ateatro 87.7
C'è chi si vuole impegnare e chi si accontenta di vedere il mondo dalla parte di Zelig
Resistenti di Roberta Biagiarelli a Festambiente 2005
di Anna Maria Monteverdi
 

Resistenti
Un racconto di Francesco Niccolini e Roberta Biagiarelli
con Roberta Biagirelli
consulenza storica: Franco Sprega
musiche di Andrea Soffientino
Luci: Giovanni Garbo

Festambiente è un appuntamento immancabile non solo per chi è ambientalista convinto; è un modo per conoscere realtà e associazioni in Italia che si occupano di tutto ciò che è salvaguardia e educazione ambientale, sviluppo sostenibile. Che passa anche attraverso l’informazione sul risparmio energetico, sui progetti sulla biodiversità, sulla bioagricoltura, su Chernobyl (il prossimo anno sono vent’anni dallo scoppio della centrale nucleare in Bielorussia), sui risultati di Goletta Verde. Appuntamento quest'anno a Rispescia vicino al Parco naturale della Maremma con la musica (Roy Paci, Lindo Ferretti, Elisa), con il cinema, con la letteratura e anche con il teatro grazie alla sezione “Clorofilla” che ha ospitato progetti aventi tematiche di impegno civile. Hanno partecipato Andrea Cosentino, Francesco Niccolini e Roberta Biagiarelli dell'associazione Babelia.
Roberta Biagiarelli ha presentato a Festambiente Resistenti, leva militare '926 dopo che lo spettacolo ha avuto alcune presentazioni (a Inequilibrio di Castiglioncello) ancora in forma di work in progress. Come sempre la Biagiarelli si lega a tematiche che affrontano capitoli irrisolti e drammatici della nostra storia contemporanea: il massacro di Srebrenica, lo scoppio della centrale nucleare di Chernobyl e le conseguenze devastanti per la popolazione e la natura e ora la memoria della seconda guerra mondiale; in questi anni ha viaggiato in Kossovo e nella Bosnia Erzegovnia; ha fatto più di 200 repliche di A come Srebrenica e ha portato lo spettacolo a Sarajevo e a Tuzla in lingua slava; dopo lo spettacolo mette in vendita le sopracalze di lana, comode e caldissime fatte dalle vedove musulmane di Srebrenica a cui va il ricavato. Altre volte sono i cachet degli spettacoli a essere devoluti a progetti sanitari importanti come il mantenimento di un ambulatorio pediatrico gratuito attivato dall'Associazione Macondo 3.
Il teatro di Fiorenzuola diretto con grinta e determinazione dalla giovane Paola Pedrazzini le ha commissionato quest'anno uno spettacolo sulla Resistenza partigiana nei luoghi tra Parma, Piacenza e Fiorenzuola. Una commissione importante che ha significato per la Biagiarelli entrare nelle storie e nei luoghi di chi ormai ha più di ottantenni e che nel corso del sia pur breve tragitto per la definizione dello spettacolo, purtroppo l’ha lasciata. Roberta si è fatta affiancare dallo storico Franco Sprega che gli ha aperto un mondo: quello dello Stalin, della Pierina e del Molinari. Poi ha voluto che le loro storie fossero scritte da una penna pulita e essenziale come quella di Francesco Niccolini che ha fornito il quadro temporale e la cornice storica.
