupore non traumatico, ma infantile: è il senso della scoperta del mondo.”
Difficilmente Og, nell’interpretazione di Keaton, sarebbe riuscito “puro espediente strutturale e drammatico”. Immaginario e maschera suggeriscono irrevocabilmente allo spettatore contesti e contenuti altri rispetto a “poetica, temi di Beckett”, esse est percipi. Se Beckett scrive Film pensando a Charlie Chaplin, suggerisce Keaton in alternativa a Chaplin, anzi è l’immaginario del muto che determina anziché servire il senso dell’opera. Né quest’influenza è fatto nuovo nel teatro di Beckett. Avverte Bertinetti:
“In Godot sono presenti numerose gag tipiche del teatro di varietà (l’aspetto di Vladimiro ed Estragone, i vestiti e le scarpe, discendono dai clown; le bombette derivano dal cinema muto; e il numero di Vladimiro ed Estragone a metà del secondo atto, “tre cappelli per due teste”, arriva direttamente dalle comiche di Stanlio e Ollio e da Ducksoup dei Marx Brothers)”.
Annamaria Cascetta individua allo stesso modo nella drammaturgia beckettiana riferimenti a scene, gag, personaggi, recitazione, iconografia di Buster Keaton. Se in Aspettando Godot o altrove tali riferimenti devono però essere considerati (Bertinetti):
“Prestiti non molto lontani da quelli praticati da Brecht, introdotti come snaturamento della forma drammatica tradizionale attraverso soluzioni teatrali che vengono da generi spettacolari “bassi”, per definizione antitetici alla forma “alta” del teatro borghese”
Questo non è il caso di Film; ché anzi, in questa prospettiva, diverrebbe celebrazione del cinema muto, non un rifiuto dello stesso. E c’è motivo di sospettare non fosse questa l’intenzione dell’autore.
In un’intervista rilasciata a “L’Espresso” nell’aprile del 1986 Vittorio Gassman riferisce della proposta, un paio d’anni prima, da parte di Beckett e un “produttore inglese”, del ruolo di Og in un remake di Film; il cui sviluppo doveva riuscire “più lungo e articolato rispetto all’originale”. Di questa ipotesi si tornò a parlare nel Gennaio del ’91. Il remake non è mai stato realizzato, e l’interrogativo su cosa quello “sviluppo” prevedesse, sulla necessità avvertita da Beckett di tornare, rifare Film in prima persona, senza Chaplin o Keaton perciò forse lontano dal cinema muto, resta aperto. Misteri ed enigmi: denominatori comuni di tutti i suoi ultimi lavori.
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