ateatro 94.25 La voce dell’attore Una riflessione di Nevio Gàmbula
“Il cammino a ritroso della vita nel capitalismo, o nel coesistervi su un pianeta con fossa comune (perdita in su-perficie, crescita della morte nelle fosse), strappa il legame dell’attore con la (sua) proprietà privata: non recita più alcun ruolo. L’espropriazione=liberazione dell’attore come condizione della sopravvivenza del teatro”.
H. Müller
Ma che accade all’attore, alla voce dell’attore quando recita un testo? Secondo il senso comune, all’attore spetta il compito di svolgere il suo “ruolo” e seguire le indicazioni del regista. Il ruolo è fissato, in termini di indicazioni (didascalie più o meno generiche, a seconda dei casi), nel testo drammaturgico. Il regista ne propone una “lettura” e all’attore spetta realizzarla sul palcoscenico attraverso l’uso della voce, del gesto, dei movimenti nello spazio. È il rito dell’interpretazione. Ciò che ha pregnanza è la coerenza di ogni elemento con il testo. L’attore è – di fatto – un essere “pensato” dal testo; la sua costruzione della “parte” soggiace ad un particolare rapporto di dipendenza con esso. E pertanto la sua voce deve equilibrare il movimento dei suoni a quello del significato. Qual che accade alla voce, alla voce dell’attore nello spettacolo della parola, è ciò che potremmo chiamare l’esperienza del medium: essa è il mediatore tra l’autore e lo spettatore. Ma la mediazione presuppone l’esistenza di uno spazio condiviso, di una esperienza comune ad attore e spettatore: ed ecco che la voce dell’attore si concede alla luce dell’esperienza verbale quotidiana, così che risulti agevole individuare i significati della lingua. Nell’ambito del teatro con-temporaneo, dunque, il problema della esecuzione fonetica della parola è risol-to così: privilegiando la prosodia, in particolare le caratteristiche ritmiche ed intonative connesse ad informazioni di carattere “paralinguistico” tipiche della lingua comune. È il rito della voce come rappresentazione del testo.
Nell’ambito di questa concezione, la voce non viene vista come segno dotato di un proprio «potere di senso», ma come semplice veicolo di significati che hanno sede fuori dalla voce stessa, dentro il linguaggio: la voce è intesa come «gesto articolatorio» conforme al sentire del personaggio, ad essa spetta nient’altro che “tradurre” le situazioni previste dal testo facendo coincidere, nella dizione, ogni articolazione sonora con una «intenzione di senso». Questa tendenza si afferma a partire dagli insegnamenti di Stanislavskij e dal suo concetto di riviviscenza. La recitazione è intesa come «creazione organica di un essere umano vivente», mentre la qualità dell’attore si misura sulla sua capacità di identificarsi con il personaggio: è direttamente propor-zionale alla capacità di rendere la recitazione congrua ai parametri psicologici, esistenziali e intellettuali del personaggio, sviluppando il dire in perfetta aderenza al detto. Essere attore significa essere un altro. A onor del vero, la strada indicata da Stanislavskij era ben più complessa di quanto si sarebbe poi affermato nel teatro del Novecento, e la sua linea di ricerca è stata sicuramente tra le più importanti di tutta la storia del teatro. Resta però evidente che il suo sacralizzare il testo drammaturgico, cui l’attore deve sottomettersi, abbia di fatto contribuito ad affermare l’idea della “messa in scena” come fondamento del teatro, che in realtà è qualcosa di diverso: non solo trasposizione di un testo pre-esistente sulle assi di un palcoscenico, ma “linguaggio” vero e proprio, con una propria sintassi e una propria capacità ar-ticolatoria che esula il testo scritto. Se invece il testo è l’elemento prioritario, all’attore spetta il compito di farlo «rivivere»; per conseguire lo scopo deve fare della recitazione una semplice «azione verbalizzata» del testo stesso, rendendo la voce alienata in altro da sé. Con ciò – dice giustamente Maurizio Grande – l’attore «è schiacciato contro la fisionomia (verbale e mimica) della dramatis personae» e la sua voce si fa «megafono di una identità imposta dall’esterno», altra da quella dell’attore stesso. Esercitarsi ad essere un altro – parlare con la voce di un altro – di-pendere da questo altro – riprenderne il linguaggio, simularlo: essere attore significa la-sciarsi fare da un altro – da un altro che è così palesemente inumano, così assolutamente freddo, di “carta”. Essere attore è amare al posto di un altro – fingersi d’accordo con un altro dimenticando se stessi. È l’opera che immagina l’attore.
