ateatro 87.12 La rinascita della tragedia? Dionysus Since 69. Greek Tragedy at the Dawn of the Third Millennium, a cura di Edith Hall, Fiona Macintosh e Amanda Wringley di Oliviero Ponte di Pino Era il 1968. In un garage di New York un gruppo di giovani
attori diretti da Richard Schechner portò in scena un allestimento
innovativo e provocatorio di un testo vecchio di duemilacinquecento anni,
Le Baccanti di Euripide. Lo spettacolo debuttò il 6 giugno. La sera
prima era stato assassinato Robert Kennedy, gli americani combattevano in
Vietnam. A San Francisco si radunavano i Figli dei Fiori, da qualche
settimana Parigi era infiammata da una rivolta studentesca che si sarebbe
diffusa nel mondo intero. Alla fine dell’anno una capsula spaziale con un
nome mitologico, Apollo 9, sarebbe partita per compiere la prima orbita
intorno alla Luna. Quello spettacolo fu uno scandalo, fin dalla chiara
allusione sessuale del titolo, Dionysus in 69, un successo
replicato per un anno e mezzo (e un work in progress in continua
evoluzione), una messinscena destinata a segnare la storia del teatro di
quegli anni. Di più, quell’allestimento avrebbe anticipato una ripresa
d’interesse per la tragedia greca a cavallo di due millenni, tanto da
fornire oggi, trentacinque anni più tardi, lo spunto – grazie alle cure di
Edith Hall, Fiona Macintosh e Amanda Wringley – per un volume di quasi 500
pagine sui moderni allestimenti della tragedia greca, Dionysus Since
69. Greek Tragedy at the Dawn of the Third Millennium, ovvero
Dioniso dopo il 69. La tragedia greca all’alba del terzo millennio
(Oxford University Press, 2004).
La locandina di I gladiatori dell'anno 3000 (1977), regia di Allan Arkush e Henry Suso.
“La crisi
della società americana che stava dividendo i falchi dalle colombe, i
giovani dai vecchi, i cappelloni da queli con i capelli corti, i profeti
della liberazione sessuale e psichica dai moralisti conservatori, trovò
un’espressione teatrale eccitante e lucida nell’esplosione dionisiaca che
aveva luogo ogni notte nel Performing Garage, un ampio spazio nel downtown
di New York.” (p. 1)
La locandina di Totò contro Maciste (1961), regia di Fernando Cerchio.
Da allora (senza però dimenticare
un precedente come l’Antigone di Brecht nella traduzione di Judith
Malina, che il Living Theatre aveva presentato nel 1967), le
rappresentazioni delle tragedie greche – che prima di allora si erano rare
ed episodiche - si sarebbero moltiplicate sui palcoscenici di tutto il
mondo: secondo le tre curatrici, “sono più numerose le tragedie greche
portate in scena in questi trent’anni che in tutte le altre epoche della
storia, dai tempi dell’antichità greco-romana” (p. 2).
La locandina di L'ira di Achille (1962), regia di Marino Girolami.
Negli ultimi
trent’anni, nei cinque continenti e in centinaia di lingue, con obiettivi
e stili diversissimi, tra un Dioniso con i dreadlock e un Giasone
irrimediabilmente gay, un Filottete con l’Aids e una Clitemnestra en
travesti che sgozza il suo Agamennone nella vasca da bagno,
“il mondo mitico, disfunzionale,
conflittuale descritto dai drammi archetipici di Eschilo, Sofocle ed
Euripide è diventato uno dei principali prismi estetici e culturali in cui
il mondo reale, disfunzionale, conflittuale della fine del
Ventesimo e dell’inizio del Ventunesimo secolo ha cercato di vedere
riflessa la propria immagine.” (ibid.)
La locandina di Il colosso di Rodi (1961), regia di Sergio Leone.
Insomma, la domanda che sottende Dionysus Since
69 è “perché la tragedia greca ha avuto tanto successo in
questi decenni?” (p. 5) Partendo da una minuziosa ricostruzione della
messinscena di Schechner, affidata a una testimone di quello
spettacolo-evento, Froma I. Zeitlin, il volume cerca di analizzare i
motivi di questo recupero, con una ricognizione ad ampio raggio che si
appoggia al lavoro svolto negli ultimi anni dall’Archive of Performances on
Greek and Roman Drama di Oxford. Nell’impostazione del volume, i
filoni lungo i quali si articolano le moderne letture dei testi di
Eschilo, Sofocle ed Euripide coincidono dunque con le ragioni della loro
attualità e le esplicitano. Dionysus Since 69 è così scandito in
quattro grandi aree di ricerca, “quattro ampie categorie (che sono
tuttavia strettamente intrecciate): sociali, politiche, teatrali e
mentali” (p. 9).
