ateatro 87.8
La prigione dell'autore in crisi
Una intervista ad Armando Punzo su Appunti per un film
di Andrea Lanini
 

Come può un autore raccontare il mondo reale? Che strategie si possono ancora sperimentare per parlare di ciò che i nostri sensi ci fanno provare, venendo a contatto con la vita? Esiste il modo di farlo evitando di ripetere ciò che già è stato detto e tentato? Armando Punzo dice che quando un autore comincia a farsi queste domande di frequente, significa che i suoi piedi iniziano a camminare su un territorio pericoloso, al limite dell’afasia, o della pagina bianca.
Evidentemente, in questo caso può cominciare una crisi: crisi creativa, ma anche impasse che nasce dallo smarrimento della propria coscienza di artista, della percezione del proprio ruolo o della propria utilità. Che cosa succede, in questo caso? Come indagare questi territori misteriosi, confinanti da un lato con la chiara consapevolezza del proprio stallo creativo e dall’altro con un bisogno di raccontare, di fare partecipi gli altri che non cessa di essere irrinunciabile, irrimediabilmente urgente?



Appunti per un film, l’ultima produzione della Compagnia della Fortezza (lo spettacolo – evento clou di Volterrateatro 2005 - è stato presentato dal 25 al 28 luglio al Carcere di Volterra), è un viaggio all’interno di questi territori, un sentiero che si dipana inseguendo i pensieri di un Autore che sta lavorando alla sceneggiatura del suo prossimo film, e nelle cui idee tutto finisce per galleggiare: il pubblico della Fortezza e i detenuti-attori, gli oggetti teatrali che danno vita a questo camaleontico gioco di scatole cinesi e lo stesso Punzo, portavoce ed ennesima emanazione della fantasia di un Autore-demiurgo attorno al quale chiunque entri in contatto con lo spettacolo finisce per orbitare, diventando – consapevolmente o meno – una parte di un meccanismo dai contorni sfuggenti e necessariamente non delimitabili, così come impossibile da circoscrivere è il pensiero di chi tutto questo immagina.
Si può dire che in questo spettacolo niente è reale e nulla è, in sostanza, ciò che dovrebbe essere: tutto è in preda a una sorta di liturgia dissacrante che pare obbedire a un principio pirandelliano di sdoppiamento esponenziale dell’io (non a caso Luigi Pirandello diventa una delle incarnazioni del pensiero dell’Autore, finendo inevitabilmente, come Don Chisciotte, per materializzarsi tra il pubblico), di sovrapposizione di coscienze infinitamente diverse che, in nome della propria alterità, finiscono per riconoscersi e conciliarsi: il flusso della vita vera si stempera sempre in quello di una vita immaginata dall’esterno, guidata da un burattinaio invisibile i cui intimi tentativi creativi animano ciò che ci appare visibile. In questo spettacolo non esiste un pubblico: anche gli spettatori che entrano nel carcere, che assistono ai richiami delle sensazioni pittoriche ricreate nel cortile per l’ora d’aria, alle suggestioni provenienti da Fellini e Truffaut, ai “colpi di Realtà” che i detenuti-attori mettono in scena, fanno parte di un piano; esistono in quanto pensati, e sono lì per dare vita a un’idea di pubblico, a un pubblico probabile che non può e non deve mancare. Eppure, tra le ombre di quella che sembra essere diventata una sorta di caverna platonica, dove tutti, alternativamente, recitano sia la parte di chi sta all’interno sia di chi sta al di là del muro, si riconoscono dettagli chiari dell’autobiografia della Compagnia della Fortezza, della sua vera storia. Come può non essere vera la ricostruzione del viaggio del terrore compiuto dagli scafisti in gommone, o la claustrofobica scena della rivolta dei detenuti, vissuta dal pubblico-comparsa attraverso un inedito e toccante punto di vista posto all’interno delle celle? Quelle voci, quelle grida sanno di vita scorsa davvero sulla pelle di chi la mette in scena. Certo, in parte si tratta di verità vera: ma basta davvero far raccontare a qualcuno una parte della sua vita per raccontare la vita? Si può dire che sia un tentativo, una strada che l’Autore prova a imboccare: ma basta questo? Non ci sono risposte, ma solo serie di tentativi: tutto fa parte di un piano del quale si raccolgono (con riprese vere, con vere telecamere, contraltare mediatico della finta troupe che nel pensiero dell’Autore deve catturare gli spunti per la sua sceneggiatura) tracce, sfumature, ipotesi.
Forse per racchiudere la realtà in una sceneggiatura bisogna fare così: dipingere colpi di realtà che possano dar vita ad un immenso affresco che racconti tutto, che spieghi tutto. E’stato questo il sogno-utopia di tanti autori che – come dice Armando Punzo – con la loro opera hanno voluto “acciuffare il reale”, imprigionandolo in architetture immense: le pagine di Proust, i progetti mai realizzati di Pasolini inseguono questa chimerica tensione; nello spettacolo vive anche parte del loro spirito, di quella utopia letteraria.
In Appunti per un film, work in progress che sembra divertirsi a nascondere tra le sue ramificazioni la propria spinta evolutiva e che, teoricamente, potrebbe anche essere “in progress” per sempre ed essere destinato dal suo Autore a rimanere eternamente aperto, come una dissonanza che non troverà mai una sua risoluzione, l’aspetto frammentario e segmentato della struttura partecipa di questo tipo di ricerca. I vari brandelli di realtà catturati da questo ingranaggio che sembra creato per non avere controllo sono specchi deformanti che potrebbero essere la cosa più vicina al vero ma anche quella più lontana.
Seguendo i flussi di coscienza dell’Autore, si assiste a una metamorfosi inquieta delle sue visioni, delle sue percezioni di una possibile narrazione: se il mondo non può essere raccontato da un autore attraverso squarci di verità, forse è perché, in fondo, non esiste alcun autore. Esiste solo la vita che deve essere vissuta, o il mondo che va avanti anche se nessuno lo pensa. L’Autore riflette allora sul proprio annientamento, e immagina la sua morte: noi, pubblico-comparsa che ha il privilegio di essere spettatore dei suoi pensieri, vediamo il suo funerale, e prendiamo parte al corteo funebre che riprende, in tonalità minore, il passaggio onirico dai toni chiaroscurali che apre la rappresentazione. Può finire tutto così? La vera soluzione è la scomparsa di chi, per un momento, sembrava avere regole da dettare? Forse.



