ateatro 89.31
Italiani cìncali: Mario Perrotta tra narrazione e personaggio
Una mail
di Oliviero Ponte di Pino
 

Caro Mario,
mi hai chiesto con grande cortesia qualche mia impressione sul tuo Italiani cìncali. Purtroppo (o per fortuna) non riesco a scrivere subito, a caldo, di tutti gli spettacoli che vedo. Un po’ perché a volte non ne ho il tempo materiale, un po’ perché non mi pare di aver niente di interessante da dire (né nel bene né nel male), un po’ perché certe idee e riflessioni hanno bisogno di qualche tempo per maturare.
Italiani cìncali per certi aspetti rientra in queste tre casistiche. Mi sei sembrano molto bravo, nel senso che padroneggi quelle che sono ormai diventate le tecniche e le retoriche standard del narratore (e qualche volta te ne compiaci, quasi virtuosisticamente), ma questo non c’è bisogno di scrivertelo, lo sai già da te, e te l’hanno sicuramente già detto in molti. E la tragedia dei minatori italiani in Belgio è sicuramente un tema perfetto da teatro civile, politicamente corretto e vergognosamente rimosso (fino al recente sceneggiato tv…). Dunque tutto bene, e tutto – in qualche modo – prevedibile: memoria rimossa e ritrovata, atroce ingiustizia che porta alla tragedia, conspevolezza e indignazione da parte del pubblico. Che cosa potrei aggiungere?
Invece nel tuo spettacolo, mentre lo guardavo, c’era un aspetto che mi ha incuriosito e mi ha fatto riflettere. Perché uno dei nodi chiave del recente teatro di narrazione made in Italy, e uno degli ingredienti del suo successo anche televisivo, è una sorta di ostentata “sincerità” - diciamo una sostanziale coincidenza tra l’attore e il personaggio, tra l’individualità e la personalità del narratore e quello che dice, tra il punto di vista di chi parla e quello che viene detto. E’ stato anche questo corto circuito a dare forza di testimonianza politica a molto del teatro civile di questi anni e a trasformare alcuni dei nostri migliori narratori in autorevoli portavoce della nostra sbrindellata memoria e coscienza collettive, in personalità legittimate a prendere pubblicamente la parola per affrontare i nodi irrisolti della nostra convivenza (in)civile. Ma proprio questo aspetto - la presunta innocenza del narratore - è quello che irrita e scandalizza alcuni spettatori eccellenti: Luca Ronconi per esempio considera questo corto circuito “osceno”, lui che da sempre lavora post-modernamente sullo scarto tra quello che viene detto e chi lo dice (sia l’autore sia l’attore). Dal suo punto di vista, quello della convenzionalità di ogni comunicazione, quella della narrazione è una scorciatoia profondamente sospetta.
Ecco, in Italiani cìncali le tre figure principali sono nella sostanza dei bugiardi dichiarati, mentitori programmatici, mistificatori per vocazione o per necessità. E la verità di cui è portatore il tuo testo – le ingiustizie, le sofferenze, il martirio subito da quei poveri emigranti nel ventre della terra belga – può emergere sono attraverso questa rete di menzogne (di matrice peraltro letteraria, a mio modo di vedere: non a caso nel tuo intreccio la scrittura - le lettere - hanno un ruolo determinante) di questi tre embrioni di personaggi. Per cominciare ci sei tu, o il tuo alter ego bambino, ovvero il punto di vista che filtra l’intera vicenda: quel tuo doppio infantile non fa altro che raccontare petulanti frottole ai suoi compagni di vaggio, sul treno che sale al nord, inventando la propria identità e le proprie ambizioni; e dunque pone fin dall’inizio l’intero raconto in una prospettiva sospetta, dando il tono a quello che seguirà. Poi ci sono i minatori saliti al nord (a cominciare dal tuo primo eroe), che nelle loro lettere sono costretti a mentire per non far sapere ai loro cari e ai loro paesani l’inferno in cui sono finiti. E infine c’è il postino, il secondo eroe della vicenda, che mente per non dover raccontare la tragica verità ai compaesani, per lasciare vivo un brandello d’illusione, un qualche briciolo di speranza (e in questo bilancio ci sarebbe da tener in conto anche chi sceglie di credere alle sue menzogne…).
Questo non è né un elogio né una critica del tuo lavoro, semplicemente una constatazione da cui forse varebbe la pensa di far partire qualche considerazione. Sul tuo spettacolo (che è senz’altro efficace e riuscitom nel senso che raggoinge gli obiettivi che si era prefisso, mi pare), e in generale sul format del teatro di narrazione e sulla sua attuale impasse.
Certo, bisognerebbe anche riflettere sulla effettiva credibilità “fattuale” di una vicenda così inventivamente e immaginosamente stratificata, che alla fine gioca quasi sui toni della commedia degli equivoci, seppur intrisa di venature patetiche. Insomma, mi pare che alla fine, al di là delle ambizioni documentarie, in Italiani cìncali finisca per prevalere la dimensione romanzesca su quella, diciamo così, epica. Questa può forse essere una via d’uscita dalle strettoie della narrazione, ma pone inevitabilmente altri problemi, di tenuta letterarua e scenica. Ma per il momento, nel tuo spettacolo, l’equilibrio – seppure fragile, a mio avviso - c’è.
Caro Mario, non so se è la risposta che ti aspettavli, ma è quella che sono riuscito a mettere insieme in questo agosto. E spero nauralmente di rivederti presto in scena, e vedere che cosa stai facendo, dopo Italiani cìncali.

Cordialmente

Oliviero Ponte di Pino


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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