La locandina di La regina delle Amazzoni (1960), regia di Vittorio Sala.
Il primo blocco riguarda Dioniso e la guerra dei
sessi: “‘il personale è politico’ (…) potrebbe essere una delle
possibili descrizioni della tragedia greca, dove vicende individuali,
intime, domestiche di conflitti sessuali, parentali e di potere vengono
narrate nella prospettiva collettiva, comune, politica della società in
cui vive la famiglia tragica” (p. 10).
La locandina di Le guerriere dal seno nudo. Le amazzoni di Terence Young (1974), regia di Terence Young.
Ecco dunque – dopo la ricostruzione
dello spettacolo di Schechner - due saggi che contrappongono
l’esplorazione della femminilità attraverso le moderne incarnazioni delle
“Bad Girls” attiche (a cura di Helen Foley) alla riflessione critica
sull’immagine maschile (l’“Ercole decostruito” di Kathleen Riley).
La locandina di Xena and Hercules (1998), regia di Lynne Naylor.
A
seguire, il Dioniso politico: “la tragedia greca è nata in una fase
di transizione politica, ovvero con l’emergere dei primi segni di una
rivoluzione democratica nell’Atene della fine del Sesto secolo (…) La fine
del Ventesimo secolo ha risvegliato il suo impatto politico” (p. 18).
La locandina di Spartacus (1961), regia di Stanley Kubrick.
In
questa chiave Oliver Taplin, partendo dalla situazione emblematica
dell’Irlanda del Nord, si concentra sulla riscrittura del Filottete
da parte di Seamus Heaney, The Cure at Troy. Edith Hall misura
il rapporto con l’attualità geopolitica dei Persiani di Peter
Sellars (1993) (secondo il quale la tragedia greca ci permette di dire
quello che altrimenti sarebbe indicibile, di rappresentare
l’irrappresentabile), e del Prometeo di Tony Harrison (1998).
La locandina di Edipo Re (1967), regia di Pier Paolo Pasolini.
Pantelis Michelakis traccia una rapida panoramica sulla cinematografia, a
cominciare ovviamente da Edipo Re (1967) e Medea (1969) di un apripista come Pasolini, ma arriva fino al
Teatro di guerra di Martone (1998) – senza naturalmente dimenticare
il documentario che il giovanissimo Brian De Palma dedicò proprio al
Dionysus in 69 di Schechner.
La locandina di Medea (1969), regia di Pier Paolo Pasolini.
Lorna Hardwick affronta il nodo
dell’anti- e post-colonialismo, con particolare attenzione alle
reinvenzioni caraibiche di Derek Walcott e alle esperienze africane:
“la tragedia greca si è rivelata un terreno
fertile per esplorare le differenze culturali (…) in tutte le tragedie
greche s’incontrano, in pratica, personaggi che vengono dai diversi stati
della Grecia – tebani, ateniesi, argivi, tessali, cretesi – ma è anche
sorprendente che la metà circa di questi testi mostrino dei greci che
interagiscono con individui o gruppi (spesso il coro) di etnie e lingue
diverse.” (p. 23)
La locandina di Maciste nell'inferno di Gengis Kahn (1964), regia di Domenico Paolella.
La terza sezione è dedicata
all’estetica della performance. Del resto il confronto con la tragedia
greca – ovvero con l’origine del teatro – è alla radice di alcune delle
moderne rivoluzioni teatrali. In un momento in cui si rifiutava il “teatro
di parola” per ritrovare sulla scena la forza espressiva e comunicativa,
il ritorno all’origine era un passaggio pressoché obbligato: esemplare, in
questo senso, un unicum come l’Antikenprojekt nelle due serate di
Peter Stein e Klaus Michael Grüber alla Schaubühne di Berlino nel 1972, di
cui parla Erika Fischer-Lichte. Si esplora in primo luogo il recupero
della maschera: se ne occupa David Wiles; mentre la riflessione sul coro,
un problema altrettanto e forse ancor più centrale nelle messinscene
moderne, è confinata alla riflessione di Erika Fischer-Lichte sulle regie
di Einar Schleef.
La locandina di La vendetta di Ercole (1960), regia di Vittorio Cottafavi.
Al centro dell’analisi di Katharine Worth c’è invece
l’influenza della tragedia greca sulla drammaturgia contemporanea, a
cominciare da Beckett, ma con un risvolto interessante: per molti registi,
tra cui Tadashi Suzuki e JoAnn Akalaitis, proprio Beckett è stata la
chiave per arrivare – dopo – alla tragedia greca. L’uso che la
musica contemporanea, in particolare il teatro lirico, ha fatto dei miti
greci è invece oggetto della compilazione di Peter Brown.
