ateatro 91.21 I teatro come servizio pubblico e come valore: alcuni spunti di riflessione Le Buone Pratiche 2: relazioni & interventi di Oliviero Ponte di Pino
Filippo Del Corno, Oliviero Ponte e di Pino e Andrea Cortellessa sul palco del Teatro di Villa dei Leoni per le Buone Pratiche.
Le primarie dell’Unione, qualche settimana fa, sono state senza dubbio un momento alto di partecipazione e di democrazia. Nell’occasione veniva distribuito un volantino che conteneva il programma per le elezioni del 2006. Mi sono subito scorso il documento, ma in quelle pagine non ho trovato alcune parole che per me sono molto importanti: non ho letto né “cultura” né “spettacolo” né “informazione”.
Sono omissioni politicamente molto significative, mi pare, nell’Italia berlusconiana.
Passa qualche settimana. La finanziaria taglia il FUS. Le periferie francesi esplodono.
Piero Fassino partecipa alla manifestazione del 7 novembre scorso – si intitolava “Fatti non foste a viver come bruti” ed era stata indetta dai DS proprio contro i tagli al FUS – e spiega: “L’ondata di violenza scatenata a Parigi si batte soprattutto con la cultura, la conoscenza reciproca, il valore della coesione sociale”.
Il trafiletto della “Repubblica” (8 novembre) prosegue spiegando che in caso di vittoria del centro-sinistra Fassino ha promesso “un drastico cambiamento di rotta nell’azione del governo, nella convinzione che l’intervento culturale non rappresenta una spesa bensì un investimento. Una società dove si sostiene la cultura diventa più civile”.
“La Stampa” di ieri, 12 novembre, pubblicava una lunga conversazione con Toni Negri a proposito della rivolta nelle periferie francesi. A un certo punto dice: “Il vero film per capire la banlieue non è L’odio di Kassovitz, metallico, freddo. Il vero film è L’esquive, la schivata. Una professoressa cerca di far recitare a una classe arabo-magrebina un testo di Marivaux. All’inizio tutti si applicano. E poi qualcosa si rompe. E proprio le vicende erotiche e affettive che si instaurano tra i ragazzi produrranno la rivolta. Alla fine la classe si rifiuta di recitare Il gioco dell’amore e del caso, che è la commedia della borghesia bianca. Allo stesso modo, anche le ragazze islamo-francesi della banlieue usciranno profondamente modificate, e partecipi di questa rivolta”.
Sono tre piccole notizie di questi giorni. Se avessimo organizzato le Buone Pratiche in un momento diverso ne avremmo trovato di analoghe: ma sono segni come questi che ci hanno indotto a riflettere sul ruolo e sulle prospettive dello spettacolo (e in generale delle cultura) e a organizzare le Buone Pratiche 2.
Il sostegno dello Stato allo spettacolo dal vivo, in Italia, ha avuto il suo momento più alto nell’immediato dopoguerra, con la nascita del Piccolo Teatro e degli stabili. In quella occasione il teatro – e in genere la cultura – sono stati inseriti nell’orizzonte del welfare, del servizio pubblico. In quel momento, forse per l’unica volta, l’elaborazione teorica e la pratica artistica hanno coinciso. Da allora, per così dire, il teatro italiano vive di rendita, grazie al capitale ideale accumulato con quella invenzione.
Ma è ancora valida? O meglio, è ancora sufficiente?
Certo, i suoi principi sono ancora validi. E tuttavia sono cambiate molte, troppe cose, e siamo convinti che sia necessario uno sforzo di analisi, una riflessione, per capire se e come sia possibile arricchire quella eredità.
Abbiamo cercato dunque di individuare alcuni snodi fondamentali, alcune linee di frattura sulle quali è necessario riflettere. Certamente se ne possono trovare altre, forse più importanti, che magari emergeranno anche in questi giorni. Quelle che vogliamo offrire qui a Mira e in ateatro sono solo alcune suggestioni, o provocazioni, sulle quali innescare una discussione e un approfondimento.
Un primo dato, il più evidente, è la crisi del welfare state, all’interno del quale era inscritto anche il sostegno alla cultura e dunque allo spettacolo. E’ impossibile qui analizzare in dettaglio le ragioni e i modi di questa crisi, ed è inutile sottolineare ancora una volta uno dei suoi effetti più immediati e clamorosi nella finanziaria 2005: i tagli al FUS e quelli agli enti locali, che si rifletteranno in maniera devastante sull’intero settore. Val forse però la pena di sottolineare che quella crisi non è esplosa all’improvviso, ma è il frutto di un’onda lunga diversi anni, e che aveva già portato a una sostanziale progressiva riduzione del Fus. A stringere i cordoni della borsa non sono stati i governi di destra o quelli di sinistra, quanto piuttosto la sensazione che quello della cultura e dello spettacolo non fosse un nodo fondamentale, che si trattasse di un settore sostanzialmente parassitario e incline agli sprechi, e che dunque che fosse possibile – e politicamente opportuno – ridimensionare il sostegno pubblico al settore.
