ateatro 91.23
La questione del pubblico
Le Buone Pratiche 2: relazioni & interventi
di Franco D'Ippolito
 

La riflessione che sta attraversando tanti operatori teatrali si è concentrata, anche con qualche spunto autocritico, sulla “questione del pubblico”. Non che negli anni scorsi questo tema sia stato assente o trascurato (anzi, ha caratterizzato le più incisive pratiche di molti stabili di innovazione e segnato le più feconde esperienze del Progetto Aree Disagiate), ma non è mai stato posto con tanta convinzione (magari dovuta forse ad una evidente costrizione) al centro delle analisi della crisi, né è mai stato indicato con tanta consapevolezza fra le principali possibili soluzioni all’immobilismo del sistema teatrale italiano, che ha scavato nell’ultimo decennio un fossato sempre più largo fra le generazioni ed i generi, con qualche stretto ed isolato ponte levatoio praticabile a pochi.

In un intervento incredibilmente attuale, benché pubblicato su Il Patalogo 9 – 1986, Luca Ronconi affrontava il “lavoro del pubblico” e scriveva:

“….. non credo si possa dire come dovrebbe essere un teatro se non si pensa prima a che cosa serve, anche se sappiamo che non si può dire a che cosa serve se non si stabilisce prima a chi serve….. non esiste un solo teatro, ma tanti quanti –potenzialmente- possono essere i pubblici e la vitalità del teatro si misura non soltanto sulla qualità degli spettacoli –che è irrinunciabile- ma anche sulla mobilità del pubblico, sulla possibilità che esistano diversi modi di fare teatro che, di volta in volta, cercano il loro pubblico….. gli spettacoli possono essere effettivamente di prima, seconda, terza categoria, ma i generi teatrali non lo sono altrettanto…. Il grosso errore, infatti, è privilegiare dei generi invece di stabilire, in qualche modo, delle differenze al loro interno…. Il problema riguarda la costituzione di un pubblico teatrale che non esiste. E non esiste perché non è messo in condizione di poter scegliere…. sì, l’importante è poter distinguere…. Questo è il teatro che vorrei: un luogo nel quale quello che facciamo serva (al pubblico) per conoscere e riconoscere qualche cosa…..”

Se punto focale dei dibattiti diventa così il pubblico (o meglio i pubblici), si può provare a ri-pensare molte delle analisi finora fatte ed a ri-definire alcuni principi fondamentali nel rapporto artisti/spettatori, progetti artistici/progetti organizzativi, sistema teatrale/sistema politico, a cominciare dalla delicata questione dei finanziamenti pubblici al teatro. Proviamo a ribaltare il pensiero guida della politica culturale delle sovvenzioni dalla difesa della libertà degli artisti (sacrosanta quando non diventa giustificazione per sopravvivere acriticamente) a quello della libertà dei pubblici (non subendone passivamente la domanda quanto piuttosto generandola). E poi a correlare anche ai pubblici le finalità del finanziamento pubblico, ribadendo in funzione dei pubblici il diritto della cultura e del teatro ad attingere alla fiscalità generale per la propria crescita (e non solo per la propria sopravvivenza). Se lo spettacolo (insieme alla letteratura ed all’arte) è elemento ineliminabile del processo educativo e ciò che spinge il fruitore delle attività culturali è il desiderio/bisogno di accrescere il proprio stock di conoscenze, come possiamo sostenere che quanto oggi la stragrande maggioranza dei teatri propone vada in quella direzione e non, piuttosto, nella più sicura ed improduttiva offerta del “già conosciuto”? Il problema sta nella carenza di stimoli per il pubblico e per i creatori, che si sono seduti sulle rendite di posizione con un eccesso di ripiegamento su di sé.

Se nelle grandi città possiamo stimare che i frequentatori di teatro vedono mediamente dai 3 ai 4 spettacoli a stagione, il pubblico teatrale rappresenta quasi il 20% della popolazione a Milano e Trieste, il 15% a Bologna e Firenze, 10% a Roma, Napoli e Torino, il 7% a Genova e Bari ed il 4% a Venezia e Palermo. E se più della metà degli spettacoli prodotti nella stagione 2004/2005 non ha raggiunto le 30 repliche, non si sta costringendo tutto il teatro a fare pur di fare, senza spingerlo a pensare “cosa”, “come” e “per chi” fare?.
Il Rapporto sull’economia della cultura in Italia 1990-2000, curato da Carla Bodo e Celestino Spada, evidenzia come soprattutto nell’ultimo quinquennio in esame si sia prodotto un “eccesso di offerta” dello spettacolo dal vivo: nel 1996 i biglietti venduti sono stati 12.120.966 a fronte di 63.800 rappresentazioni e nel 2000 mentre i biglietti venduti sono rimasti praticamente invariati (12.191.152) il numero delle rappresentazioni è salito a 72.001. E, ancora, nel 2001, 79.849 rappresentazioni hanno avuto pubblico pagante per 11.660.224 spettatori. Se il teatro in quanto “servizio pubblico portatore di valore” non può misurarsi solo con i numeri, non possiamo non considerare un andamento fra produzione e consumo che deve farci riflettere. Io sono convinto che la questione non sta tanto (o soltanto) nel numero di rappresentazioni, che testimoniano la vivacità del sistema produttivo che, nonostante gli attacchi subiti in questi ultimi anni, ha continuato e continua a dare risposte innovative, vitali. Quanto nel non riuscire a trovare, intercettandone la curiosità e l’interesse, il pubblico che non c’è.