La locandina di Ercole e la regina di Lidia (1959), regia di Piero Francisci.
Infine, gli
aspetti psicologico-mentali, affrontatati da Fiona Macintosh (con
un’analisi dell’Edipo anti-freudiano di Steven Berkoff in Alla
greca), Erika Fischer-Lichte e Timberlake Wertenbaker.
“Il nostro inconscio è nascosto, i greci lo sapevano e
hanno fatto teatro proprio con la parte nascosta di noi stessi (…) il
recente successo della tragedia greca non dipende da particolari
evoluzioni della società o politica o del teatro della fine del Ventesimo
secolo; dipende invece dalle ‘parti nascoste di noi stessi’, dalle
evoluzioni psicologiche, intellettuali ed emotive della coscienza alla
fine del Ventesimo secolo.” (p. 36)
La locandina di Saffo, Venere di Lesbo (1960), regia di Piero Francisci.
Non è un caso che,
dopo Freud e Jung, molti teorici del post-moderno (Derrida, Foucault,
Barthes, Lyotard, Jameson, ma anche teoriche del femminismo come Kate
Millet e Germaine Greer, cui andrebbero aggiunti almeno i Deleuze e
Guattari dell’Anti-Edipo) abbiano trovato nella tragedia greca
materiali, suggestioni e metafore. Del resto, la riflessione sulla
distruzione (o l’indebolimento) della soggettività e sull’instabilità
della coscienza individuale trova nei personaggi tragici ampie e variegate
esemplificazioni.
La locandina di Elena di Troia (1955), regia di Robert Wise.
Di più, pensando alla parabola di molte eroine
tragiche, la drammaturga Timberlake Wertenbaker fa notare una differenza
sottile ma fondamentale rispetto ai maschi:
“gli uomini affermano di arrivare alla consapevolezza di
sé, di capire perché hanno fatto quello che hanno fatto, di aver appreso
da questa esperienza, e di essere in grado di compiere azioni fondate su
una ragione che nasce dall’esperienza. Le donne, per esempio Ecuba,
si
sentono prima di
conoscersi, e agiscono senza fare appello a una consapevolezza di sé – né
mentre agiscono né a posteriori.” (p. 45)
La locandina di La guerra di Troia (1961), regia di Giorgio Ferroni.
In un’epoca
in cui le certezze della ragione illuministica vacillano, minate dagli
orrori della storia, queste figure femminili “non ci insegnano a Conoscere
Noi Stessi, ma ad essere umili di fronte all’Inconoscibile, come è giusto”
(ibid.).
La locandina di Gli ultimi giorni di Pompei (1959), regia di Mario Bonnard.
Di fronte a un’impresa di questo genere, che
raccoglie le voci di una dozzina di studiosi di area angloamericana e
tedesca, non si può certo pretendere la completezza, anche perché la
quantità di informazioni contenuta nel volume resta in ogni caso notevole.
Sarebbe fin troppo facile notare quanto siano scarsi, per esempio, i
riferimenti alle stagioni di teatro classico di Segesta e Siracusa (con
l’INDA, fin dagli anni Trenta) ed Epidauro (anche se è interessante
l’accenno di David Wiles alla pionieristica attività di Eva
Palmer-Sikelianos a Delfi alla fine degli anni Venti).
La locandina di La caduta dell'impero romano ((1964), regia di Anthony Mann.
Nella teatrografia
finale, compilata da Amanda Wringley, manca per esempio qualunque accenno
alle memorabili Troiane di Thierry Salmon, e allo stesso modo viene
appena citata un’altra messinscena in greco antico, quella
dell’Orestea del rumeno Andrei Serban. Allo stesso modo, per
limitarsi alle vicende italiane, Massimo Castri (con il suo lavoro di
ampio respiro sul ciclo di Eracle) non è presente neppure nell’indice dei
nomi; e di Luca Ronconi non si cita l’epocale Orestea – si
ricordano piuttosto la sua Fedra da Seneca e, in una nota, la
censura berlusconiana alla scenografia delle Rane a Siracusa. Ma
quello del “chi c’è e chi manca” è un gioco troppo banale, e in definitiva
inutile. Il vero nodo è invece un altro: come si legge
nell’introduzione, “l’aspetto più significativo di questa impresa consiste
nel disegnare i rapporti con i programmi sociali, estetici ed
intellettuali dei registi e con le società in cui operano” (p. 5).
La locandina di Troy (2004), regia di Wolfgang Petersen.