Eppure, eppure non è sempre stato così. La storia del teatro non è avara di spunti di con-trotendenza. Ci sono esperienze, importanti pur se minoritarie, che hanno dato dignità inventiva all’attore come essere dotato di vita propria: un attore che produce il suo spa-zio, lo istituisce, lo ricerca e lo rende visibile. La recitazione non è più una cerimonia di ripetizione di un carattere altrui, ma un «evento essenziale», che scatena l’attore in quanto creatore di forme. Ed è qui che la voce acquista una valenza decisiva: acquista una sua capacità di produrre senso, anche presa separatamente dal codice linguistico cui fa riferimento; è pronta ad esaltare, pur nella relazione coi significati (ma non più sotto-messa ad essi), il corpo fonico della parola. L’attore naufrago, in balia del testo, comincia a costruirsi una zattera tutta sua; diventa il maestro di cerimonia, e il teatro torna ad essere il regno dell’attore. Lo stesso teatro greco delle origini, per non dire poi della poesia epica, agiva la parola facendo vacillare il limite tra parlata e canto, riconoscendo alla voce un valore autonomo, indipendentemente dalle norme del discorso. Anche la Commedia dell’Arte, in evidente rottura con i postulati del tempo, frantuma la catena del linguaggio naturale, in particolare con l’introduzione di interruzioni del discorso lineare (i cosiddetti lazzi), allontanando la voce da quel «portare all’orecchio del popolo il concetto che la parola esprime» (Tasso), per fare invece risaltare la ricchezza delle sue tonalità in senso completamente gratuito. La stessa cosa potrebbe essere fatta rilevare con il sorgere del recitar cantando, in cui la struttura del parlato assume connotazioni fortemente musicali, facendo esplodere la parola non già in imitazione del livello semantico, quanto piuttosto articolando il significante come «una sorta di accompagnamento al significato» (Pagnini). Fino ad arrivare ad un contemporaneo di Stanislavskij, ossia a quel Mejerchol’d che per primo ha, per lo meno nel Novecento, contestato il fatto che l’attore dovesse immedesimarsi nel personaggio: incamminarsi tra le pieghe del personaggio facendo apparire la propria distanza da esso, e fare ciò mediante il ricorso ad una struttura gestuale e vocale modulata al di là delle convenzioni linguistiche. Secondo il grande regista sovietico, l’attore deve abbandonare tutto ciò che odora di psicologia per rivolgersi invece alla musica; soltanto con questo atteggiamento potrà far risaltare i personaggi non come «tipi unici», ma come maschere sociali. Importante, in questo senso, la sua indicazione di trasformare la dizione dell’attore in «melodia che provoca negli spettatori delle associazioni» con il ricorso a “staccati” non naturali, a interruzioni del ritmo declamatorio, a variazioni tonali giustificate non “psicologicamente”. Comincia da qui una proficua sperimentazione sulla musicalità del linguaggio; comincia da qui: slegando la declamazione dal discorso quotidiano, in favore della «creazione di una trama verbale organizzata musicalmente». Non più, dunque, l’atto di porgere la voce privilegiando i «referenti concettuali» della lingua, ma la parola intesa come corpo sonoro; è lo stesso Mejerchol’d a dirlo: «il mio sogno è uno spettacolo provato con un sottofondo musicale, ma poi recitato senza musica. Senza musica, ma con la musica, giacché i ritmi dello spettacolo saranno organizzati secondo le leggi musicali e ogni interprete porterà la musica dentro di sé». Da questo punto in avanti si srotola un’altra storia.
Diciamo che nel corso dell’ultimo secolo sono stati sostanzialmente due gli atteggiamenti che l’attore ha assunto di fronte al testo: 1) fondare un’altra idea di recitazione, tale almeno da permettergli di affermare se stesso e la propria vocalità, usando il testo come un tramite per allargare i propri confini; 2) assumere la recitazione dell’epoca e quindi penetrare il testo, legarsi “amorevolmente” alla parola data e tradurla vocalmente. Nel primo caso, ad avere rilevanza è l’autorialità; l’attore è elevato al rango di compositore della partitura vocale, ne è il diretto responsabile, e ciò al di là (e spesso contro) il testo; nel secondo, prevale l’approccio “ermeneutico”, per cui all’attore spetta chiarire il testo, trovare una sintesi interpretativa e svolgerlo in voce cercando il più possibile l’aderenza tra la propria recitazione e il dettato dell’autore. Il primo è l’attore poeta; non sparisce tra le righe del testo: è il testo, ovvero, come dice Carmelo Bene, nella scrittura vocale poesia è la voce (e il testo è la sua eco, dice). Il secondo è l’attore interprete; riferisce altro: «la voce assume il ritmo della scrittura e lo traduce nell’universo corporeo e tattile della sonorità, presta cioè ad esso la propria individualità» (F. Frasnedi).
