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Le Buone Pratiche su "Nuova Ecologia": Il calabrone e il bonsai
Brevi cenni di etologia teatrale
di Oliviero Ponte di Pino
 

Questo testo è stato pubblicato sulla rivista "Nuova Ecologia", novembre 2005, in occasione delle Buone Pratiche 2/2005 a Mira.

Se dessimo un’occhiata da etologi a quello strano habitat che è il teatro italiano, vedremmo tre diverse specie di animali. Già questa è una prima annotazione significativa: a differenza per esempio dei teatri tedeschi, dove è maggiore la stabilità (e dunque i teatri sono più simili alle piante), dai tempi della Commedia dell’Arte gli spettacoli delle compagnie italiane compiono tournée più o meno lunghe.
Se osserviamo questo microcosmo più da vicino, possiamo dividere il branco degli spettacoli che affollano i pascoli teatrali della penisola in tre diverse specie. Gli animali più grossi (quelli che spesso incassano di più) hanno strane somiglianze con altre creature, quelle che prosperano al cinema e sul piccolo schermo: recital di comici televisivi, adattamenti di film, scorribande di video-soubrette (tettona vulgaris) o di star cinematografiche (hystrio sideralis) alla ricerca di una nuova verginità. Questo theatrum televisivus è il sottoprodotto di altri media, organismi geneticamente modificati da artisti che passano sul palcoscenico per incassare un dividendo di notorietà accumulato altrove. C’è poi un teatro per così dire di cultura (theatrum sapiens), legato soprattutto (ma non solo) alla tradizione dei teatri stabili e della regia: una specie nuova, affermatasi nel dopoguerra con le creazioni di Luchino Visconti e Giorgio Strehler (theatrum sapiens sapiens) soppiantando una specie più antica, gli spettacoli dei grandi attori (theatrum mattatoricum), i “mattatori” di una volta, e ora sostenuta dalle invenzioni di registi come Luca Ronconi e Massimo Castri. Il theatrum sapiens si nutre in buona parte di sovvenzioni pubbliche; alcuni esemplari sono pachidermi dai movimenti cauti e lenti, altri hanno ancora la zampata del genio (vedi Professor Bernhardi di Schnitzler, allestito quest’anno da Ronconi al Piccolo Teatro).
Ai margini, più defilata rispetto ai pascoli più ricchi (i grandi teatri del centro o i megatendoni delle periferie, i padrinati politici più redditizi), si muove la miriade degli spettacoli di piccoli gruppi e compagnie (theatrum novum o novissimum), spesso impegnati sul fronte del nuovo e della ricerca, più agili e veloci ma costretti a muoversi in un ecosistema affollato da un lato da animali più grandi e aggressivi, dall’altro da branchi di loro simili.
Va però subito precisato che, all’interno dell’ecosistema della comunicazione e della cultura, il teatro in generale è stato spinto ai margini, in zone sempre più aride. Se ne parla sempre meno in televisione e sui giornali. La serata teatrale non è più – o è sempre meno – quel rituale borghese riconoscibile e riconosciuto. Così quegli strani animali che sono gli spettacoli teatrali attirano spettatori molto diversi: ci sono quelli condizionati dai grandi mass media, che cercano il carisma delle star e l’evasione (spectator auditel); c’è chi va in cerca di conferme culturali (spectator maestrinus); e chi invece, più curioso, cerca e sveglie il brivido del nuovo (spectator adventuros con la sottospecie del modaiolus) . Anche se ovviamente nella società e nella natura le cose non sono mai così semplici, perché ci sono numerosi ibridi e incroci. Lo spectator adventurosus, quello affascinato da queste creature continuamente mutanti, si raduna di solito in piccole tribù, e solo eccezionalmente si mescola alle grandi mandrie di auditel. Per questo il theatrum novum tende a insediarsi in sale piccole, le sue tournée spesso hanno poche date, e spesso tende a rifugiarsi in quelle riserve naturali e zone di ripopolamento che sono i mille festival estivi che punteggiano la penisola: Santarcangelo, Volterra, Colline Torinesi, Drodesera...
C’è da chiedersi come possano sopravvivere queste creaturine bizzarre, a volte così affascinanti e davvero straordinarie (tanto che spesso le loro tournée li portano spesso fuori d’Italia, anche nei festival più prestigiosi). Per certi aspetti ricordano il volo del calabrone, tozzo e pesante, che secondo le leggi della fisica non potrebbe volare e invece...
