ateatro 89.47 La meglio gioventù della drammaturgia italiana? I vincitori della 48a edizione del Premio Riccione di Chiara Alessi
Si discute spesso sulla vecchiezza del nostro teatro, sulla senilità delle programmazioni, la decrepitezza dei nostri palcoscenici-musei, in particolare, quando si fa riferimento alla drammaturgia e si scomodano repertori, maestri, abitatori defunti di cartelloni immortali che a ogni stagione ripropongono “i soliti sospetti” imperituri. Dall’altra parte – e non solo nella generazione teatrale - i trentenni o tardo ventenni sono abitualmente incriminati di far parte di un’ondata abulica, anonima, affatto indegna e ripudiante il nome dei padri. E’ vero: l’epoca degli autentici fenomeni della storia teatrale e non, degli eccezionali enfant prodige, che forse nulla hanno a che fare con quelli che ci ostiniamo a chiamare i “giovani emergenti”, si può dire estranea alla nostra realtà. Eppure va almeno constatato che qualcosa di buono davvero, se non straordinario, sta accadendo proprio nella drammaturgia, proprio per riportare la scrittura teatrale a un luogo di familiarità e concretezza palpabili. E gli esiti di questa 48a edizione del “Premio Riccione” ne sono la prova: cinque premiati, quattro dei quali nati negli anni Settanta, tre di cui under trenta.
Il primo premio addirittura a un ventiseienne, il napoletanissimo barocco Mimmo Borrelli, che cede il “Tondelli” al trentenne fiorentino Stefano Massini, interprete penetrante delle deliranti proiezioni di un Van Gogh maniacodepressivo in L’odore assordante del bianco. In questa ricostruzione sinestetica dei dialoghi sospesi dell’artista fiammingo con gli avventori reali e immaginari delle quattro mura bianche del manicomio, sono davvero le parole a “spezzare il filo”, fare da detonatore alle pochissime azioni e dipingere infine quell’ospedale muto di tinte colorate. Mentre per scagliare una lancia in favore del coinvolgimento di questa generazione considerata disinteressata ai fermenti sociali e ignorante di storia politica, il riconoscimento speciale della Cgil (“destinato all’autore che si distingua nell’approfondire argomenti e tematiche di carattere sociale e concernenti al mondo del lavoro”) va alla giovane romana Laura Buffoni per il testo Silenzio, la straziante rievocazione di una malata terminale e degli ex compagni partigiani riuniti dopo anni di mutismo colpevole al suo capezzale, in cui la Storia e le storie fanno da protagoniste, alternandosi su piani diversi, come a diversi livelli agiscono parola e silenzio.
Così, se ogni edizione la giuria lamenta giustamente il rincorrersi stantio e a tratti pedissequo dei soliti ritorni tematici e contenutistici, rievocazioni mitiche o trattamenti diversamente tragici, è da notare che tutti questi testi colpiscono per eterogeneità, per l’impossibilità di individuare un filone uniforme o, come si dice, un’ondata comune, per quanto sempre nella famiglia e nella problematicità del suo nucleo sia riscontrabile un filo rosso insostituibile. E’ forse questa la croce-delizia che fa discutere inarrestabilmente di drammaturgia: l’impossibilità di stabilirne i generi, di prestabilirne i percorsi; il che riemerge problematizzato in questi esiti migliori.
Ulderico Pesce, forse il più noto dei premiati per le sue esperienze di cosiddetto “teatro civile”, con FIATo sul collo, vincitore del Premio “Marisa Fabbri”, propone ad esempio un trattamento inedito della modalità narrativa cui siamo forse abituati dai recenti “cantastorie” di successo che popolano i nostri palcoscenici, cedendo la ricostruzione storica dettagliata alla soggettiva tragicomica di un operaio lucano sgrammaticato. Così, in Nzularchia, primo “Premio Riccione”, si rinviene senz’altro un attaccamento, peraltro felicemente riuscito, alla ricerca linguistica, traccia saliente dei prodotti drammaturgici più interessanti della nuova drammaturgia. Eppure questo giovane autore-attore tratta il dialetto flegreo, non quindi un napoletano qualsiasi, in maniera ardita, scavando appassionatamente nelle piaghe nascoste, ricavandone termini ambigui e bivalenti, spingendo a esiti ancora più ardimentosi le imprese dei nobili maestri partenopei di cui forse è erede, nell’intensa trattazione del lato “buio e tempestoso” del capoluogo campano. Coraggiosa quindi anche la scelta di premiare un testo non certo buono per tutti gli usi, di laboriosa costruzione e lettura impegnativa, se non altro per la necessità costante di ricorrere al glossario di cui è sistematicamente premunito, ma che ripaga infine pienamente per l’armoniosità intrinseca che si intreccia alla drammaticità tematica.