Insomma, si tratta di trovare le chiavi in base alle quali possiamo
affermare che i greci sono nostri contemporanei - per parafrasare il
titolo della celebre raccolta di saggi shakespeariani di Jan Kott, che
alla tragedia greca sulla stessa falsariga ha poi dedicato un altro libro
fortunato, Mangiare dio. Pochi anni prima che andasse in scena
Dionusus in 69 di Schechner, George Steiner aveva pubblicato
Morte della tragedia (seguito qualche anno dopo da Le
Antigoni, rivisitazione delle diverse e contrastanti letture del testo
di Sofocle attraverso i secoli, fino allo spettacolo del Living Theatre:
un saggio che ha segnato la storiografia dello spettacolo, e di cui questo
stesso volume è obliquamente debitore). Tesi di fondo della carrellata di
Steiner attraverso duemilacinquecento anni di drammaturgia era che il
senso tragico dei greci fosse per noi moderni irrimediabilmente perduto,
irrecuperabile.
La locandina di Alexander (2004), regia di Oliver Stone.
La domanda che i brillanti e informati saggi di
Dionysus Since 69 non si fanno – e forse non possono farsi, ma
sfiorano continuamente – è proprio questa: al di là delle mille possibili
attualizzazioni e interpretazioni, contaminazioni e parodie, al di là
dell’uso di un patrimonio condiviso di trame e di personaggi, in questi
ultimi decenni è stato in qualche modo possibile trascendere il dramma
(ovvero il discendente depotenziato della tragedia), e invece recuperare e
trasmettere sulla scena contemporanea l’autentico senso tragico? E se
questo è accaduto, se questo può accadere, che cosa nella nostra
sensibilità e visione del mondo ci accomuna agli antichi greci e ci rende
diversi dai nostri immediati predecessori?
La locandina di Ulisse (1954), regia di Mario Camerini.
Altrimenti la tragedia greca si
riduce a un repertorio di classici, più o meno belli, più o meno
inoffensivi, da usare come pretesti per obiettivi e scopi totalmente
“nostri”, attuali, utilitaristici (che poi si tratti di obiettivi politici
o turistici, a questi punto poco importa). Una risposta, da intrecciare
magari con il declino della soggettività cui si accennava, viene forse
suggerita verso la fine dell’introduzione:
“dipingendo un universo retto da una moltitudine di
divinità pagane in cui oggi nessuno crede più, la tragedia greca può
offrire uno spazio importante, libero dalle specificità culturali del
presente, per riflettere su questioni metafisiche e (nel senso più ampio
del termine) teologiche – le domande tragiche ‘cruciali’ del bene e del
male, il ruolo dell’umanità nell’universo e il suo rapporto con le forze
inconoscibili che lo plasmano – soprattutto nel mondo attuale,
frammentato, multiculturale (e, almeno in Europa occidentale,
post-cristiano).” (p. 45)
Come se, archiviata la morte
di Dio, lo spirito tragico potesse in qualche modo tornare a soffiare.
La locandina di Hercules (1997), regia di John Musker e Ron Clements.
Tuttavia un interrogativo del genere non può essere l’argomento per
una raccolta panoramica di saggi di studiosi di teatro. Dovrebbe piuttosto
essere il tema del libro di un filosofo. Anche se proprio questo è il nodo
intorno a cui lavora un altro dei gruppi che questo Dionysus Since
69 non cita, la Societas Raffaello Sanzio, che nel corso degli anni ha
condotto una ossessiva e coerente riflessione sul tema dell’impossibilità
del tragico, dal Gilgamesh alla fondamentale Orestea, dalla
Genesi alla Tragedia endogonidia.
La locandina di Ulisse contro Ercole (1963), regia di Mario Caiano.
Altri saggi recenti affrontano, da angolature e con
ambizioni diverse, temi analoghi. I testi di una pioniera del
settore, Marianne McDonald, L’arte vivente della tragedia greca
(traduzione di Francesca Albini, con il saggio L’arte vivente della
tragedia greca in Italia di Umberto Albini, Le Monnier Università,
Firenze, 2004, 248 pp., 17,50 euro), lo fa in maniera più spigliata, visto
anche l’obiettivo del volume: “una breve introduzione che fornisca una
visione d’insieme bilanciata, in cui siano affrontate adeguatamente sia la
rappresentazione sia l’analisi filologica”. Il saggio comprende dunque una
serie di schede sui tre tragici greci e su ciascuno dei loro testi, con un
breve riassunto e alcuni appunti sulle messinscene moderne principali
(integrate per quanto riguarda l’Italia nell’appendice di Umberto Albini).
Dello stesso Albini, che all’attualità dei tragici greci e di
Aristofane ha dedicato numerosi saggi, si veda anche il recente Maschere
impure, ovvero, come recita il sottotitolo, Spettri, assassini,
amori e mierie nei drammi greci (Garzanti Libri, Milano, 2005, 194 pp,
13 euro).
La locandina di Gli invincibili fratelli Maciste (1965), regia di Roberto Mauri.
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