ateatro 86.30 Passaggio in Iran: 22° Festival Internazionale di Teatro FADJR Teheran, 23 gennaio-2 febbraio 2004 Censura e censori nel teatro iraniano di Mimma Gallina
L’incontro e le considerazioni che seguono risalgono a un anno e mezzo fa circa. L’Iran ha appena vissuto il trauma del terremoto di Bam (che ha creato qualche ripercussione organizzativa anche sul festival) e è alla vigilia di una competizione elettorale molto importante: il presidente Kathami, che perderà le elezioni pochi giorni dopo, gioca con grande cautela e accortezza (è stato un politico di statura eccezionale) un braccio di ferro duro con le autorità religiose. L’argomento del contendere ha a che fare con la censura: il consiglio della rivoluzione ¬composto di religiosi - ha infatti per costituzione il compito di approvare le liste elettorali. Nessuno contesta questo ruolo, ma questa volta si sta un po’ esagerando: fra le epurazioni si contano personalità stimate e autorevolissime, fra cui un fratello dello stesso Kathami.
Tutte le persone che incontro - gente di teatro, interpreti, studenti/pubblico curiosi del contatto occidentale, portieri d’albergo - non parlano volentieri di politica, non partecipano neppure troppo a questo scontro (che a me sembra di importanza vitale per il paese) e di cui so dai quotidiani in inglese di Teheran. Ma parlare in genere non è facile, non capisco se e in che misura ci sono controlli (probabilmente sì, ma discreti), o se la cosa ha a che fare con la barriera tutt’altro che sottile della forma e dell’educazione: quel modo di fare spontaneamente cerimonioso - che ho verificato prima di partire organizzandomi una personale retrospettiva Kiarostami in video - per cui ci si saluta e risaluta in continuazione, ci si chiede come stai, non ci si tocca, si rispetta (gradevolmente) lo spazio reciproco, ma non si riesce a dire un gran che.
Lo stato della democrazia è decisamente un terreno minato, a Teheran riesco a scambiare solo poche battute con un interprete di spagnolo, meno controllato della media, e le sue conclusioni meritano una riflessione: in occidente la democrazia ha anche duecento anni e non potete certo dire che sia perfetta, da noi ne ha venti, dateci il tempo. E sul tempo, ¬rispondendo alla mia impazienza di ottenere informazioni, materiali, incontri eccetera - l’interprete personale di italiano che mi ha messo a disposizione il festival (molto giovane, molto bella e molto ignorante: ma ha studiato in Italia dove suo padre commercia in tappeti), mi traduce credo letteralmente e con disinvoltura milanese un proverbio assai istruttivo: “Se cerchi di organizzare il tempo, il tempo ti cagherà addosso”. Mi sembra troppo giovane per esserselo inventata apposta per me! Sto dimenticandomi che siamo in oriente, e la concezione del tempo è l’indicatore principale di differenza culturale.
La notte, all’una e mezza circa, una rete televisiva nazionale trasmette un lunghissimo e documentatissimo telegiornale in inglese: una buona metà delle notizie sono di provenienza americana e si soffermano su povertà, ingiustizie sociali, nefandezze di quel paese e di Bush in particolare (anche a partire dal recente discorso alla nazione e da non ricordo quale presa di posizione all’ONU), raccontate di prima mano da testimoni americani, per lo più professori universitari. L’immagine è quella di un occidente malsano e bugiardo, dove non mancano le presenze consapevoli e amiche. La sigla della trasmissione è un esaltazione delle conquiste del paese, dighe, ponti, bambine che sorridono e l’immancabile volto severamente paterno di Khomeini.
La democrazia è giovane certo, non esiste una sola possibile democrazia, ed è così giovane che sembra ancora un po’ totalitaria. Ma le nostre in fondo... Tasto meglio il polso del rapporto con l’occidente a Isfahan, una delle città più belle che abbia mai visto, turistica e dove molti parlano inglese.
I giovani come sempre numerosissimi sono meno abbottonati (ma anche i commercianti: trovo perfino una botteguccia ebraica dove mi raccontano dei rapporti non troppo tesi della striminzita comunità con il contesto islamico). Con l’incredibile gentilezza che mi sembra propria di una grande civiltà, più che di uno stato canaglia (come la cucina del resto!), ti abbordano e chiedono di tutto di più sull’Europa e sull’Italia, dove verrebbero volentieri a specializzarsi. Se c’è un fondo di disprezzo per l’occidente, mi sembra sia decisamente solo rivolto all’America (e a Israele, naturalmente).
