ateatro 92.32
Dissonanze
Le Buona Pratiche 2: relazioni & interventi
di Carmelo Alberti
 

Il sistema di relazioni umane è basato come sempre su un sistema di valorizzazione (della formazione, del ruolo, della personalità, eccetera) che si auto-determina, di volta in volta, in base alle regole fissate dai vari “protagonisti” sociali. Il valore, dunque, è un fattore provvisorio e funzionale. Invece, quello che è decisamente cambiato nel “valore” del teatro è la sua sintonia (ora si dovrebbe dire meglio: la sua dissonanza) con il tempo e lo spazio dell’immaginazione collettiva. Il carattere “pubblico”, dunque, non corrisponde ad un consumo condiviso e condivisibile: perché si riabbia tale funzione serve un incredibile lavoro preparatorio, per definire una circolarità degli scambi fra partecipanti che siano responsabili del medesimo progetto, che riconoscano la stessa lingua, che diano “valore” a quelle forme teatrali. È opportuno, perciò, spostare decisamente lo sguardo verso la condizione dello spettatore globale, che è divenuto via via (non da poco tempo, da almeno cento anni) un individuo solo, un singolo spettatore, anche quando si muove in gruppo.
Se si rispettano le garanzie di una “buona pratica della rappresentazione” (ed è un nodo da affrontare a parte, una questione che investe i mediatori della messinscena sul versante della coscienza teatrale), forse rimane intatta l’incidenza emozionale del teatro: insomma, ciò che avviene sul palcoscenico finisce per riguardarci. Questo vuol dire che in ogni loro esibizione i promotori artistici debbano garantire (non solamente per istinto) una gamma di livelli interpretativi sempre più ampia (a iniziare dalla fase progettuale). Al minimo si tratta di comunicare almeno il livello della narrazione (della traccia drammatica), come è confermato dalla costante passione per prodotti cinematografici e televisivi, in cui la trama è organizzata su schemi chiari ed elementari (buono, cattivo, eroe, malfattore), che finiscono per riportare indietro persino l’idea della moralità borghese.
Ma la capacità di parlare a tanti, rivolgendosi al singolo, si misura con una scommessa impegnativa, collegata alla condizione “recitativa” che contraddistingue la vita quotidiana. Ciascun individuo, giorno per giorno, rappresenta le proprie “parti” relazionali (impiegato, padre, figlio, amante, utente, ecc.) in modo traumatico (“la vita quotidiana come rappresentazione”), tanto che alla fine (in fase di verifica) il “ruolo” (si legga: la personalità) tende ad assopirsi, oppure a sfumare verso le zone incerte del disagio e della malattia.
Il teatro può svolgere una funzione attiva nella ricerca dell’equilibrio soggettivo quando ingloberà interamente i “valori” elementari che caratterizzano i rapporti quotidiani. Andar verso il pubblico, significa suonare meglio i propri strumenti, per offrire a chi assiste una metodologia interpretativa neutra, allo stato puro, che solleciti la mente e l’immaginazione.
Si è visto, ad esempio, come nella fase d’avvio del teatro-narrazione un attore seduto al centro della scena sia in grado di tessere la trama di un racconto evocativo, che accende in un numero esteso e distinto di spettatori, attraverso meccanismi di consumo immaginativo, fisionomie di personaggi ben visibili. Ma funziona altrettanto bene il recupero di una messinscena clownesca, costruita su alternanza di poesia e ingenuità. Oppure, il dar qualità (in scena) alla sofferenza e alle situazioni d’emarginazione, fino a liberare nell’animo di chi assiste un’energia incontrollabile. Oppure, la vicinanza e la contiguità con il referente (guardandolo negli occhi, lasciando accese le luci della sala), costretto a stare all’erta e a seguire le fasi del gioco scenico. Oppure, l’accentuazione dello scontro fra contesto drammatico e vittima sacrificale. E altro ancora.
La via della teatralità contemporanea si affida meglio alla frammentazione, all’azione circoscritta, meno alla stagionalità. Ciò significa, che le ricorrenti emergenze economiche renderanno sempre più “clandestine” le proposte del teatro non istituzionale.
Rimane la necessità di continuare (o ricominciare, dopo lo strappo provocato dai profeti dell’antiteatralità) a teorizzare, in prossimità delle risultanze della ricerca scenica: il “valore” assoluto rimane ancorato all’esercizio del “pensiero”. La dissonanza del teatro dal valore civile risiede nell’esaltazione degli apporti degli uomini di scena e, insieme, di quelli d’organizzazione.
Lo dimostra la recente storia teatrale del Veneto, che pure possiede un serbatoio storico-culturale enorme, ma boccheggia di fronte alla caduta della funzione di servizio pubblico entro la trappola di micro-organismi gestionali, frammentati territorialmente, preoccupati solo di difendere il proprio spazio. La parte sana della produzione-programmazione regionale è costituita da una rete di professionisti, uno stuolo di organizzatori sapienti che hanno condiviso ogni passaggio della creazione con gli artisti e hanno spiegato (mediando fino allo spasimo) ogni possibilità di sviluppo e di valorizzazione culturale alla classe politica locale.
Occorre, ancora, una svolta nella definizione del “valore” territoriale del teatro, attraverso un’apertura a forme integrate di conoscenze: andare oltre le scritture sceniche nel Veneto comporta un’indagine di natura antropologica non facile, che investe artisti e referenti (visto che la politica offre una risposta dai tempi fin troppo lunghi).
Si tratta, insomma, di perfezionare l’azione di chi sa come migliorare i processi mentre è costretto ad agire restando dentro l’esperimento (quello del rinnovamento e della valorizzazione del teatro).


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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