A Festambiente Resistenti è accolto nello spazio (non mi piace dire location) adeguato: l‘uliveto al calar della sera. Una staffetta partigiana vestita con un impermiabile bianco, fucile in mano, capelli raccolti e sguardo sospetto ci conduce con passo deciso tra i campi dove seduti su panche di legno, ascoltiamo quello che ha a dire la Roberta che ci dice che ha avuto bisogno del Franco ma poi dopo un po’ diventa l’Eligio che fu risparmiato ma gli hanno ammazzato il padre quando lo hanno liberato, e dopo anche la Pierina, che aveva una bella bicicletta e delle belle gambe. Roberta li ha conosciuti tutti quelli di cui parla: la Pierina (“Stella”) oggi vive sola in una casa popolare, una stanza, fa ottant’anni l’8 settembre e si accende una sigaretta con il mozzicone dell’altra. Ha la voce roca proprio come fa la Roberta nello spettacolo e quando le hanno portato a casa sua la foto che la ritraeva diciassettenne con i capelli alla Ava Gardner fiera accanto alla sua bicicletta, ha detto: “Ma son me? Son proprio me!” Pierina non lo sapeva che era entrata nella Storia. Quella Storia fatta da chi ha liberato l’Italia: dall'anarchico Ezio Franchi reduce dalla guerra di Spagna, da Don Giovanni Bruschi, dal “Gioia”, dallo “Stalin” che più comunista di così si muore. Dunque anche da lei che portava ai partigiani cibo e armi pedalando per 100 km e una volta l'hanno anche messa dentro. Gente passata allla Resistenza per convinzione o per caso. Disertori dell’esercito classe '25 e '26 che anziché andare a combattere per la Repubblica di Salò sono andati tra le montagne. Lo spettacolo racconta del partigiano Giovanni Molinari (il Piccoli), comunistaccio che imbrattava la faccia del Duce sui manifesti in Piazza e aveva fondato col fratello la prima colonna partigiana là sull’Appennino tra la Liguria e l’Emilia. Colonna comunista. Ma qualcuno ne stava mettendo in piedi un'altra, il sardo cattolico Fausto Cossu. Sono i partigiani bianchi. E per non lasciare dubbi su chi bisognava seguire, aveva ucciso proprio il Molinari. Ancora adesso la prima domenica di settembre il paese ricorda in Piazza il Molinari ucciso né da fascisti italiani né da fascisti tedeschi ma da italiani partigiani. Figure di giovani e giovanissimi, uomini e donne ritratti a tutto tondo, con le loro inflessioni, i loro tic, le loro esclamazioni in dialetto, le paure dopo aver aderito alla Resistenza non senza esitazioni. “M’è bela capì?” dice lo Stalin.
Lo spettacolo cerca di far stare queste storie di uomini non illustri -come avrebbe detto Pontiggia- dentro tutta la Storia del Ventennio, dell'Italia in guerra, in un equilibrio drammaticamente instabile tra fratellanze e diserzioni, rastrellamenti, eccidi, torture e grandi atti di eroismo. Per il sogno della libertà.

Quale è stata la metodologia che avete usato per raccogliere e poi raccontare queste storie?
Ci siamo basati sull'oralità, sui racconti di chi è stato testimone. Gente che sta scomparendo, persone io dico, che sono ormai di “cartavelina”, trasparenti, uomini e donne che faticano molto a ricordarsi le date ma si prendono tutto il tempo, e poi te le dicono esatte. Entrare in contatto con loro, avere la loro fiducia è stato fondamentale. Ci vuole fiducia per consegnare a qualcuno la propria memoria; quindi abbiamo fatto un percorso di avvicinamento e poi dalla Storia siamo passati alla drammaturgia. Alla “parola per essere detta”. Dalla storia delle persone qualsiasi a una memoria sentita come qualcosa da comunicare per la collettività.
I luoghi del racconto non sono però “i vostri luoghi”.
Un profondo senso del dovere permea il progetto: quel territorio che decidi di raccontare lo devi conoscere bene, devi percorrere le valli, i luoghi storici. Devi prendere confidenza con la sua geografia e il suo parlato. Raccontiamo di questo ventaglio di valli tra Pama a Stradella fino a Fiorenzuola. Abbiamo fatto anche ricerche all’Anpi di Piacenza, abbiamo visto le foto, abbiamo ascoltato le testimonianze, la voce diretta di chi è stato testimone e che presto non ci sarà più. Il sentimento comune che passa attraverso l’umanità che ho incontrato è che loro hanno dato tutto, è stata dura ma è stato anche bello; poi sono tornati alle loro vite, alle loro case e si sono sentiti traditi da chi poi ha fatto la politica, si sono sentiti manipolati. I sopravvissuti ti ricordano gli amici perduti e il rispetto che dobbiamo avere verso i caduti.
Rispetto a "A come Srebrenica" che tipo di esperienza è stata?
Un'esperienza bella, strana; in queste tragedie che mi è capitato di affrontate da Srebrenica a Chernobyl, capisci che le vittime che periscono, cadono per darci una prospettiva, un domani, un progetto, hanno un dolore che è comune, come dire, che è simile in tutti. Nelle storie dei partigiani ho trovato i racconti della Aleksevic, dei profughi; questo dolore comune, c’è la tragedia comune e la resistenza che è la speranza. Il mio lavoro poi guarda all’umanità, vai a sondare dei territori che per riflesso, rimbalzo, fanno da compendio l’uno con l'altro, rileggi diversamente il tuo lavoro di ieri alla luce di quello che scopri oggi. Un giorno ascoltando un partigiano mi sembrava di sentire un profugo di dieci anni fa in Bosnia.
Parlami di questo tuo impegno oltre il teatro.
