ateatro 86.11 Le recensioni di ateatro: Mishelle di Sant'Oliva Il nuovo spettacolo di Emma Dante di Valeria Ravera
Un gomitolo da avvolgere, braccia che si levano e si abbassano a facilitare il dipanarsi della lana, un filo che unisce due persone, morbido a tratti, poi improvvisamente teso sino allo spasimo. Questa azione antica, presente nell’immaginario di molti, apre – prefigurandone l’andamento – Mishelle di Sant’Oliva, il nuovo spettacolo di Emma Dante presentato in prima nazionale al Festival delle Colline Torinesi.
Foto di Alfredo Amato.
Sulla scena spoglia (due tendoni drappeggiati a mo’ di piccoli sipari sospesi nel vuoto, due sedie di legno, una borsa, una corda) ci sono Gaetano e Salvatore, un vecchio e un ragazzo, padre e figlio. Parrebbe un normale quadretto domestico, ma non lo è. Sui due uomini aleggia lo spettro della “francisa”, “la prima ballerina dell’Olympia di Parigi”, moglie e madre che li ha abbandonati da diversi anni preferendo il “balletto” alla vita coniugale.
Salvatore accudisce il padre con dedizione e sollecitudine, gli prepara da mangiare, lo accarezza, lo copre perché non prenda freddo. Il vecchio è agitato, si lamenta, succhia freneticamente acqua da un biberon. “La solitudine mi secca il cuore” dice, e ricorda. Ricorda l’incontro con la moglie, la sua bellezza senza pari, l’orgoglio per averla portata dalla Francia a Palermo fra l’invidia di tutti. Anche il ragazzo ricorda l’infanzia, i passi di danza insegnatigli dalla madre, il gioco fra chi è più bravo a eseguirli fra lui e il padre… Ma non c’è spazio per la nostalgia o la tenerezza se l’oggi è fatto di vuoto e sopraffazione: la tensione fra i due aumenta e lo scontro è inevitabile. La donna, inizialmente mitizzata, a poco a poco viene fatta a pezzi, e da étoile parigina si trasforma nella “prima puttana di Palermo”. Buon sangue non mente, e ora è Salvatore, in arte Mishelle, “u figghiu da francisa”, ad ancheggiare per le strade del quartiere di Sant’Oliva con il rossetto sulle labbra e un vestito nero con gli spacchi che gli fascia il corpo strabordante.
In questa discesa agli inferi senza freni né respiro, ancora una volta Emma Dante porta alla luce gli incubi racchiusi fra le mura domestiche, il lato oscuro dei rapporti familiari, la loro violenza talvolta intrisa di un malinteso sentimento d’amore. Non teme il grottesco, l’eccesso, l’assurdo, il ridicolo. Sa che fanno parte dell’esistenza e vi attinge a piene mani, creando un teatro così intenso da far male. Come in mPalermu, Carnezzeria, La scimia, sono i corpi degli attori il nucleo pulsante dello spettacolo. Corpi oppressi dal grasso, dagli anni, dalla fatica, madidi di sudore ma trasudanti bellezza, vita, verità. Corpi pesanti eppure leggerissimi quando si liberano nella danza, emblemi di un universo degradato e spietato ma pregno di umanità. Ed è davvero “bellissima” Mishelle – di una bellezza pura e crudele – mentre sulle note di Loredana Bertè esegue con grazia i passi imparati quand’era bambino e si chiamava solo Salvatore.
Foto di Alfredo Amato.
C’è l’amara lezione di Beckett nel bellissimo Mishelle di Sant’Oliva, nell’attesa vana che riempie il tempo e lo spazio, nel cappio fissato con un lucchetto al soffitto, nelle frasi e nei gesti frequentemente reiterati, nel tentativo di suicidio estenuato ed estenuante, gioco di morte che non si conclude mai. E c’è la tragedia di due uomini, a turno vittima e carnefice, che non possono fare a meno l’uno dell’altro e sono destinati a ferirsi per il semplice fatto di esistere, il vecchio obnubilato dalla struggente nostalgia del passato e da un egoismo assoluto, il ragazzo diviso tra la continua ricerca di approvazione e il desiderio di essere se stesso fino in fondo. Le loro schermaglie verbali spesso si dipanano in un dialetto siciliano scabro ed evocativo, lingua segreta e oscura capace di grandi suggestioni ma anche di accrescere il senso di claustrofobia che li schiaccia.
Francesco Guida è una straordinaria Mishelle, femminiello candido e seducente nella sua fisicità traboccante, irresistibile cocktail di pudore e sfrontatezza mentre ripete ossessivamente al padre “Non mi taliare” o cammina avanti e indietro a testa alta come una consumata professionista del marciapiede, vergogna paterna ma regina della notte. Altrettanto bravo è Giorgio Li Bassi, capace di alternare sprazzi di folle vitalità nel ricordo della donna amata a una cupezza senza speranza.
Il crescendo di sofferenza e angoscia, spezzato solo per brevi attimi da spiragli di sorrisi, culmina nell’abbraccio finale fra padre e figlio, disperato e soffocante: il filo si tende ancora una volta, ma non si spezza.
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© copyright ateatro 2001, 2010
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