Adesso, mi pare, sarebbe necessario lavorare per smantellare questo “comune sentire”: e non credo sarà un compito facile. Per troppi assessorati lo spettacolo, oggi, deve essere “nazional-popolare”, nel senso deteriore che il termine ha assunto oggi: eventi che catturano audience. Se proprio le persone che hanno maggiori responsabilità culturali all’interno della politica culturale del paese lavorano in questa direzione, la situazione è davvero drammatica.
D’altro canto – e il testo di Eduard Delgado pubboucato in ateatro 91 lo sottolinea con grande chiarezza – il potere pubblico da sempre usa e continua a usare la cultura e il teatro per mettere a punto, per trasmettere e per diffondere una serie di valori. Da un lato, ci sono le grandi istituzioni, come teatri nazionali attivi in diversi paesi europei. Dall’altro, le amministrazioni locali fanno grande uso delle varie funzioni sociali dell’attività teatrale: il reinserimento nel corpo sociale di fasce in vario modo emarginate della società passa molto spesso proprio attraverso l’attività teatrale, e spesso con risultati estetici di grande valore (inutile citare in questo contesto nomi fin troppo noti, come Armando Punzo o Pippo Delbono, ch sono le punte esteticamente più alte di un movimento più vasto). In quest’ottica il teatro ha e continua ad avere un uso e un valore sociale e politico di notevole rilievo, anche se come vedremo in un contesto che sta cambiando rapidamente.
Ma a questo punto non si possono non sottolineare le contraddizioni, i conflitti, le ambiguità, che da sempre caratterizzano i rapporti tra gli artisti e il potere, e che – man mano che la società e il sistema dei media diventano più complessi – assume sfumature sempre più sottili e complesse (vedi l’accenno di Pierluigi Battista a Subvention et subversion nell’articolo che ha scritto qualche setimana fa sul “Corriere della Sera”, commentando proprio i tagli al Fus).
In questo quadro si innesca un ulteriore elemento di trasformazione: il passaggio delle competenze in materia di spettacolo alle Regioni, la relativa ridistribuzione di risorse e – forse – la nuova legge che regolerà il settore dopo sessant’anni di regime ministeriale. E’ un tema che su cui si continua a discutere e riflettere, ma che non può non essere strettamente collegato a un altro snodo chiave: il rapporto del nostro paese con l’Europa e con l’evoluzione dello scenario globale. Si è molto discusso, quando si trattava di tracciare la Costituzione europea, se menzionare esplicitamente le radici cristiane dell’Europa. Ma forse c’è anche un’altra istituzione che caratterizza il Vecchio Continente rispetto al resto del mondo: ed è proprio la fitta rete di istituzioni culturali, teatri, festival, rassegne (non solo teatrali, ovviamente, ma anche musicali, di danza, letterari, artistici, cinemtaografici eccetera). Questo vero e proprio tessuto, capillare e articolato, caratterizza – con mille specificità locali e nazionali – lo scenario culturale e sociale dell’Europa: è un patrimonio che non dovrebbe essere disperso, una risorsa che porta e può portare ricadute di grande interesse.
In uno scenario globale questa rete, questo patrimonio assumono un valore ancora maggiore. In questo contesto, il ruolo e la funzione del teatro – a cominciare dalle grandi istituzioni teatrali nazionali – cambiano inevitabilmente. Il rapporto tra locale e globale si trasforma radicalmente, perché cambia la comunità di riferimento.
Cambia anche perché l’orizzonte mediatico e comunicativo in cui si inserisce il teatro subisce continue rivoluzioni. Non a caso in Italia le prime sovvenzioni al teatro coincidono con il primo grande successo del cinema e una profonda crisi economica del settore, che non era in grado di contrastare il nuovo medium. Ciò nonostante, la rivoluzione dei teatri stabili poteva ancora far riferimento a un pubblico nazional-popolare. Da allora sono arrivate nuove rivoluzioni: l’avvento della televisione e poi di internet hanno ridisegnato la medisfera, le modalità percettive e comunicative e l’uso del tempo libero, e dunque anche le caratteristiche dello spettatore teatrale, le sue percezioni e reazioni, le sue esigenze. I nuovi media sono da un certo punto di vista dei concorrenti del teatro; ma dall’altro aprono inedite opportunità su molteplici versanti (ibridazione di diverse forme espressive sulla scena, diffusione delle opere attraverso altri canali, contatti e rapporto con il pubblico a livello di promozione). Il passaggio dalla tv generalista alle reti tematiche, e poi alle radio e alle tv via internet, solo per fare l’esempio più banale, dovrebbe aprire qualche prospettiva anche per una nicchia come quella del teatro (e persino del nuovo teatro).