...invece da decenni, a partire dagli anni Sessanta, questi piccoli animali, prodigi di ostinazione e passione, anno continuato a vivere e moltiplicarsi, malgrado il sostegno poco convinto della politica. Basta citare gli artefici di alcune tra le creature dalle piume più sgargianti, dalle movenze più seducenti e sconvolgenti: tra gli anni Sessanta e Settanta, Leo De Berardinis e Carmelo Bene, il teatro-immagine di Vasilicò e Perlini, e Nanni, e ancora il Carrozzone-Magazzini di Tiezzi & Lombardi, Giorgio Barberio Corsetti, a Napoli Mario Martone e Toni Servillo (da Falso Movimento e Teatro Sttudio di Caserta ai Teatri Uniti), il Piccolo Teatro di Pontedera, il Teatro dell’Elfo; nel decennio successivo la pattuglia sbocciata in un ecosistema fertilissimo, la Romagna Felix: Societas Raffaello Sanzio, Teatro della Valdoca, Ravenna Teatro-Le Albe, cui seguiranno qualche tempo dopo Motus, Masque, Fanny & Alexander. Ancora, i torinesi Gabriele Vacis e il suo Teatro Settimo, Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa e Walter Malosti con il Teatro di Dioniso. E Tam-Teatromusica, il Teatro del Lemming, il Teatro delle Ariette, l’Accademia degli Artefatti, e molti altri ancora, come se un Linneo psichedelico avesse deciso di inventarsi una folle tassonomia... Senza dimenticare animali solitari come i narratori, con quel teatro della memoria cresciuto nell’ambito del nuovo (ma anche come reazione a esso): Marco Paolini, Marco Baliani, Ascanio Celestini, Davide Enia e i loro mille (ormai) imitatori, in una proliferazione che rischia di apparire parassitaria...
Tutti costoro attingono a varie fonti di energia, al di là delle scarse sovvenzioni. Per cominciare, la tradizione teatrale ha mille sentieri sotterranei: nelle esperienze spesso riemerge un DNA antichissimo, che pareva fossilizzato. Inoltre, se non offre di solito grandi guadagni, il teatro ha un grande vantaggio: farlo costa abbastanza poco, almeno all’inizio, e permette di dire-fare ciò che si vuole. Consente di confrontarsi insieme con una realtà in rapido mutamento, e insieme con il proprio corpo, le proprie parole, le proprie emozioni. Senza mediazioni. Obbliga a mettere a punto un linguaggio, una poetica e un’identità collettive, e a confrontare questa identità con l’intero corpo sociale. Perché il teatro è un’arte collettiva: a differenza dello scrittore o del pittore, il teatrante si confronta, fin dall’inizio, con gli altri, nella progettazione e realizzazione dell’opera, e poi nel confronto con il pubblico. Inutile sottolineare come queste caratteristiche, nel loro insieme, riflettano l’anima politica del teatro – una natura che era già chiara alle origini di quest’arte, nella polis greca.
Proprio in questa sua natura sociale, il teatro – soprattutto in questi ultimi anni – ha trovato nuove fonti di energia e nuovo senso. Il teatro è anche relazione, e dunque può essere utilizzato in ambiti in cui l’identità, la riconoscibilità e i rapporti interpersonali e sociali vivono situazioni difficili: nelle carceri e negli ospedali psichiatrici, o tra gli immigrati, per esempio, e in generale in tutte le situazioni in cui emerge la diversità. Volendo affondare la nostra metafora etologica, potremmo parlare di rapporti simbiotici tra il teatro e questi diversi contesti. Ovviamente quello tra conflittualità e integrazione è un rapporto sempre complesso e difficile. Soprattutto non è detto che porti – al di là dell’utilità sociale – a risultati di qualche interesse artistico. Anche se poi non mancano punte esteticamente alte, anzi altissime: il lavoro ormai ventennale di Armando Punzo nel supercarcere di Volterra; la riflessione poetica sulla diversità di Pippo Delbono, che trova il suo simbolo in Bobò, il microcefalo sordomuto “liberato” dopo quarant’anni di ospedale psichiatrico; il sodalizio con gli immigrati di Marco Martinelli, con gli incroci tra griot senegalesi e fuler romagnoli...
Negli ultimi anni sono stati questi gruppi, queste realtà a cercare di ridefinire il senso del teatro in una società moderna - o post-moderna. Così, mentre il centro della comunicazione sembra spostarsi altrove, mentre finanziaria dopo finanziaria diminuiscono le risorse pubbliche per la cultura (e dunque anche per il teatro), mentre il teatro sembra aver perso le sue aspirazioni nazional-popolari per rivolgersi a piccole élite, i palcoscenici italiani mantengono un imprevedibile fervore: Nelle ultime stagioni sono fiorite nuove e interessanti creature, partendo dall’interesse per il lavoro dell’attore (Valerio Binasco, Antonio Latella, Arturo Cirillo, il gruppo Atir, le Belle Bandiere) dalla scoperta di nuovi autori, dal recupero della danza (Emma Dante e Caterina Sagna)... Insomma, il calabrone continua a volare. E tuttavia questi piccoli animali non sono forse riusciti a crescere abbastanza, e rischiano di restare degli affascinanti bonsai.


 
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