ateatro 89.33 La narrazione teatrale Una breve nota di Nevio Gàmbula
«La verità non consiste sempre nel mettere a posto subito tutti gli elementi del puzzle, ma nel sapersi fermare al frammentario, nel riconoscere opacità e lacune, nel sacrificare l’armonia, la coerenza e l’evidenza perfette in favore dell’acquisizione di qualche parziale e provvisoria conoscenza».
Remo Bodei, Le logiche del delirio, Laterza.
Il termine “narrazione” è fortemente ambiguo. Accostarlo a quello di “teatro” è, sotto diversi aspetti, operazione ambigua quanto il termine stesso. Per come viene comunemente usato, l’insieme dei due termini – teatro (di) narrazione – indica un “attore” che racconta una “vicenda” entro uno spazio particolare, teatro o piazza non importa. Prevede un “personaggio” (che può essere anche collettivo o, addirittura, lo stesso attore che si fa parlante in prima persona) e un modo particolare di ordinare gli elementi nella struttura, funzionale all’esposizione di istanze storico-civili. L’enunciazione può basarsi tanto sullo “scioglimento dell’enigma” che su una dinamica di accumulo di elementi da scoprire volta per volta, in cui conta non tanto l’esito, ma l’«eroe» e la sua «vita particolare»; mentre l’istituto del dialogo e l’interpretazione del personaggio sono sostituiti da «sequenze discorsive» che espongono il contenuto narrativo nel senso del tempo. Ora, l’ambiguità dell’accostamento tra i due termini qui considerati sta tutta qui: a) le caratteristiche proprie della narrazione possono essere ravvisate anche nel teatro propriamente detto, il quale ha sempre fatto i conti con un certo modo di dislocare la fabula nell’incedere dello spettacolo, per quanto secondo concezioni diverse e risultati persino opposti (la tecnica narrativa di Beckett, ad esempio, è tutt’altra cosa da quella di Brecht o di Koltès o di Schwab); b) teatro e narrazione hanno sempre convissuto, fin dal sorgere del teatro stesso, i cui impulsi primari sono, come disse più volte Grotowski, «la narrazione, il gioco, il rito» … Insomma, non è vero che il teatro di narrazione rappresenti in sé una novità; è vero piuttosto che è sorta una vera e propria tendenza, un “genere” fatto di punte notevoli e di discendenze poco onorevoli; così come è vero che il teatro di narrazione ha creato un humus di attese da cui è difficile stare fuori: ormai puoi stare sul mercato solo se ti atteggi a grande conoscitore e narratore di storie. Un genere importante, di rilievo anche sociale, che non può essere respinto in modo futile, così come non va esaltato acriticamente; bisogna analizzarlo con uno sguardo distaccato, riconoscendone la parzialità e inquadrandolo, per quanto possibile, nel contesto in cui è sorto. E studiarlo soprattutto cominciando col verificare se la modalità narrativa messa in gioco possa essere parte di una concezione altra della scena, sottraendosi quindi ai meccanismi e ai modi ideologici dell’epoca, oppure soltanto un artificio capace di ovviare all’emarginazione mercantile dell’evento teatrale. La questione è essenziale. Si tratta di verificare se il teatro di narrazione è stato capace di produrre eventi teatrali in grado di mettere sotto scacco le norme e le abitudini espressive dominanti; e ciò non per mero vezzo contestativo, ma perché l’adeguamento ai modelli prevalenti è, sempre e comunque, adesione ad un ordine sociale.