La censura è normale, quindi. E’ parte della vita quotidiana: fruga nelle liste elettorali, indirizza il TG di propaganda per stranieri, detta l’abbigliamento delle donne e il comportamento anche degli uomini e, perché no, ha una sua funzione precisa anche in teatro. Ma sappiamo anche che la censura non si nega, si aggira.
Il festival di Fadjir è un po’ come la Biennale di Venezia, diviso in sezioni e molto più noto a livello internazionale per il cinema. Ma quello teatrale è in crescita, guidato dal giovane Majid Sharifkhodaie. Pensavo fosse un maturo burocrate, ma mi trovo di fronte un bell’uomo barbuto e corpulento sotto i quaranta, così normale che non mi ricordo che non devo dargli la mano (ovvero, me ne ricordo con la mano a metà strada, osservando i ritratti degli ajatollah appesi al muro). Il festival è internazionale, ma sono al 90% iraniani gli spettacoli che si succedono presso il City Theatre (una struttura circolare con una sala grande e almeno sei-sette sale oltre al piazzale antistante per gli spettacoli off off o di strada), il Teatro Nazionale, il Teatro dell’Università e le Moschee (con la sezione dedicata alle sacre rappresentazioni). In tutto sono circa un’ottantina le proposte in programma. Cerco di incontrare subito Sharifkhodaie per avere almeno qualche indicazione, per orientarmi, e un po’ a fatica (per la stessa difficoltà che avrebbe un direttore di festival da noi a dirti di vedere quello anziché quell’altro) ricavo comunque qualche linea guida e la segnalazione di tre/quattro gruppi da non perdere. La maggior parte sono di Teheran, ma non pochi dal resto dell’Iran. Sono teatri pubblici e gruppi sovvenzionati, a volte universitari, ma non hanno - salvo un paio di eccezioni - la dimensione ingombrante che si associa quasi sempre al teatro pubblico. Sembrerebbero gruppi del tutto indipendenti, anche per la presenza di giovani e giovanissimi. Anche il pubblico è giovanissimo, soprattutto studenti universitari, più numerose le donne.
Il pubblico del festival nei teatri.
Ragazzi e ragazze sono mediamente molto belli: le ragazze hanno elaborato variazioni sul tema del velo e del coprirsi che farebbero invidia a Prada. Mi spiegano che va di moda da un paio d’anni il “manto” attillato con zip: cioè l’importante è che copra, non che sia largo; le ragazze più ortodosse, con manto coprente e nero, si sbizzarriscono con stoffe, nere ma lavorate, molto belle (e sono decisamente le più eleganti), ma fra le altre non sono rari i veli colorati. Meno frequenti i colori girando per la città, fuori dall’ambiente teatrale e universitario. Qui il velo per la verità fa comodo anche a me (del resto ci si abitua presto), per filtrare un inquinamento che percepisco ben superiore a quello di Milano: la città è trafficatissima e con oltre 10 milioni di abitanti, i semafori non vengono osservati e attraversare la strada è un terno al lotto (anche per gli strani canaletti ai bordi in cui si rischia di cadere - un’informazione che avevo sottovalutato dalla guida Lonely Planet).
I murales degli ajatollah, del grande vecchio e dei (giovani) eroi della guerra contro l’Iraq danno al paesaggo urbano un look cino-sovietico anni Settanta.
Il bazar enorme e affollatissimo è come tutti i bazar, con un rispetto maggiore delle distanze, ma trattative all’ultimo sangue, come è giusto.
In questo paesaggio la moschea è un’isola riposante. Ma può diventare frenetica come una club jazz per le sacre rappresentazioni provenienti un po’ da tutto l’Iran: orchestrine degne del Buena Vista Social Club, cast rigorosamente maschili all’altezza dei Legnanesi, e pubblico in delirio. Uomini, donne e bambini seguono le note vicende di Giuseppe, Giacobbe eccetera (le storie infatti sono spesso quelle bibliche) e soprattutto il Martirio dell’Imam Mohammad. Invidio i colleghi tedeschi che - quasi col libretto di assegni in mano - stanno già comprando: o meglio mettendo a punto un progetto di documentazione di questo “genere”, la versione scita/iraniana della sacra rappresentazione, con presenze filmate e dal vivo a Berlino.
Il pubblico delle sacre rappresentazioni nelle moschee diviso nei due settori, maschile e femminile.
In confronto gli spettacoli di taglio occidentale sono piuttosto deludenti, spesso naïf, con interpretazione di tipo psicologico piuttosto convenzionali. Ma non mancano le eccezioni, naturalmente: qualche testo che sembra interessante e forse meriterebbe di essere tradotto, qualche attore notevole, qualche sprazzo di genialità nella regia (e spesso si tratta di elementi che hanno frequentato anche e le scene occidentali).