Il balletto di Don Chisciotte, il suo muoversi come strattonato da un inesperto e nervoso burattinaio, sembra voler ricordare che in questo gioco regna l’indecisione: la sua danza caricaturale manifesta una perdita di ruolo, una mancanza di collocazione all’interno di una struttura in cui tutto deve essere al suo posto. L’Autore non sa pensare il destino di Don Chisciotte esattamente come non sa sistemare se stesso e le sue idee. E forse l’insegnamento di questa tormentata ricerca è proprio nella consapevolezza dell’inutilità della ricerca stessa: capire che la cosa più saggia è lasciare che “alla fine, tutto finisca in ballo”, cercare di seguire la melodia anziché tentare di comporla. Vivere, insomma. Magari arriverà un tempo in cui tutte le sensazioni e le immagini, i tentativi e i frammenti raccolti avranno una loro definitiva collocazione (Armando Punzo, per scaramanzia, preferisce non fissare date precise: dice semplicemente “tra qualche anno, forse tre”) in un vero film. Solo allora ci sarà un vero pubblico che assisterà al racconto iniziato questa estate a Volterra.




Appunti per un film è pensato come emanazione del pensiero di un Autore che non vedremo mai, e che siamo destinati a conoscere solo attraverso il suo lavoro, la sua sceneggiatura: ma quanto ti assomiglia, quanto di te c’è in lui?

