ateatro 89.90 I corpi finti Le "sculture di tessuto" in mostra a Palermo di Elisa Nicolaci
Dal 20 al 30 ottobre 2005, nell'ambito di "Anteprima. sequenze contemporanee" (a cura di Simone Mannino), il Teatro Garibaldi alla Kalsa di Palermo, in collaborazione con la Galleria Prati, ospita una personale di Elisa Nicolaci, Finti teatri. Qui di seguito un testo in cui l'autrice illustra la ngensi delle sue opere. (n.d.r.)
Ho iniziato a realizzare le sculture di tessuto nel 2001.
Tengo sempre molto a precisare a proposito di queste sculture, che la figura, sempre presente, non è in alcun modo il risultato di un percorso ‘rappresentativo’. Sembra strano che la rappresentazione, necessaria come mezzo, possa essere spesso, tanto facilmente, confusa con il fine.
Queste sculture, nelle loro sagome statiche, nell’apparente rigidità delle posture, hanno come riferimento, piuttosto, il mondo immoto dell’inanimato, il mondo degli oggetti. I volti sono congelati in una fissità autoreferenziale e ostentata, con la quale contrasta l’identità molto espressiva dei tessuti.
L’espressione della scultura risulta integralmente affidata alla ‘personalità’ della materia di cui essa è fatta. Mi sembra di poter dire che la qualità della presenza di queste figure sia presa in prestito direttamente dall’identità del tessuto (trama, consistenza, colori, disegni) che le costituisce. L’identità forte di ogni tessuto rappresenta una qualità dell’esistenza stessa: vi sono tessuti che sanno di bosco, tessuti che sanno di memoria, che indicano la nostalgia, che indicano il tempo, che indicano il sangue, che indicano il mito…
Scoprire i tessuti ha voluto dire, per me scultrice, abbandonarsi all’illusione di poter superare la barriera della percezione per immagine, scoprendo l’immensa capacità plastica di materie infinitamente diverse fra loro, ma dotate tutte della singolare virtù di far scivolare dolcemente e inesorabilmente nella percezione sinestetica.
Se, come mezzo, si deve fare necessariamente uso di rappresentazione, non è sbagliato, dal mio punto di vista, definire il fine come “astratto”. Guardare un tessuto significa per me avere delle sensazioni immediatamente tattili, del gusto, dell’odorato, trovarmi all’istante nelle suggestioni mentali e prive di forma riconoscibile della memoria, degli affetti, del piacere, del piacere conosciuto nel tempo attraverso i sensi.
Dunque i tessuti indicano violentemente la realtà della materia di cui le sculture sono fatte. L’intera sagoma trasmette un senso di leggerezza decisamente sproporzionato rispetto alla propria dimensione. Generalmente dagli occhi o da altri particolari del viso si affaccia un interno cavo e nero, fatto di sola aria. La presenza di queste sculture mi piace definirla come presenza di superficie, presenza lieve e fiorata di una identità/baratro, ed infatti credo che esse evochino nella loro suggestione qualcosa della ambigua espressività delle maschere.
Queste sculture sono fatte da un manto che le mostra nello stesso tempo racchiudendole, nascondendole. Un velo che, nell’atto di coprire, scopre se stesso. Si allude certamente alla presenza impossibile di un’ anima: le cose non hanno anima!
Ed infatti qui tutto è vuoto, un vuoto che gli occhi sinceramente mostrano, gli occhi sembrano dire: credimi, io non sono! Così facendo quegli occhi alludono.
Qui tutto è finto e il corpo, svilito dalla presenza di lacerazioni e cuciture che indicano ancora una volta l’evidenza di non aspirare ad altro, se non alla natura di cose, risulta tragico. Le sculture vuote e leggere, inconsistenti, dentro non hanno niente, c’è solo un vuoto buio dove non ci può essere anima. La maschera del volto esprime incredulità, sgomento eppure accettazione di questa mancanza . Tutto è pietrificato, è reso finto, dall’idea stessa di non poter essere. C’è un momento preciso della realizzazione delle sculture, che io considero quasi un rito e che chiamo del “tirare l’espressione”. E’ il momento in cui un occhio realizzato con la cucitura o con una perforazione del tessuto, viene mosso, tirato in varie direzioni e, al momento opportuno, sospeso, fissato. Il risultato è un’ autoreferenzialità inquietante dello sguardo che esprime una sorta di ‘dramma barocco’, dove la materia fiorata e ridondante appare ‘congelata’ nella propria assenza di vita.
Nel caos vago e futile degli arabeschi si vede allora violentemente affiorare un’espressione ‘nera’ e profonda che buca i fiori, che macchia i merletti che sfonda, attraversa e tradisce la piatta superficie del corpo di stoffa, del corpo finto.
I tessuti, i drappi sono elementi fortemente intrisi di un certo sapore teatrale ed in effetti a me piace paragonare le mie sculture ad una messa in scena teatrale: la più ‘barocca’ delle messinscene. Queste sculture non sono soltanto grandi, sono precisamente a grandezza naturale. Portano in superficie i loro corpi, in particolare i loro volti: vedo la superficie di questi corpi come un palco, la scena vi si svolge, si sporge, per così dire, sull’ultima soglia (la pelle) che separa il palco dal pubblico: oltre questa soglia la maschera della scultura si ritrova poggiata sul volto degli spettatori, ed essi conoscono la misteriosa esistenza del simulacro.
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