Le punte più sconcertanti sono nel balletto e nei musical, di taglio storico, con contaminazioni fra folklore e danza contemporanea e non infrequenti derive politico-propagandistiche (temo sia una maledizione di questo genere nei paesi - per semplificare - a democrazia imperfetta: occidentali e orientali, europei o asiatici).
Non mi pesano però i quattro-cinque spettacoli al giorno in lingua parsi, un po’ alla ricerca di lavori interessanti e nella speranza di imbattermi nel guizzo di genio, un po’ perchè prevale l’interesse sociologico (e ho sperimentato che non capendo le lingue si capiscono un sacco di cose che le parole non dicono).
A questo punto posso arrivare al mio censore, che è anche nella commissione che ha scelto gli spettacoli e mi offre molte chiavi di lettura sul complesso del festival.
Incontro Hossein Mosafer-Astaneh negli uffici del Fadjr.
Ma l’ho già incrociato spesso nei giorni precedenti e ormai ci conosciamo. E’venuto lui, che fra l’altro è il ¬capo della commissione censura - a supervisionare lo spettacolo italiano ospite, La tomba di Antigone da Maria Zambrano, con Patricia Zanco, regia Daniela Mattiuzzi. Fra alcuni spettacoli di qualità, disponibili a costo zero o quasi, sulla carta e su video, la scelta del festival è caduta su questo: una scelta decisamente aperta, Antigone è una donna ribelle e segregata (nel 2003 era stato ospitato Natura morta in un fosso di Fausto Paravidino, regia Serena Sinigaglia, con Fausto Russo Alesi, produzione ATIR: qui addirittura una vicenda di prostituzione, omicidio, incesto). Dove va a colpire allora la censura?
Nel caso di Antigone per Hossein il problema principale era trovare una soluzione teatralmente valida per coprire la testa calva di Patricia! Cioè la massima nudità possibile. Ci ha colpito molto la sua insistenza nel salvaguardare l’immagine originale delle spettacolo realizzando una calotta: Patricia ha poi optato per un turbante, ma è stato subito chiaro che la preoccupazione - ed è così con gli spettacoli occidentali in genere - è trovare un punto di incontro fra la morale locale e una visione artistica diversa, ma che deve essere preservate in uguale misura, con sostanziale rispetto. Nel caso di Natura morta, l’anno prima, Fausto aveva dovuto coprirsi nelle scene a torso nudo: nessun intervento sul tema o sulla lingua (peraltro il festival non prevede traduzioni simultanee ma solo materiale informativo cartaceo e a nessuno sarà arrivato il turpiloquio).
La tomba di Antigone con Patrizia Zanco in Iran: una prova per il censore.
Il controllo preventivo, in entrambi i casi, è stato accurato, con intere scene recitate solo per i censori (praticamente erano prove filate).
Per inciso, tutti e due gli spettacoli italiani hanno ottenuto un notevole successo e, a quanto so, anche le rare presenze degli anni precedenti. Del resto il regista occidentale più noto e di casa qui è l’italiano-tedesco Roberto Ciulli (che quest’anno presenta un Tito Andronico del suo Theater an der Ruhr), per cui c’è un culto pari a quello che noi riserviamo a Dodin o a Brook.
Hossein Mosafer è molto disponibile e quasi felice di confrontarsi sul tema della censura. Sa che noi diamo un significato negativo a questa pratica, che la consideriamo una limitazione della democrazia, e vuole spiegarmi.
Per le presenze straniere, si tratta di smussare i possibili elementi di attrito culturale (come abbiamo visto). Per quanto riguarda gli spettacoli iraniani, e soprattutto i gruppi giovani (il nostro censore per la verità ha poco più di quarant’anni, ma i giovani in Iran sono giovani davvero), più che di controllo preventivo il ruolo si configura quasi come una consulenza: si tratta di evitare in scena quei comportamenti, atteggiamenti eccetera, che potrebbero infastidire lo spettatore perchè contrari alla morale corrente e danneggiare conseguentemente lo spettacolo. Tutto quello che potrebbe in sostanza configurarsi come una provocazione inutile e gratuita (anche rispetto alle autorità religiose, certamente: e la censura “protegge” anche da possibili reazioni di queste ultimi i giovani potenzialmente avventati).
La strana coppia all'iraniana, ovvero Neil Simon in chador.
La censura non si esercita sui contenuti, politici ad esempio, ma sul comportamento, sulla “morale” (potremmo dire sul “comune senso del pudore”: in fondo da noi questo tipo di censura è cessata meno di trent’anni fa: se ce la immaginiamo con il faccione di Alberto Sordi, non per questo era meno clericale e oscurantista).