Il finanziamento pubblico trova ragioni politicamente difendibili nel sostegno all’ampliamento/ricambio del pubblico, ed è così il pubblico ad essere il vero beneficiario finale delle sovvenzioni. Non basta più limitarsi a sostenere le imprese teatrali (peraltro inadeguatamente e senza regole certe) senza verificare la ricaduta di quell’investimento sul pubblico dei cittadini-contribuenti-spettatori. Appare così necessario quanto meno provare ad introdurre dei correttivi in questa direzione alla finalizzazione dei sussidi pubblici al teatro, a cominciare dal FUS ma coinvolgendo in un confronto aperto e laico le Regioni, i Comuni e le Province che erogano ormai i 2/3 del finanziamento pubblico allo spettacolo dal vivo. Uno di questi correttivi mi pare possa essere lo spostamento di parte delle risorse disponibili, con criteri e modalità diverse per livello istituzionale, dal sostegno all’offerta (produzione) al sostegno della domanda (promozione, marketing, ricerche sul pubblico). Sono convinto, per esempio, che ragionare in termini di sistemi territoriali più o meno ampi (disegnati sulla base della popolazione residente, del pubblico teatrale e delle possibilità di accesso –palcoscenici e sale funzionanti-) possa contribuire a definire un metodo di parametrizzazione del sostegno alla “domanda futura” di teatro capace di promuovere il ricambio del pubblico e, di concerto, delle proposte di spettacolo. Così come mi pare necessario inventare un modello di gestione dei teatri comunali che costringa la gestione pubblica a collaborazioni verticali e/o orizzontali con chi produce spettacolo al fine unico e vincolante di “aprire” gli spazi per almeno 150 giorni l’anno, riportando il luogo teatrale al centro della vita collettiva della propria comunità. Investire risorse pubbliche in questa direzione (ed in altre dello stesso segno) può riallineare l’offerta ad una domanda rinnovata e rinforzata.
La questione della creatività artistica non può più essere affrontata disgiuntamente dalla questione del pubblico, come se fossero due problemi che hanno origini, cause e soluzioni differenti. Il ricambio del pubblico è possibile solo se si cambierà il modo di produrre e di distribuire teatro in Italia.


Un altro impedimento (colpevole) alla conquista del pubblico che non c’è deriva dall’attuale asfittica dimensione del mercato distributivo in Italia. Mentre le agenzie private fanno il loro mestiere e possiamo soltanto limitarci a far crescere la domanda di “contemporaneità” (così che anche le agenzie private UTIM, ESSEVUTEATRO e TEATRO 88 offrano spettacoli contemporanei), altro è il discorso che riguarda i circuiti regionali, soggetti della distribuzione pubblica e definiti dalla normativa ministeriale e da molte leggi regionali “organismi di promozione e formazione del pubblico”. L’appiattimento a mere agenzie di distribuzione degli spettacoli che assessori e sindaci richiedono (sulla base del pubblico che c’è) contraddistingue la maggioranza dei circuiti regionali che operano così ben al di sotto delle proprie finalità istituzionali. Le “buone pratiche” del circuito marchigiano e di quello della Basilicata (sul piano della rivitalizzazione dei teatri e di un rapporto con la produzione in funzione della promozione del pubblico che non c’è) evidenziano ancora di più l’impoverimento di funzioni dei circuiti regionali, ancora troppo sordi alla crisi di sistema del teatro italiano.
Anche l’ente nazionale che dovrebbe “riequilibrare” i territori del teatro italiano, sostenendo le realtà che per condizioni geografiche e inadeguatezza delle infrastrutture fanno più fatica a lavorare per il pubblico che non c’è, l’ETI, da troppo tempo latita su questo fronte e paga in credibilità sempre più incerta gli avvicendamenti al vertice. Diventa difficile sostenere la utilità e la necessità così di un soggetto pubblico che riceve una sovvenzione ordinaria (dal FUS) superiore a quanto tutti i soggetti meridionali peninsulari della produzione e della distribuzione e della formazione ricevono dallo stesso FUS. Con sempre meno risorse pubbliche a disposizione, il teatro italiano non può permettersi ancora a lungo di sostenere l’esistente, pena il declino irreversibile.
Ho cercato di semplificare un pezzo di mercato e così, consapevole delle approssimazioni di tale procedimento e delle inevitabili generalizzazioni, ho provato a tradurre in numeri le programmazioni dell’area della stabilità (pubblica, privata e di innovazione) nella stagione 2003/2004. Dal campione preso in esame senza alcuna pretesa e distribuito sul territorio nazionale fra nord, centro e sud, composto da 30 teatri stabili (9 pubblici, 6 privati e 15 di innovazione), mi sembra di scorgere un orientamento abbastanza chiaro di quali siano state le relazioni di mercato che si instaurano in questa area. Complessivamente il 59% (21+38) della programmazione dei teatri stabili pubblici è frutto di spettacoli prodotti dalla stabilità pubblica, mentre questa percentuale scende al 41% (37+4) nella programmazione della stabilità privata ed al 35% (24+11) nella programmazione della stabilità di innovazione.

In una indagine sul pubblico teatrale in Italia di Fabiana Sciarelli e Walter Tortorella, su un campione di popolazione fra i 18 ed i 40 anni, mentre il 48% dichiara di andare a teatro, il 63% esprime la propensione ad andare a teatro: vi è cioè, statisticamente parlando, un 15% di giovani under 40 che andrebbe a teatro, ma non ci va. Fra gli spettatori della stessa fascia d’età, il 40,5% dichiara di non voler incrementare il proprio andare a teatro, mentre il 15,9% lo farebbe in presenza di proposte di spettacoli più interessanti (contemporanei?) ed il 13,1% se il biglietto costasse meno (o se avesse maggiori disponibilità economiche da destinare al teatro).

Mi sembra che un mercato che non c’è non possa promuovere, né formare il pubblico che non c’è.

Mira, 14 novembre 2005


 
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