Con l’avvento dell’attore-poeta comincia ad affermarsi un attore non più costretto a su-bire il personaggio, ma capace di farlo diventare strumento del proprio sguardo sul mondo; un attore che, slegandosi definitivamente dal linguaggio parlato tutti i giorni e dal testo scritto, tende al canto: «nello spettacolo – scrive magistralmente Antonio Attisani – l’attore non dice, ma significa e canta». In questa prospettiva, le dinamiche della voce vengono organizzate metricamente, secondo un «procedimento di frammentazione e ricomposizione ritmica». Scansione del respiro, cesure, accenti, dissociazione di ritmo e sintassi, ripetersi di blocchi sonori (rime?), accordi ripetuti, contrasti, sillabe spezzate, parole tronche: la recitazione assomiglia sempre di più ad una composizione poetica. L’attore diviene «un essere integrale di poesia»: gioca con la voce nel momento in cui la libera dalla dipendenza dal significato. Non placa il grido nascosto che alberga nella voce; lo esalta, a briglie sciolte. Senza uccidere il significato; tutt’altro. Lo rende fluido, lo rende aperto, ne amplifica l’efficacia. La voce libera il significato da se stesso, per lo meno quando riesce a trasformarsi in «appello al godimento e all’inquietudine». Non gioco gratuito, quindi. Nell’inquietudine è annunciata la critica, si esprime una lacerazione. E allora, quel «piacere agoni-stico della voce» che mira a piegare il linguaggio alle esigenze dell’attore ha un unico scopo, uno scopo che è eminemente politico: «realizzare il desiderio represso di fare del corpo un oggetto di gioco», e non oggetto di una routine che lo vede sistematicamente messo al lavoro sino all’usura. Questo è un punto centrale. Senza uccidere il significato, appunto: perché riscattare la voce sottraendola alla dipendenza dal semantico non significa eludere quel «andare verso qualcuno» che Wittgenstein indicava come dimensione specifica del significato. Nella voce, il significato «non va in vacanza»: esplode, per rinascere nello stupore dell’ascolto (pur degenerando, traccia il suo “messaggio” – perché la voce pura non esiste).
Ora, qui è fondamentale liberarsi di un malinteso. L’avanguardia teatrale italiana ha puntato a tenere «distinti e distinguibili» significato e significante e non, come erroneamente è stato detto in piena bagarre decostruzionista, attivare un dire che sia assenza di senso. Quest’ultimo è stato l’approccio di quanti, contrapponendosi «al sistema logocentrico della parola», sono giunti a soffermarsi sulla voce in quanto «assenza di significato». Tale atteggiamento, per così dire, comincia «proprio là dove il pensiero finisce», e rinvia a quella diffidenza rispetto al logos (alla razionalità che si esplica in linguaggio) che porta ad esaltare la valenza del dire (l’unicità del parlante) rispetto al detto (i concetti e tutto l’ambito del semantico); in sintesi, abolendo ogni legame della voce con la verità (il senso è la verità, scrisse Henri Lefebvre). Sospendendo, il parlante, ogni «rapporto con il fuori», la voce è emancipata «dall’urgenza di significare», liberandola da ogni complicità col mondo. Si resta fermi ad uno stadio pre-comunicativo; alla preistoria dell’espressione. Pratica insidiosa: è in agguato la torre d’avorio; il rifiuto della significazione è sempre in bilico di trasformarsi in rapporto di non curanza – e quindi di accettazione – dello stato delle cose. Il caso di John Cage è esplicativo. Indubbiamente, il suo esaltare una vocalità scaricata di ogni legame con la parola-pensiero, ha portato a risultati artisticamente rilevanti (esemplari le esecuzioni di Joan La Barbara in Singing Through del 1990); è però anche vero che le sue composizioni sfociano in una aleatorietà che è «rinuncia a intervenire sulle cose, sulla e nella storia»; una «esaltazione del si-gnificante» che per di più non è «intimidatoria nei confronti del fruitore comune» (A. Gentilucci). La valorizzazione della «funzione destabilizzatrice del godimento vocalico nei confronti dell’effetto disciplinante del linguaggio» (Cavarero), in questo caso, sfocia in un «esotismo gratuito» che non riesce affatto ad incrinare, come vorrebbe ad esempio la Kristeva, «la Legge e il Discorso del Potere».