In lui c’è parte della mia biografia, ma non sono io. E questo non perché io non possa essere un autore in crisi, ma perché drammaturgicamente sarebbe poco interessante. Il fatto che, durante lo spettacolo, cominciamo a interrogare il pubblico serve anche ad allontanare l’idea che l’Autore sia io: mi è sembrato molto più interessante prendere delle persone dal pubblico e chiedere loro di interpretare la sua parte, per vedere che cosa sarebbe successo. Tutto quello che abbiamo fatto in Appunti per un film è stato un raccogliere materiale che ci servirà ad andare avanti in questa sceneggiatura. Fondamentalmente abbiamo continuato a lavorare anche durante le varie repliche: ad un certo punto del lavoro era necessaria la presenza del pubblico; bisognava immaginare che ci fosse un pubblico grazie ad un tot di comparse incaricate di recitare la parte degli spettatori, per un lavoro che viene scritto in quel momento, e soprattutto pensato da un Autore in quel momento. Un Autore che non sono io, anche se abbiamo dei tratti in comune: si immagina che lui faccia anche un percorso dentro di sé, per capire le sue origini e da dove viene il fatto che nella sua vita abbia deciso di fare l’artista. Per questo aspetto ho fatto intervenire la mia autobiografia, ed è in quest’ottica che si spiega la partecipazione di mia madre: la scena di cui lei è protagonista è un lavoro su un addio, su un distacco di un ragazzo dalla propria famiglia. In questa scena lei interpreta se stessa, e la situazione riflette – anche se non nei particolari – un momento della mia vita.

Raramente la struttura carceraria è entrata all’interno dei vostri spettacoli come in quest’ultimo: una delle soluzioni pensate dall’Autore porta il pubblico all’interno delle celle, a contatto con una situazione emotivamente molto toccante. Parlaci di questa scelta…

E’vero, negli spettacoli precedenti il carcere è sempre stato tenuto fuori dal nostro lavoro. Nell’inizio di Marat Sade, la produzione del ’93, c’era qualcosa di simile, ma si tratta di due situazioni molto diverse. E’importante sottolineare che la scena nelle celle non è servita per far vedere il carcere, ma per raccontare una possibile storia. Quella rivolta è uno dei tentativi fatti dall’Autore: bisogna immaginare la situazione in cui c’è un autore che cerca di raccontare la realtà, di mostrare qualcosa di vero, di definitivo. Potrebbe pensare di fare un viaggio in India, o nei Quartieri Spagnoli a Napoli: in quel caso il pubblico non avrebbe visto alcun carcere. Avrebbe potuto scegliere di andare in un carcere brasiliano – un posto dove le carceri sono veramente l’inferno dell’inferno –, per cercare di raccontare la realtà. E’in quest’ottica che va vista la parte di spettacolo in cui il Carcere ha un ruolo importante. Fino ad oggi lo avevamo nascosto, lasciato da parte: negli spettacoli precedenti non mi interessava mostrarlo. Questa volta compare semplicemente perché attraverso di lui si attua una delle possibilità che l’Autore tenta per portare avanti il suo progetto.

Lo spettacolo è ricco di momenti che appartengono alla storia della Compagnia della Fortezza, di citazioni del vostro vissuto: si ha l’impressione che uno dei fattori determinanti di Appunti per un film sia il desiderio di fissare un momento, di tracciare una sorta di “bilancio emotivo” della vostra stessa memoria…

Per lo spettacolo abbiamo usato molto la nostra autobiografia, la nostra storia privata, la mia e quella di tutto il gruppo. L’abbiamo fatto per trovare una partenza per scrivere. Quando tu scrivi un libro, un film, da cosa puoi partire? Parti sempre da te stesso. Noi stiamo lavorando su di noi: nello spettacolo c’è molto materiale che viene da noi, per poi staccarsi e diventare materiale per raccontare il mondo, materiale a disposizione di altri. L’episodio del gommone, i problemi con gli attrezzisti o con la costumista, provengono dalla nostra realtà quotidiana.