Franco Sprega che è uno storico dunque esterno al teatro, scevro, completamente avulso dal mondo teatrale, alla fine della prima dello spettacolo a Carpaneto al momento del dibattito ha detto: “La Roberta ha fatto una cosa bella, è venuta con me da loro, e poi è andata a trovarli anche dopo, si è ricordata di loro, ha telefonato a tutti, ha costruito con loro un rapporto; se questo è il teatro allora è interessante”. Per me questo deve essere il valore del teatro. Finito il lavoro ti deve rimanere qualcosa. Tu fai sacrifici, ascolti storie drammatiche ma poi devi andare avanti, oltre, non c'è solo lo spettacolo, non puoi fermarti, devi fare uno scambio. Uno scambio che è necessario io dico, per non morire. In effetti io mi appassiono, torno là sui luoghi di questi drammi, e loro i bosniaci, mi vengono a trovare nelle Marche; si aspettano da te delle cose, ti vivono come un tramite e non puoi tradirli..
La Storia di Resistenti è quella di un mondo che ancora c’è bisogno di raccontare. Non si tratta di fare memoria. Questa è una moda, non mi interessa, tutti possono farlo perché è politicamente corretto. Io voglio fare un teatro dove mi pongo come narratrice: racconto queste storie vere ma attraverso una finzione che è quella del teatro. L’attore da solo in scena che parla non mi interessa, bisogna restituire al teatro il suo naturale artificio.
Dopo Srebrenica un viaggio per il decennale per girare un documentario
Abbiamo partecipato alle commemorazioni, alcuni di noi hanno preso parte alla marcia di vari giorni da Tuzla a Srebrenica, facendo il percorso inverso dei musulmani che scappavano dall'eccidio
Il documentario parte dal testo di Srebrenica per arrivare al decennale del massacro e dare maggiore fruibilità allo spettacolo. E' come il teatro può diventare altro, diventare film appunto, Luca Rastrello è venuto con noi a Potociari dove c'è il memoriale, allestito nel luogo dove sono sepolti dei musulmani riesumati dalle fosse comuni, siamo andati al campo sportivo dove c’era il campo di concentramento, alla sede dei soldati dell’Onu, luogo emblematico perché ci sono ancora tracce dei passaggi dei Caschi blu che hanno avuto responsabilità nel massacro: loro sono stati lì con obbligo di non intervenire. Ci sono oscenità disegnate sui muri, attacchi orrendi e violenti scritti contro la popolazione. Questa struttura diventerà un museo di tutti i caduti di Srebrenica. Abbiamo scelto delle aree, della fabbriche, dei luoghi all'aperto e abbiamo ambientato là dei pezzi dello spettacolo come fosse un film. Una fiction del teatro. Questo costituisce la parte narrativa dello spettacolo; abbiamo poi aggiunto interviste a gente in quel pezzo della Bosnia Erzegovnia. Il titolo dovrebbe essere Srebrenica: dieci anni dopo oppure Voci dall’oblio.
Abbiamo raccontato la storia di qualcuno che è tornato, come Dule, un ristoratore che ha aperto un albergo e ristorante, quella dell’allenatore di calcio e dell’imam di Srebrenica; abbiamo raccontato cosa accade in città, una mostra d’arte, quel minimo di cose che ripartono con molta difficoltà di vita quotidiana: ogni organizzazione non governativa qua inizia progetti ma le condizioni sono difficili e spesso rinunciano. Una cosa che colpisce è che i giovani non ci sono quasi più.
Questi progetti teatrali di Babelia occupano spesso posti insoliti, Festival della letteratura, sedi di Associazioni o ambiti comunque poco frequentati dagli addetti ai lavori teatrali. E' questa la vostra fortuna, uscire dal circuito ormai semideserto della ricerca vera e propria?
I luoghi di cui tu parli possono dare una misura alla gente di come uno spettacolo può fare da catalizzatore di un pubblico trasversale, diverso; se il pubblico teatrale non esiste più, allora bisogna creare un altro pubblico. Un pubblico che potenzialmente c’è; la gente ha casomai un preconcetto rispetto al teatro: spesso si sente inadeguato; ma è l’argomento che muove la gente, è il tema. Nell’associazionismo il pubblico esiste ed è numeroso, va solo ricomposto. Il teatro che c'è intorno certamente non aiuta, è fatto come un ipermercato per cui nel tuo piccolo cerchi di fare una politica di tutt'altro genere. A volte bisogna sgusciare fuori per sopravvivere. A come Srebrenica ci ha aperto un mondo di associazionismo trasversale legato ai Balcani che non conoscevo: Casa per la pace, Le donne in nero, Macondo 3. Trasversale, ma molto frequentato.
Del resto, c'è chi si vuole impegnare o chi vuole vedere il mondo dalla parte di Zelig.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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