L’analisi dei fenomeni spettacolari dimostra invece come, anche nei casi più radicali, esiste una speciale significazione nella voce, una sua capacità particolare di farsi «fenomeno di senso»; ma soprattutto dimostra che, alla prova pratica dell’ascolto, il significato non scompare affatto, anzi, viene esaltato, come raddoppiato dalla phoné dell’attore. Il modo di impostare la dizione nel suo Per farla finita con il giudizio di Dio, non porta assolutamente Artaud a liberarsi del significato o, come dice ancora la Kristeva, «ad attaccare il senso», tutt’altro; l’instabilità ritmica, le tonalità alte, la fonazione strozzata, se è vero che portano a puntare l’attenzione su quel suo dire esagerato e disorganico, è altrettanto vero che non nascondono il senso di ciò che voleva comunicare; altrimenti non si capisce perché Artaud abbia scritto proprio quelle cose, in particolare nel momento iniziale («J’ai appris hier …»), nel brano La question se pose de… (recitato da Paule Thevenin) e nella conclusione, dove traspare un forte significato polemico nei confronti della cultura occidentale, e non un semplice accavallarsi di frasi o sillabe non significanti. Ha ragione piuttosto Carlo Pasi, in particolare quando fa notare come la rottura degli schemi e la sperimentazione dell’eccesso propri della dizione di Artaud fossero condotti con l’intenzione non di annullare la comunicazione tout court, ma di aprire un nuovo spazio comunicativo, dove l’incontro con l’Altro, nel totale allentamento delle inibizioni, si potesse trasformare «in una comunicazione attiva, intensa». La dizione imperfetta di Artaud apre nuove possibilità di senso, e dunque di libertà («di amore e di rivolta», dice lo stesso Artaud). Anche l’ascolto delle opere di Carmelo Bene potrebbe fugare dubbi in proposito. Si prenda ad esempio il poemetto Lamento per la morte di Ignazio Sanches, scritto da Garcia Lorca. Certamente Bene, come in ogni altra sua opera, soppianta una volta per tutte la «voce impostata» dell’attore teatrale e, per così dire, elude «il messaggio esplicito»; però è innegabile che la sua musicalità del dire produce senso. Nel caso citato, il senso di morte e di memoria trafitta dalla mancanza presente nel testo di Lorca è fatto vibrare, oltre che dal ricorso ad un timbro particolarmente scuro, da una scansione regolare delle strofe, quasi a “rappresentare” un funerale, ma è fatto poi esplodere (di “dolore”) in micro variazioni tonali e timbriche all’interno dei singoli versi, e in particolare nello slittamento verso l’afasia in alcuni accenti e nel ripetere le sonorità delle sillabe finali, là dove Bene, per realizzare la sua idea di modo – grumi di frasi che si ripetono fonicamente simili nella struttura, somiglianti alle strofe musicali ma eludenti ogni melodia – ricorre al tipico ingoiare il fiato o all’improvviso salire d’ottava. Anche il ritmo fonatorio concitato usato da Bene per recitare i versi di Majakovkij (in Quattro diversi modi di morire in versi) permette all’ascoltatore di cogliere in tutta la sua portata la valenza eversiva del dettato poetico del poeta russo («io odio tutto questo / tutto ciò che ha inculcato in noi / l’antica schiavitù»); permette insomma non già di eludere il significato, piuttosto di realizzare quella messa in scena totale della parola che era la sua principale ricerca. La costruzione della partitura si compie, in Bene, nel predisporre ogni elemento in «apparente disordine» (o stonatura) rispetto ad un andamento “normale”. L’atto di spostare le toniche o di spezzare le parole, isolando nel silenzio alcune sillabe, è in fondo un rompere la prosodia quotidiana per andare in direzione di una «sonora costruzione dei periodi». La voce di Bene – dice giustamente Giacché – è della musica. Il processo della parola si esplicita in qualità sonore modulate non già “psicologicamente”, ma, appunto, secondo parametri assimilabili alla musica, senza però diventare canto vero e proprio. La voce è finta; la sua estensione trascende la voce parlata nel quotidiano, i passaggi di registro o i cambiamenti di timbro avvengono proiettando la voce in sintonia a un’idea estetica, anche privilegiando l’uso dei tipici “difetti”, dal gutturale alla voce ingolata, dal nasale al rauco, persino all’afonia vera e propria. In ciò è evidente un distacco, addirittura una critica esplicita alla tipica voce “impostata” dell’attore di prosa. Il respiro, in Bene, non segue più il “messaggio” del discorso, viene articolato secondo parametri essenzialmente ritmici, riuscendo «a penetrare nell’intimo del linguaggio», con evidenti parentele con lo Sprechgesang («un canto generato dalla parola») ripreso e praticato da Schönberg. In effetti, proprio il funzionamento dello Sprechgesang agevola la comprensione del modo di procedere di Carmelo Bene nei riguardi della relazione tra voce e parola. L’attore imposta i ritmi e gli altri valori fonici (altezze, timbri, etc.) nella piena consapevolezza della differenza tra parlata quotidiana e reci-tazione, e imposta l’emissione avvicinandosi e allontanandosi dalla prosodia, disattendendola con spostamenti di accento e modulando la voce in un modo che è, allo stesso tempo, «prossimo al canto e distante dalla dizione naturalistica» (Schönberg). Il senso delle parole è agito secondo parametri musicali. Ed ecco che è in questo modo che l’attore si fa poeta.