Dalla fine degli anni Ottanta ad oggi, una serie di esperienze di quello che veniva definito “teatro di ricerca” comincia a recuperare il racconto a teatro, di solito fatto coincidere con la riscoperta di modalità popolari di impostare la narrazione. Marco Paolini, Baliani, il Teatro Settimo, sino ad arrivare a Celestini e Davide Enia, sono le punte di un fenomeno che attesta la narrazione come una esposizione di spinte che hanno sede fuori dal linguaggio: istanze etico-civili, recupero di una memoria perduta, riscatto della facile comunicazione, rispetto delle attese del pubblico. Alla base di questo recupero della narratività ci sono diversi elementi, e in particolare la consapevolezza che il racconto apre la possibilità di “fare comunità”, ossia di aggregare individui altrimenti isolati. La «nostalgia di un senso» produce la volontà di ricercare «un nuovo senso». Sono, questi, gli anni del “rinculo mentale”, dove è ormai evidente, e per certi versi anche interiorizzata, la sconfitta di ogni istanza di trasformazione radicale della società. Nell’assenza di luoghi in cui fare circuitare significati diversi da quelli dell’effimero e dell’edonistico esaltarsi nell’intrattenimento, pian piano emerge la necessità di creare legami sociali di tipo nuovo, nuove modalità di stare insieme e di ripensare la socialità. Una affermazione eminentemente politica. Solo che l’ambito “naturale” di questa esperienza è, per così dire, bloccato; ancora troppo forti sono i rumori dei colpi di coda del “terrorismo” e della repressione statale: ed ecco che l’ambito della politica si trasferisce in un suo surrogato, l’assemblea teatrale. È in questo contesto che si apre la strada alla possibilità di raccontare vicende esemplari. Questo livello sociale, che esula dall’ambito del teatro, è parallelo ad una trasformazione interna al teatro stesso. Si è infatti al culmine di due percorsi emancipativi che hanno attraversato le scene italiane; da una parte c’è il recupero dell’autorialità del lavoro dell’attore, dall’altra l’acquisizione dell’idea che il teatro non sia più (non sia mai stato) la trasposizione sul palcoscenico di un testo che gli pre-esiste. Entrambe queste esperienze, spesso coincidenti in un’unica persona o gruppo, hanno minato la convenzione della parola come primus movens della scena, come elemento che «anticipa, predispone e dirige la struttura dell’accadimento teatrale». La parola diventa una funzione tra le altre e, nei casi più interessanti, è sempre piegata al rapporto conflittuale con la voce, nella esaltazione di una phoné non naturalistica. La parola non era più la base letteraria dello spettacolo, ma elemento materiale e corporeo dell’evento.
Il recupero della scena come «regno dell’attore» è un processo frastagliato, contraddittorio, che ha evidenziato due diverse tendenze, due percorsi che, alla prova dei fatti, divergono radicalmente, sia per gli esiti che per le premesse. Da una parte, lo sbocco rappresentato dall’esperienza del teatro di narrazione, dall’altra quanti hanno agito l’autorialità d’attore perseguendo una radicale messa in crisi del concetto stesso di recitazione. Potremmo dire che mentre il primo va in direzione della “prosa”, i secondi si attestano sulla vocazione poetica dell’attore. Ciò che certifica questa diversa funzione è l’atteggiamento nei confronti della lingua. In un certo senso, il teatro di narrazione accetta la lingua esistente, mentre i poeti della scena tentano di forzare dall’interno «il sistema gerarchico delle funzioni linguistiche». Nel primo caso si può parlare di assimilazione, nel secondo di rottura epistemica. Vediamo perché. Sul piano tematico, il teatro di narrazione «racconta ciò che gli spettatori già sanno (le fiabe, un fatto di cronaca) e fa emergere delle opinioni già condivise» (P.G. Nosari, I sentieri dei raccontatori di storie, in Prove di drammaturgia, n. 1, annoX, luglio 2004, interamente dedicato alla «nuova performance epica»). Una funzione del teatro di narrazione è infatti quella di «istruire e consolare» la comunità di