ateatro 92.19 Lo schermo infestato House of no More del Big Art Group di Anna Maria Monteverdi
Il molto newyorchese Caden Manson, leader del giovanissimo gruppo tecno-teatrale Big Art Group, è sbarcato a Senigallia, al Teatro La Fenice, chiamato dal neo-assessore alla cultura del Comune (oltreche anima di Inteatro) Velia Papa, che già aveva accolto il loro precedente spettacolo Flicker, richiamando un vero bagno di folla di giovani e giovanissimi.
Il nuovo spettacolo, House of no More, non è stato da meno come presenza di pubblico e consenso generale. Passato abbastanza in sordina nel generale panorama teatrale nonostante la fama di enfant prodige della nuova scena che si è ritagliato l'elegante e schivo Caden, House of no More prosegue la sua ideale messa alla berlina della comunicazione mediatica. Ancora un real time film, il terzo della saga che produce un effetto “allegramente sovversivo”: il commento della rivista “Time Out” sancisce in effetti la realtà di questo spettacolo, una tutto sommato bonaria e tiepida critica ai media.
Riassumendo, la trama è un evento di cronaca nera, vero o presunto: una madre cerca disperata la propria bambina scomparsa, probabilmente rapita; forse è lei stessa la colpevole, in uno sdoppiamento di personalità.
Pare che all'inizio della guerra contro Baghdad Cnn & Co. abbiano cercato di spostare su questo fatto l'attenzione del pubblico televisivo, troppo sconvolto dalle immagini quotidiane dei bombardamenti nelle regioni mediorientali. Di questo non ne abbiamo traccia nello spettacolo ma solo dalle parole del regista. Una specie di détournement abilmente orchestrato dai grandi media e su cui chissà cosa avrebbero potuto scrivere sociologi della comunicazione come John Berger, Régis Debray e Kevin Robins. Anzi forse sarebbe il caso di riprendere il libro di quest'ultimo, Oltre l'immagine, una riflessione sull'imperialismo dell'immagine, sulla proliferazione iperreale e sul trattamento delle imagini al tempo della Guerra del Golfo. Esplicitando questo riferimento ai media al tempo della guerra, il Big Art Group avrebbe forse potuto colpire più direttamente il bersaglio. In questo senso House of no More avrebbe potuto davvero essere la versione popolare di alcuni dei concetti di Kevin Robins: all'interno del capitolo Visioni di guerra, c'è un paragrafo intitolto Lo schermo infestato in cui lo studioso analizza la stretta relazione tra un omicidio a opera di un serial killer e la efferrata strategia della "costruzione" del mostro Saddam Hussein:
Vi sono persone che amano dirci che lo schermo ha ora eclissato la realtà, che stiamo vivendo in un mondo di immagine, simulazione e spettacolo. Esiste, in realtà, qualcosa di suggestivo in questa osservazione. Ma prima di essere eccessivamente sedotti da questo scenario postmoderno, dovremmo rammentare i 150 mila uomini e donne reali che vennero realmente uccisi al di là dello screening della Guerra del Golfo. Dovremmo considerare le implicazioni del fatto che esiste una relazione simbolica tra i serial killer della fiction e quelli reali, che massacrano realmente.
Non è che noi viviamo ora nel regno dell'immagine, piuttosto vi è, ora, nella nostra cultura, una sorta di meccanismo collettivo, sociale di separazione. L'io-spettatore è disimpegnato moralmente, galleggiando in un oceano di immagini violente. L'io-attore è intrappolato in una realtà in cui la violenza è spesso moralmente schiacciante.
Rimane in House of no More come già in Flicker l'uso di una telecamera per ciascun attore che registra un'immagine che non avrà una diretta corrispondenza sugli schermi proiettati, mettendo in mostra l'evidenza che le immagini trasmesse dalla televisione altro non sono che il risultato di una composizione-manipolazione della realtà.
E' stata aggiunta la tecnologia in green screen, che complica un po' le cose ma che permette un'aggiunta di ambienti sempre diversi e soprattutto real time grazie a un banco di regia video digitale a vista che controlla le posizioni degli attori, li scompone e li scontorna in diretta. Rimane il gioco già perfettamente riuscito in Flicker e ora portato al parossismo, dall'esibizione virtuosistica alla “coreografata sincronia di movimenti degli attori” intenti a cercare il punto in cui potranno diventare - grazie alla telecamera - da separati uniti, da lontani vicini: un divertente gioco di montaggio delle immagini, che rende l'operazione teatrale formalmente straordinaria e di indubbio impatto visivo.
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