ateatro 87.52 Una lettera ad Andrea Balzola Ancora su 'U Gioia di Mauro Aprile di Fernando Mastropasqua
Caro Andrea,
del tuo interessante intervento sul film ‘U Gioia di Mauro Aprile ho apprezzato in particolar modo l’espressione “sguardo antropoetico”. Ed è seguendo le direzioni verso cui spinge la tua definizione che aggiungo, per quel che valgono, alcune mie considerazioni.
Aprile ha rivolto lo sguardo a un particolare avvenimento, che accade e riaccade nel suo paese, ma, invece di considerarlo nella sua circoscritta realtà, lo ha dilatato inconsuetamente fino a comprendere l’orizzonte di gran parte dell’avanguardia artistica del Novecento. Ha inserito citazioni per affermare che molti sono i luoghi in cui il senso nascosto dell’evento si ripete o si completa, ma pinocchiescamente rovescia a volte la gravità in beffa: nel mentre infonde un altrove nel Gioia immediatamente lo risputa per farne ponte verso altro. Quanto più la citazione può apparire appropriata, Bufalino per esempio, tanto più essa deflagra verso altri mondi, apparentemente incoerenti a uno sguardo superficiale, e se ne ammanta per restituire una visione, mai pensata, pertinente alla realtà contingente, appena sconfessata, in un continuo e vertiginoso détournement situazionista. Chi accusasse questo film di non documentare la festa, avrebbe ragione, e insieme torto, perché la verità della festa non sta nel suo apparire ma nel suo scomparire verso un’altra resurrezione. Quale modo migliore di parlare della Pasqua? Giocare fra il basso e l’alto non è cosa nuova nella nostra cultura, ma il senso nuovo che sperimenta Aprile è dovuto al contesto (la festa - il Gioia) rispetto al tempo presente che la statua del Cristo in bilico attraversa in perenne tentazione di caduta, cui fa da contrappeso la titanica volontà di stravolgerla in trionfale raddrizzamento. Gioia contro Fatica, che non è diversa da quella quotidiana, la vita faticata, e, per i macellai, la morte faticata, il massacro di innocenti animali per garantire una fettina di proteine nel piatto dei ricchi. Se questo è legittimo, perché non dovrebbe esserlo anche la carneficina di altri innocenti per garantire nelle automobiline della giostra dei ricchi un pieno di benzina? Se posso approfittare del gioco delle citazioni per avanzarne una fuori d’opera, mi viene in mente il racconto di Isaac Singer Lo scannatore rituale, in cui il rabbino addetto alla macellazione arriva a tal punto di orrore per il proprio “sacro” ufficio, “Quando si scanna una creatura, si scanna Dio”, che maledice il dio che reclama tale scempio e si suicida. Contro la smania, che ha colpito anche alcuni promettenti registi, di aderire alla diffusa dottrina che ogni zolla è una cultura, che ogni pur vaga rimembranza di dialetto è alterità in abbandono, devastazione di anime (ma non sono bastati Vitelloni e Basilischi?), Aprile apre un diverso sguardo sull’altro confinato nella sua festa paesana, rompendo il chiuso orizzonte del folklore per parlare di dolore, ferocia, estasi, teatro, rigenerazione, al di là della gabbia dell’opera d’arte, della poesia autografa, della perversa idea dell’unicità del genio. Una intera collettività inconsapevole di ciò che fa, tranne che di esistere per quello che fa, può dire: Io sono Shakespeare, ma senza snobistica ironia. Perché non è vero che ogni zolla è una cultura ma la cultura è in ogni zolla, in ogni piccolo grande pensiero che attraversa obliquamente la nostra mente rischiando di perdere l’equilibrio e di cadere in oblio se una qualche fatalità (la fatica di chi non rinuncia, di chi accetta la vita faticata, poeta o macellaio che sia) non intervenga ad impedirlo, a sostenere quell’oscillante pensiero perché riprenda la sua folle corsa obliqua. Ed all’arte pertiene la fatica di sostenere il peso di quel vertiginoso masso in caduta e di farlo ogni volta riemergere e risalire fino alla sommità da cui è precipitato. Sarebbe bene togliere le firme dai capi di moda ma anche dalle opere d’arte. Poeta è colui che si confonde con gli anonimi uccèri (i macellai che portano il Gioia in spalla) e impedisce il tracollo di quella gioia traballante che ci sovrasta e ci dà senso. E nel farlo perde il nome. Una presenza inattuale, dato che oggi, tra i molti macabri aneddoti che costellano la nostra insensata esistenza, annebbiata da sbornie televisive più che da estasi, si può, pagando profumatamente, vendere il proprio nome perché sia inserito da Stephen King in un romanzo dove un personaggio subirà il mercantesco battesimo; ed è il Gioia un’opera inattuale, che contrasta con rigore la deriva cui siamo destinati, l’omologia universale, consenziente - come pietoso tiranno - a che sia accordato a tutti gli universalmente uguali di rivendicare il proprio assoluto per radici effimere che non affondano neanche un millimetro sotto la terra che incuranti quei cloni calpestano. Così graziose quanto sconsiderate ragazzine ballano tarante nel Salento dimenticando il dolore, la violenza, la rabbia, la sessualità, i desideri repressi, il fetore delle loro sgraziate bisnonne. Radici nella sabbia!
‘U Gioia che parla del dolore non alimenta infettate radici locali: Scicli è un crogiolo di forme e di voci. Sono quelle stesse che hanno dato dignità a quel secolo di orrori, preparatore di futuri orrori, che è stato il Novecento, Scicli è l’universo mondo. Aprile scongiura gli equivoci a cui ha dato luogo la ricerca popolare dagli anni’50 in poi, solleva la festa oltre il confine della tradizione folklorica, non la recinge nel cantone di espressione di ceti incolti cui non sarà mai riconosciuto lo status di poesia, né la esalta come autentica voce del popolo che racconta una visione alternativa del vivere sociale come tanti ricercatori negli anni ’70 hanno creduto, ma la pone nello stesso vortice che ha prodotto il pensiero più libero e rivoluzionario dell’arte, da Benjamin a Nietzsche, da Bacon a Bene, da Deleuze a Debord. Un urlo che è anche una malattia, una insania che non ha mai cambiato il mondo, che è incurabile quanto impotente. Di tale insania ha tutti i pregi, ma anche i difetti, vive negli stessi limiti che profetizza il muto Grido di Munch. Per questo, Andrea, la tua definizione risulta tanto calzante: uno sguardo antropoetico perché ha coscienza della finitezza dell’uomo e della infinitezza del suo dolore.
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