riferimento, contribuendo con ciò a stabilizzarla. È proprio questa tendenza dell’attore ad assumere «le indicazioni che emergono dal pubblico» (G. Guccini, Il teatro narrazione, in Prove di drammaturgia, n. cit.), in pratica questo suo adeguarsi al senso comune, che meglio mostra i limiti del fenomeno, rendendolo, di fatto, strumento di conformismo. Il meccanismo percettivo attivato è basato sul riconoscimento, e non, come invece accade nella «parola ebbra» del poeta di scena, sulla deviazione tra attese del pubblico e performance. Questa predisposizione implica il rispetto di una codificazione linguistica precostituita, che è poi la stessa usata normalmente dallo spettatore, limitando al minimo la sperimentazione. Il funzionamento della struttura linguistica, insomma, ne lascia inalterata la sua logica di base, e difatti la funzione semantica prevale su quella espressiva. Nell’opera narrativa, quindi, quello che ha maggiore pregnanza è il referente: si recupera l’attenzione ai significati della lingua, soggiogando il ritmo affabulatorio ai canoni di una esposizione tranquillizzante, che deve mirare a coinvolgere lo spettatore, piuttosto che a metterlo in crisi. Le strutture orali sono perciò lineari, l’esposizione segue un andamento progressivo, per accumulo di particolari: è basata, come ogni buona narrazione “tradizionale”, su una sequenza di parole che, in un continuo crescendo, rendono via via più intensa l’esposizione di una vicenda, come se tutti i particolari debbano alla fine giungere alla chiusa finale, che deve essere “buonista”, espunta cioè da ogni crudeltà (crudeltà in senso artaudiano) ... La lingua del teatro di narrazione è una lingua statica, normalmente funzionante: il repertorio dei segni linguistici non vive di accostamenti inaspettati, di scarti tra ciò che è “tema” della narrazione e le fisionomie del dire. Viene a mancare tutto ciò che è deforme, grezzo, corrosivo; in una parola, viene soppresso uno degli impulsi più importanti della ricerca teatrale – e non solo teatrale – dell’ultimo secolo, la tensione al grottesco come «espressione del mutamento, del rinnovamento e dell’alternativa a un mondo statico e determinato» (Paola Cristina Fraschini, Le metamorfosi del corpo, Mimesis). Nel teatro di narrazione, l’esposizione (la dizione, i ritmi, le tonalità) non conosce eccesso, è narcotizzante: non solo perché è, alla lunga, mono-tona, ma anche perché, nel momento in cui è basata sul riconoscimento, da parte dello spettatore, di qualcosa che già conosce, rende incapaci di reazione: si sopprime la capacità di nascere un’altra volta, che è poi la caratteristica principale della relazione tra scena e platea. In un certo qual senso, si può dire che l’esposizione nasconde, o meglio sottrae alla percezione dello spettatore la contraddizione tra la libertà del corpo in azione sulla scena e le convenzioni; è come se dissimulasse la lotta necessaria, quell’«attacco della lingua consolidata condotto allo scopo di farsene una propria» che ha fatto di Leo De Berardinis, ad esempio, un grande poeta della scena ... In sintesi, l’atteggiamento del teatro di narrazione nei confronti della lingua è basato sul recupero del contenutismo simil-zdanoviano, certo meglio adatto ai tempi, dunque cassato da ogni impurità totalitaria, però, ad una seria e rigorosa analisi delle sue strutture reali - e dico reali, dunque esulanti le intenzioni dei singoli – , le sue strutture, dicevo, sono di vago sapore “neo-realista”, addirittura recuperano certo mimetismo della parlata quotidiana (l’accento romanesco di Celestini, il palermitano di Enia, così come le ripetizioni di parti di discorso come imitazione dell’incapacità, tutta proletaria, di articolare sequenze logiche), e per giunta quasi tutte rivolte al passato, nel senso che raccontano un mondo che non esiste più (una sorta di realismo della memoria). Lo spettacolo è così trasformato in un «rituale pedagogico» (G. Guccini) e non, come dovrebbe, in un rito teatrale; e proprio in quanto “pedagogico” non può che ottenere un «effetto placebo» ...