Nella poesia della voce ciò che ha pregnanza è il controllo del processo creativo, a partire prima di tutto dalla regolazione del fiato. Le tecniche vocali variano a seconda dello “stile” o del senso critico (l’emissione, scriveva Cathy Berberian, «è anche una scelta culturale»), per cui, ad esempio, l’uso dei risuonatori è radicalmente diverso tra un attore grotowskijano e un attore di tradizione. Insomma, è un insieme di criteri etici od estetici (o un incrocio tra questi) che domina il controllo del ciclo parola-ritmo-suono da parte dell’attore-poeta, testimoniando che il pro-blema della costruzione del significante è già il problema del senso. Questo è un punto centrale. In questa consapevolezza l’attore grida la sua emancipazione totale. Qui la voce lievita e, intravisto l’abisso, s’incammina come lanterna: una «illuminazione nel fango». Perché qui si gioca la tensione ad unificare compositore e interprete, in modo che l’attore, diventando padrone delle proprie intenzioni espressive, celebri la propria liberazione. Fusione, nella stessa persona, del compositore e dell’interprete: questa è stata la strada percorsa da molta vocalità non convenzionale, che è nata e si è sviluppata al di fuori delle accademie, dall’avanguardismo spinto dell’opera The big bubble dei Residents al minimalismo di Meredith Monk, dal radicalismo vocale di Diamanda Galàs al cabaret-rock di Dagmar Krause, dalle vocine distorte e irridenti di Frank Zappa al canto popolare di Giovanna Marini. Ed è stato il percorso intentato da certo teatro di ricerca, in particolare italiano, dove la conformità ai riti propri di una tradizione incapace di “emozionare” veniva fatta deragliare a favore del gratuito (e della critica), esaltando la qualità personale dell’attore: «la sua stessa voce, il dispiegamento delle sue tonalità, la ricchezza fonica». La scissione tra il ruolo dell’autore e quello dell’esecutore, allora, è superata dalla pratica senza scopo – e perciò scan-dalosa e rivoltante – dell’attore. In questa deriva, piuttosto che “bardo stipendiato” al servizio di un apparato istituzionale, l’attore agisce in totale indipendenza e diviene, appunto, poeta. E tutta la ricerca di Carmelo Bene è lì a dimostrarlo.
BIBLIOGRAFIA
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Adriana Caravero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003.
Fabrizio Frasnedi, La voce e il senso, Il Verri, maggio-giugno 1993.
Armando Gentilucci, Oltre l’avanguardia. Un invito al molteplice, Unicopli, Milano 1991.
Piergiorgio Giacché, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, Milano 1997.
Maurizio Grande, La riscossa di Lucifero, Bulzoni editore, Roma 1985.
Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni Editore, Roma 1968.
Julia Kristeva, L’abietto: voce e grido, in Foné. La voce e la traccia, La Casa Usher, Firenze 1985.
Marcello Pagnini, Lingua e musica, Il Mulino, Bologna 1974
Anna Panicali, La voce, il gesto, la maschera, in Foné. La voce e la traccia, La Casa Usher, Firenze 1985.
Carlo Pasi, Artaud attore, La Casa Usher, Firenze 1984.
Konstantin S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, Universale Laterza, Roma-Bari 1975.
Paul Zumthor, La presenza della voce, Il Mulino, Bologna 1984.
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