ateatro 87.11 Il corpo all'attacco Dalla Biennale Danza 2005 di Fernando Marchiori
Più che nelle due precedenti edizioni, dirette rispettivamente da Frédéric Flamand e da Karole Armitage, la Biennale Danza ha trovato nel tema scelto quest’anno da Ismael Ivo – Body attack – un filo conduttore e un motivo di riflessione che, aldilà della discontinuità degli esiti spettacolari, ha spostato il fulcro del giovane festival veneziano dalla ricerca autoreferenziale e dai pretesi universalismi (Abcd, la grammatica universale del corpo, era il titolo l’anno scorso) a un confronto con questioni all’altezza di un presente che non lascia indifferente neanche la danza. Corpo attaccato, che attaccca, che è parte in gioco. In tempi in cui i corpi si fanno saltare in aria, vengono venduti e violati, clonati, dematerializzati nei monitor, essi non smettono di “pensare”, sentire, reagire, ricordare.
Ecco allora danzatori e coreografi interrogarsi, verificando a un tempo la tenuta formale e la precisione semantica del loro linguaggio, sulle possibilità di espressione nel corpo scenico di questa intelligenza differente. Per esempio cogliendo i frammenti di vita di sei performer iraniane chiuse per tutto lo spettacolo dentro delle tende, come accade in Letters from Tentland.
Sono le piccole tende che in Iran si trovano ovunque, ai bordi delle strade, sulle spiagge, nelle città: abitazioni, riparo per il tempo libero, separè per le donne – tenda, per estensione, indica in alcuni paesi musulmani la donna col burqa. È l’idea della coreografa berlinese Helena Walden, che quelle tende ha fatto girare e saltare in scena, trasformandole in pupazzi, in foglie portate dal vento, in buste di lettere che non riusciremo a leggere. A meno di non raggiungere sul palco le sei ragazze alla fine dello spettacolo per prendere insieme un tè e vedere come si vive dentro il mondo a parte di Tentland (nome che sostituisce Teheran, per evitare la censura). Sono state invitate a farlo solo le donne tra il pubblico. E in centinaia, rispondendo all’appello, hanno iniziato quello scambio vero, quel contatto diretto che era senz’altro l’obiettivo dello spettacolo.
Più duro il lavoro di Ismael Ivo, che ha composto la sua coreografia su Eréndira di Gabriel García Marquez, storia di una ragazza costretta dalla nonna a prostituirsi. Con un gruppo di danzatori eterogeneo per formazione e per capacità, ma ugualmente coeso dal fitto disegno registico, e un’attrice brasiliana dalla presenza possente (Cleide Eunice Queiroz), Ivo ha attualizzato la pièce, moltiplicando la figura della protagonista e facendone una delle tante persone che scompaiono nelle città del mondo, una ragazza venduta, resa schiava del lavoro, della droga, del sesso.
Spiega il coreografo che “il circo viaggiante del personaggio della nonna disegnato da García Marquez è la processione della Persona non grata, o il terzo mondo svantaggiato, pieno di debiti, con l’anima in vendita”. L’energia di giovani corpi si scarica in un bordello sudamericano fatto di tralicci e nicchie, di teche che lasciano vedere amplessi e disperazione. Di grande forza soprattutto le prove di Pan Sun Kim e di Pichet Klunchum. A effetto la scena dello stupro, con il corpo di Eréndira segnato col rossetto nella bocca e nelle mani del partner che le danza intorno in una convulsione di membra. A questi giovani artisti Ivo ha chiesto come sempre di danzare il personaggio e allo stesso tempo “di esercitare la libertà di avere un’opinione su di esso”. Per fare ciò, i danzatori hanno trascorso un periodo nei quartieri popolari di São Paulo, tra le baracche delle vere Eréndire di oggi. Se ne vede qualche frammento nelle immagini proiettate verso la fine dello spettacolo, che è una particolare declinazione di teatro danza (Ivo, che è stato riconfermato alla direzione della Biennale Danza, lavora da molto tempo in Germania). Si conferma, insomma, il marcato impegno politico del coreografo e danzatore brasiliano: contro il razzismo, l’oppressione, le ingiustizie sociali. E insieme l’apertura al grande tema antropologico dell’altro ma affrontato, ancora una volta con le risorse interpretative dell’esperienza diretta, che passa appunto attraverso il corpo. Traducendo in performance i concetti di antropofagia e di cannibalismo culturale (in voga a Säo Paulo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta), Ivo ha sviluppato negli anni una figura base della sua danza, e un’idea attiva in molti suoi spettacoli: “Mangiare le parole e trasformale in movimento”, come spiega lui stesso nell’intensa conversazione raccolta da Johannes Odenthal e pubblicata in un bel volumetto della collana “danceforword” (curata per l’editrice L’Epos di Palermo da Susanne Franco). Fagocitare le altre culture, assumere l’altro nel proprio corpo. Una pratica della trasformazione più che di meticciato: anche questo è il corpo.
La Compagnie Marie Chouinard ha presentato invece in prima assoluta Body remix Goldberg variations. La formazione canadese ha mostrato come si possa danzare l’interno del corpo, auscultarlo amplificandone il respiro e i gemiti (tutto lo spazio scenico è amplificato, e addirittura una danzatrice tiene per un’intera scena un microfono in bocca), oppure percorrerne le pieghe per cercare di rivelare lo scorrimento interno, viscerale del movimento. Sono soprattutto la forzatura, l’ostacolo, la protesi a rendere più visibile (più “esterno”) l’impulso, l’origine del movimento. Seguendo (lasciandosi seguire) il partner, assecondando i suoi spasmi o servendo il suo passaggio aereo, imbracato a un cavo di carrucola, si danza il corpo altrui, l’altro corpo. Esasperando l’idea di limite si cercano le condizioni che risveglino l’intelligenza segreta del corpo nell’inventare alternative, nel praticare soluzioni diverse. Sezionando e ricomponendo i movimenti si creano ibridi dalla funzionalità ridotta, artificiali ripartizioni di gravità, figure teriomorfe di sorprendente eleganza. I passi lunghi delle danzatrici con una sola scarpetta su cui puntare l’andatura sbilenca, le evoluzioni su una gamba e due stampelle, le due danzatrici siamesi che avanzano come un solo volatile, la gamba destra dell’una legata alla gamba sinistra dell’altra. Stampelle, aste, corde, girelli, imbracature, costringono e liberano a un tempo le evoluzioni dei dieci danzatori che rispondono con millimetrica precisione al rigore compositivo della Chouinard. Le restrizioni sembrano potenziare la scrittura corporea alla stregua del lipogramma (la soppressione di una lettera) nelle sperimentazioni letterarie praticate da Georges Perec.
Così la Chouinard riesce a trasformare impedimenti e mutilazioni, protesi o costrizioni in elementi generativi di inedite grammatiche corporee, ed è a tratti stranamente emozionante il volteggio con le grucce sulle Variazioni Goldberg interpretate da Glenn Gould, per quanto masticate (distorte, campionate) nel remix operato da Louis Dufort. Quando la voce del pianista doppia, sporcandolo, il contrappunto bachiano, manca forse un’equivalente drammaticità che rompa e renda più viva, più umana, la precisa, calibratissima, levigata ma fredda partitura coreografica. O il distacco è un modo per far passare senza moralismi la mancanza, lo sfregio, la differenza, la disabilità, la menomazione?
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© copyright ateatro 2001, 2010
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