È per tutto ciò che il teatro di narrazione non ha niente a che vedere con quanti, sicuramente in minoranza, hanno mirato a «ricondurre il teatro alla sua essenza poetica» (Antonio Attisani, L’invenzione del teatro, Bulzoni). L’attore poeta fa deflagrare i significati entro complesse strutture che sono anzitutto teatrali, il cui scopo originario non è proporre modelli – civili, etici, storici – bensì inventare una teatralità “altra”, dove la critica all’epoca passa da una diversa strutturazione dei materiali. La recitazione è qui il riscatto del corpo, è la vertigine della parola-coltello ... Segni in negativo, verità appena intraviste ... Sovversione militante, disumana ... Un gorgo erotico, senza identità ... Questa è la poesia dell’attore: una pantagruelica bisboccia, è un baccanale traboccante di fioriture oscene e tenere, è un bivacco esposto agli attacchi, è una grande allegoria della libertà possibile … È, più che adeguamento, una interferenza nella lingua …
Aggiunta storica
Si è detto che teatro e narrazione si compenetrano uno nell’altra, da sempre. Anche l’avanguardia teatrale italiana non ha disdegnato l’utilizzo della narratività, come bene dimostra il lavoro di Carlo Quartucci. Il regista siciliano teorizza in diverse occasioni sulla figura dell’attore-narratore; comincia a farlo a metà degli anni settanta, dunque ben prima che sorgesse il teatro di narrazione per come oggi lo conosciamo, nato, secondo gli studiosi che seguono più da vicino il fenomeno, intorno al 1989 (Stabat Mater del Teatro Settimo, secondo Gerardo Guccini, è la prima «fonte»). Le considerazioni di Quartucci si possono leggere nel volume Viaggio nel camion dentro l’avanguardia, scritto insieme a Edoardo Fadini (Studio Forma Editore, 1976). A pagina 48 è riportata, a firma di Carla Tatò, una dichiarazione che fa luce sulla reale primogenitura di questa ricerca attoriale:
«Dico questo per cercare di definire in qualche modo la figura del narratore. La fonte a cui attingono tutti i narratori è il racconto di un’esperienza tramandata di bocca in bocca; in passato l’esperienza veniva fatta da mercanti-viaggiatori e ascoltata dai contadini e dagli artigiani sedentari. In questo senso il racconto era uno scambio di esperienza. Storicamente c’è anche un’altra dimensione del narrare: il racconto tragico legato alla persona di un viaggiatore che ad ogni tappa arricchisce la storia di nuova esperienza. Come attrice-narratrice io devo raccontare, invece di interpretare la psicologia di un personaggio; non ho quindi nulla con cui confrontarmi se non il bagaglio storico del racconto».
Ovviamente, il narrare dell’attrice Carla Tatò è inserito da Quartucci in un congegno esploso, essendo il suo programma quello di “distruggere” la macchina scenica. Il racconto, allora, nel suo continuo dipanarsi tra personaggio e narrante, è trasmesso «attraverso un linguaggio sonoro dai ritmi spezzati, violenti e contradditori» (C. Tatò, op. cit.); l’enunciazione è sconnessa, vive di una serie di lacune tra un momento e l’altro, e il racconto non segue un filo lineare, mentre la voce narrante esce dal paradigma del rispetto dell’aderenza ai significati del detto per farsi poesia della voce. Questa impostazione franta della narrazione è stata successivamente confermata dagli studi più interessanti sul fenomeno dell’oralità. Walter Ong, ad esempio, scrive che «una cultura orale non conosce trama lineare che tende al climax» (Oralità e scrittura, Il Mulino). Anche Paul Zumthor afferma che la poesia orale mira alla rottura del discorso: «frasi assurde, accumulo di ripetizioni fino all’esaurimento del senso, sequenze foniche non lessicali, puri vocalizzi» (La presenza della voce, op. cit.). L’esito più efficace della ricerca di Quartucci sulla “narrazione” è lo spettacolo Canzone per Pentesilea, del 1983. Il testo di Kleist viene raccontato da un “cantore” (la stessa Tatò), che procede nella vicenda dando voce ai diversi personaggi, all’interno di una complessa struttura musicale (composizioni di Giovanna Marini) di scambio tra solista e orchestra, tra canto registrato e recitante. Un esito che è radicalmente diverso dalle esperienze che sarebbero poi maturate entro quel composito e variegato universo del teatro di narrazione. Il racconto di Quartucci è un non-racconto, forme rigorose che si disseminano per frammenti, ma che conservano un piacere della compiutezza. Non c’è trama; non ci sono valori positivi; non ci sono motivazioni che abbiano sede al di fuori dell’esigenza di cercare altre direzioni al teatro; c’è piuttosto un dipanarsi poetico del gioco teatrale: una sorta di operazione meta-teatrale, una dissertazione sul “modo di procedere”, che certo non tralascia l’attenzione ai significati (il tema della crudeltà dell’amore tra Achille e Pentesilea, ad esempio), ma li piega in funzione di una certa idea di teatro e di attorialità, dove la poesia – che è, come diceva Valery, «l’esitazione prolungata tra suono e senso» – è l’elemento principale. La funzione della narrazione, allora, non è più volta a dare soluzione scenica ad una serie di vicende e contenuti, quanto piuttosto a ripensare radicalmente il teatro.
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