Quello dell’ibridazione e della contaminazione del teatro con altre discipline, arti e media è del resto uno dei grandi leit motiv di questi anni (e di questo incontro). A livello di normativa, il nostro sistema tende invece a una ferrea divisioni di generi (teatro, musica, danza eccetera), una compartimentazione che è indispensabile superare. Anche dal punto di vista delle economie di scala, non si capisce perché un teatro di prosa non possa o non debba collaborare con un teatro lirico (altro esempio banale). E il nodo diventa ancora più clamoroso (e ancora più rilevante dal punto di vista teorico) nel momento in cui il teatro inizia a interagire con i nuovi media.
In questo scenario, abbiamo cercato una chiave, una sorta di parola d’ordine, che potesse tener conto delle trasformazioni in atto. Il vecchio paradigma, quello del “teatro come servizio pubblico”, appropriato ed efficace nell’era del welfare, non ci sembrava più sufficiente. Così gli abbiamo accostato – più che contrapposto – un altro paradigma: quello del “teatro come valore”.
Va subito sottolineato che si tratta di un concetto aperto, anzi, inevitabilmente aperto. Perché il concetto di valore assume tonalità e sfumature diverse a seconda dei diversi contesti in cui viene utilizzato, e non è esente da rischi.
Dal punto di vista estetico, il valore riguarda l’eccellenza artistica delle opere. Privilegiare il valore significa privilegiare la qualità dei “prodotti”. Ma in questo modo si rischiano di trascurare molti altri elementi per noi fondamentali: il teatro come processo di creazione artistica, ma anche come processo di socializzazione e risocializzazione, per esempio.
Dal punto di vista economico, il valore riguarda – per semplificare drasticamente – il ROI, ovvero il “return on investment”, cioè il reddito prodotto da un investimento. E’ inutile ribadire i danni che ha provocato e continua a provocare una visione rigidamente economicistica della cultura e dello spettacolo: del resto gli stessi economisti hanno messo a punto strumenti molto più raffinati per valutare l’efficacia degli investimenti in ambito culturale e spettacolare, che non si limitano al solo aspetto finanziario.
Dal punto di vista politico, il valori riguardano invece i contenuti che il teatro è in grado di trasmettere e diffondere. Ma nell’ultimo secolo si è vista fin troppa “arte di regime” per non sospettare immediatamente di un approccio del genere.
Insomma, mentre il concetto di servizio pubblico rischia di apparire chiaro ma usurato, quello di valore – che oggi ha in diversi ambiti grande fortuna, e che dunque può essere un utiule grimaldello comunicativo – richiede di essere maneggiato con estrema cura. Tuttavia è uno strumento utile proprio nella pluralità dei suoi significati, nelle sue ambiguità, e anche nei suoi rischi, per meglio definire quella che può essere oggi la funzione del teatro e trovare un equilibrio tra le dinamiche artistiche, interne al lavoro teatrale e al suo specifico comunicativo, e la società nel suo insieme e nelle sue varie articolazioni.
Insomma, il termine “valore” può essere uno strumento adatto a governare la complessità.
Anche se in realtà le cose sono molto più semplici. Se definire il concetto di valore può essere lungo e difficile, può essere utile una esemplificazione, come quella con cui George Steiner conclude la sua conferenza Una certa idea dell’Europa:
“Se i giovani inglesi decidono che David Beckham precede Shakespeare e Darwin nella classifica dei tesori nazionali, se le istituzioni culturali, le librerie, le sale da concerto e i teatri stanno lottando disperatamente per sopravvivere, in un’Europa ancora sostanzialmente ricca e dove la ricchezza ha ancora più voce che nel passato, la colpa, molto semplicemente, è nostra. Allo stesso modo dovrebbe rientrare nei nostri compiti la ridefinizione dell’educazione secondaria e dei media che potrebbe sanare quella colpa. Con il crollo del marxismo nella barbarie della tirannia e nell’assurdità economica abbiamo perso un grande sogno: quello dell’uomo comune che si mette sulle orme segue le tracce di Aristotele e Goethe, come proclamava Trotzkij. Ora che si è liberato da un’ideologia fallimentare, quel sogno può – anzi deve – essere sognato di nuovo. E forse solo in Europa abbiamo i requisiti culturali necessari, quel senso di tragica vulnerabilità della condition humaine, per fornirgli una base. Solo tra i cittadini di Atene e Gerusalemme, spesso così divisi, confusi, è possibile ritrovare la fiducia che non valga la pena di vivere una ‘vita non esaminata’”.
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