Ma l’incognita della messinscena, l’augurio di trovare un regista, innanzitutto lettore, che ne sappia sviscerare la trama, anche sintattica, senza snaturarne l’opera, che possa mantenersi fedele alle indicazioni drammaturgiche, non solo esplicative, che fanno dello sfondo il vero protagonista, riguarda tutti questi testi. Si tratta evidentemente di autori, sebbene per lo più sconosciuti, che hanno esperienza di teatro visto (in alcuni casi agito), lo si nota ad esempio nella consapevolezza didascalica, nelle indicazioni sceniche o le previsioni recitative, ma quella stessa esperienza ci ha insegnato che ciò non garantisce di per sé una soluzione. L’ha intuito bene Alessandro Genovesi, trentaduenne, attore, vincitore del “Premio Speciale” della giuria con Happy family, un testo di marca notevolmente letteraria, agile e piacevole, fluido alla lettura, che testa arditamente la resistenza teatrale e al contempo la attrae, sperimentando una ricerca forse più sulla scrittura che sulla laboriosa e provocante performatività implicata: “come ci si renderà conto leggendo, nel testo non sono presenti didascalie o indicazioni per la rappresentazione delle scene. Vi sono invece descrizioni e suggestioni che il regista potrà utilizzare a suo piacimento… per questo testo che, tengo a precisare, non è altro che materiale per la creazione di uno spettacolo”.
Fa piacere infine riscontrare come dopo tanti remake un po’ castranti e claustrofobici di macchiette beckettiane rinchiuse a coppie in ambienti e atti unici, torni l’azzardo a scene “maggiori”, con diverse ambientazioni locali e storiche, e personaggi che arrivano a sfiorare numeri più impegnativi (fino a 11 nel testo di Genovesi); non siamo forse di fronte a quelle imprese corali, con cui ci aveva fatto emozionare Tarantino nel suo Materiali per una tragedia tedesca (vincitore nel ’97), però, speriamo, almeno il sintomo che qualcosa di nuovo e di diverso si può, si deve, ancora tentare.
E forse spetta proprio ai più giovani, in minoranza nel complesso dei concorrenti ma effettivamente predominanti nel vaglio finale della giuria, tentare un decentramento non innocuo della scrittura drammaturgica nei luoghi tematici alternativi di una quotidianità rivisitata da personaggi comuni, ma allo stesso tempo davvero altri, che se in parte evocano l’autorialità da cui provengono, bene recidono il cordone ombelicale con il padre-autore per aprirsi alla scena.
Testi calati in ambienti che forzano le strutture tradizionali, o in quelli linguistici di recente esplorazione (su diciannove testi finalisti non a caso ben tre sono di impronta napoletana, tre siciliani, due dei quali di Adele Tirante e Nello Calabrò, giovani della compagnia di Tino Caspanello, messinese vincitore del “Premio Speciale” la scorsa edizione, e un monologo, L’ultimo Sarto di Francesco Gabellino, segna il ritorno del dialetto romagnolo) coinvolgono anche la ricerca instancabile di meno giovani, almeno per il teatro, che si riscontra nella segnalazione ripetuta nella rosa dei finalisti degli ultimi anni di Antonio Syxty (già segnalato nel ’99 con il Paradiso dei gangsters e vincitore nel ’91 con L’aquila bambina), Mario Gelardi (nella rosa del ’99 con Così leggero) e Massimo Salvianti (segnalato la scorsa edizione per Il permesso).
E anche quando la giovinezza degli autori ammicca a giovanilismi, è solo la conferma di una ricerca generazionale, non modaiola, scontata e destinata a passare il turno, o anche fosse, capace comunque di rivolgersi al presente, restituirlo e interrogarlo.
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