Ci sono leggi di riferimento, regole precise per sapere cosa è permesso e cosa no? Ci sono e non ci sono (e sono legate ovviamente all’interpretazione del Corano), la discrezionalità è ampia e a maggior ragione il ruolo è delicato.
Faccio notare al mio nuovo amico che portare in scena uomini e donne che parlano di vicende private, di famiglia, d’amore, sempre vestitissimi e senza mai toccarsi, non è una limitazione da poco: configura uno stile (una drammaturgia, un’interpretazione), appiattita su questi stereotipi, limita non poco l’espressione (provate a immaginarvi uno spettacolo italiano dove gli attori non si toccano MAI! Un uomo e una donna si parlano spesso anzi a qualche metro di distanza, il che è del resto più espressivo e teatralmente efficace che la vicinanza stretta senza contatto).
Ma questo, mi ribatte, è il limite che il gusto e la morale implicano: andare oltre ferirebbe i sentimenti comuni, e finirebbe solo per danneggiare il teatro.
Parliamo di uno spettacolo che ho visto, di taglio sperimentale/occidentale anni Settanta (purtroppo le foto non sono riuscite). In scena una povera attrice vestitissima e con tanto di velo e il suo compagno in mutandoni e cannottiera si rotolavano in una vasca di fango: una sequenza che forse avrebbe avuto senso solo se fossero stati nudi, o quasi. Hossein, che è anche regista e docente all’accademia, sottolinea che quell’esperimento non è riuscito (anche se non è stato bloccato), proprio per la distanza di quel gusto da un teatro che sia davvero contemporaneo per l’iraniano contemporaneo. Non lo sfiora il dubbio che senza quei limiti di abbigliamento lo spettacolo potesse riuscire, e acquistare un senso, ma pensa che sia la dimostrazione di come sia sbagliato scopiazzare modelli come questi (non escludo che abbia ragione: peccato che non lo si possa verificare).
E controllo politico e sui contenuti? Escluso, dice. Mi spiega che fino ad alcuni anni prima era molto diffuso un teatro esplicitamente politico, che negli ultimi tempi però ha totalmente allontanato il pubblico. Le compagnie, gli artisti, si sono spostati sui temi che interessano davvero la gente: quasi tutti gli spettacoli infatti analizzano rapporti di famiglia, di coppia, amicizia eccetera. Autocensura? Forse no (come sostiene Hossein).
Capisco dagli spettacoli che non è solo riflusso (lo stesso che sta vivendo la “rivoluzione” iraniana), ma che la politica passa davvero dal privato. La grande avanzata delle donne nello studio e nelle professioni è una lotta continua in famiglia, la libertà di contrarre matrimonio con chi vuoi, la libertà di spostarsi, di valorizzare la complessità dei sentimenti: questa in fondo è politica . Ciulli, che frequenta l’Iran da anni, mi conferma questo spostamento e non lo vede negativamente (lui, così ideologico): soprattutto, vede una società che si muove suo malgrado grazie alle donne, al potere silenzioso che stanno prendendo. Speriamo.
Da parte sua, il direttore Sharifkhodaie sostiene che gli obiettivi del festival sono soprattutto “umanistici”: “riallacciare il dialogo fra la gente” sui problemi di fondo dei rapporti umani, per questa funzione il teatro è così importante. Ed è questa tendenza in effetti che sembra mostrare la scena iraniana (almeno nella grande maggioranza delle messinscene selezionate, e in particolare da parte dei gruppi giovani)
Per non equivocare: si può parlare anche di sesso, il tema anzi è ricorrente (una compagnia ha recentemente messo in scena Tutta casa, letto e chiesa di Fo/Rame!), ma senza oltrepassare il limite. E’su questo limite che si tratta di vigilare, salvaguardando al massimo la libertà di espressione, anche con consigli in corso di allestimento (naturalmente il controllo si esercita sullo spettacolo, non sul testo): e in questa pratica il mio interlocutore deve effettivamente eccellere, lo si deduce dall’autorevolezza che emana, ma anche dall’amicizia che lo circonda in giro per gli spettacoli e dal premio che riceve a fine festival come “miglior censore”! (potremmo proporlo anche in Italia: un premio alla più evidente autocensura!!!).
A dimostrazione di quanto poco Hossein sia rigido, dopo una gradevolissima ora con pasticcini e tè, mi da perfino la mano. Mi vuole dire, credo, che nessun intellettuale iraniano si sogna di pensare che la donna sia impura e non possa essere toccata. Basta solo qualche accorgimento per dire quello che vuoi: essere un teatrante-censore è aiutare gli altri a far e teatro.
Marzo 2004/ luglio 2005
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