L’episodio degli scafisti col gommone è un altro momento molto toccante, in cui la rappresentazione entra potentemente in simbiosi con il vissuto dei detenuti-attori. Ad un tratto però arriva l’apertura inaspettata verso una soluzione ironica della scena: avete anche giocato, con la vostra biografia…

Sì, in certi casi abbiamo giocato con questi particolari biografici. Quando uno degli scafisti dice di essere arrivato in Italia in aereo, in realtà, e non in gommone, crea uno sfasamento comico. Ci sono sempre tanti livelli nello spettacolo proprio perché la realtà non è poi così semplice. Le persone vogliono sempre essere rassicurate, e si rassicurano pensando che ciò che vedono corrisponde in tutto a ciò che è successo. Ma la realtà, invece, è difficilmente rassicurante. La situazione del gommone è vera: è vera per molti di loro, per molti altri, ed è vera tutti i giorni in tv, nella vita reale. Il problema del nostro Autore è proprio questo: come fare a raccontare la realtà? E’possibile? O magari è possibile solo raccontare un piccolo frammento per poi perdersi di fronte alla vita intera? Lui sta vivendo questa situazione. Questi che abbiamo raccontato sono “blocchi di realtà”, infatti li abbiamo chiamati “Realismo 1”, “Realismo 2” ecc. Anche il momento in cui il pubblico viene portato in quella che presto si trasforma in una sorta di arena riflette una cosa vera, e cioè il momento in cui ci trovavamo per discutere (parlo di 5-6 mesi fa) su come avremmo messo in piedi lo spettacolo. Discutevamo tra di noi. Ci sono state discussioni vere sull’America e sul mondo islamico, confronti anche molto accesi. La molla che muoveva quelle discussioni è la stessa che abbiamo proposto nell’arena, ed è anche la stessa che si trova nella vita reale. Il timore che la gente aveva al momento di dover esprimere la propria opinione è quello stesso timore che fa sì che spesso stiamo zitti nella vita reale. A me sembra una sorta di mancanza di abitudine a confrontarsi, a scambiare idee. Se ci pensi, è una cosa terribile, che non aiuta. Credo che la difficoltà che si crea in quel confronto teatrale rifletta molto da vicino ciò che succede fuori. Questo Autore si è immaginato che anche la strada dei talk-show è percorribile, quella dove si decide di mettersi di fronte e di parlare: perché non è detto che i talk-show siano per forza quelli televisivi; quelli sono una deformazione, una degenerazione che rende manipolata e calcolata quella che resta una possibilità importante dell’essere umano, quella cioè di mettersi insieme e parlare per cercare di capire qualcosa. La scena dell’arena, in questo senso, vuole essere anche una parodia e una critica nei confronti di quella degenerazione.

L’impasse che si crea all’interno dell’arena viene vissuto dal pubblico in maniera molto forte: i vari livelli del gioco messo in piedi dall’Autore sembrano scatenare un cortocircuito dal quale sembra difficile uscire. Sembra che lo stallo e l’inquetudine che emergono tra il pubblico divengano non solo paradigma ed emanazione della crisi dell’Autore, ma anche del teatro, dell’uomo, del mondo… Fino a che punto si tratta di un impasse voluto, di un effetto controllato?

L’impasse c’è sempre stata, ma non si tratta di qualcosa di cercato, di teatrale: potrebbe anche non esserci. Fin dall’inizio eravamo consapevoli che molto probabilmente si sarebbe potuta verificare una situazione difficile: si è trattato di un rischio preventivato ma assolutamente interessante da provare. E’vero che poi, oltre al livello della parodia della tv, c’è anche un parallelismo tra la crisi del pubblico e quella dell’Autore: ma quella del pubblico, per l’Autore, è solo una messa in scena… l’unico ad essere veramente in crisi è lui.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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