ateatro 85.20 Salmagundi delle Albe - un’avventura tra Livorno e Ravenna Una buona pratica, due città, sei foto di Concetta D'Angeli
Questa è la storia di un fatto sorprendente. Ha al suo centro Salmagundi, delle “Albe” di Ravenna: uno spettacolo che molti critici hanno accolto con favore, altri con perplessità. Io ne sono stata travolta, insieme a una ventina di allievi.
Tutto è cominciato con una “buona pratica” di cui fu data comunicazione al convegno di Milano (autunno 2004): a Livorno, in un piccolo spazio da poco restaurato (il Teatro delle Commedie), con il finanziamento del Comune e il concorso delle Università di Pisa, Bologna, Torino, Genova, da alcuni anni si tengono dei seminari seguiti con crescente attenzione. Ebbero origine, anni fa, dalla volontà utopica e generosa di Fernando Mastropasqua.
Pur lasciando piena libertà a chi di volta in volta li conduce, questi seminari rispettano la medesima formula. Sono composti di una parte teorica svolta da professori universitari; e esemplificazioni pratiche affidate a drammaturghi o registi o attori. Sono accomunati da uno stesso tema che varia ogni anno (il 2005 con Il racconto comico); e ognuno di essi si conclude con piccole performances realizzate dagli artisti. In questo modo il Teatro delle Commedie si garantisce una “stagione” basata su un coerente progetto culturale, costituita da spettacoli non affidati alle sole ragioni finanziarie e all’ovvietà pubblicitaria, pensata sulla base di un percorso di ricerca reale. Lo stesso che avrà ispirato gli incontri seminariali.
Quest’anno De Marinis, dell’università di Bologna, è stato affiancato da Marco Martinelli, regista e drammaturgo delle “Albe”. Si è aperta così l’avventura che voglio raccontare.
Ai venti iscritti al seminario - studenti universitari, appassionati di teatro, aspiranti attori, signore - Marco annuncia che intende portare tutti sul palcoscenico, allestire una specie di Salmagundi livornese. Provoca il panico. Foraggia persino la mia diffidenza verso i “saggi finali” - imbarazzanti patetiche recitine per commozioni familiari.
Ignoravamo che il Salmagundi ravennate nacque in modo non dissimile. Nacque dalle facce e dai corpi dei ragazzi che parteciparono al corso per la crescita professionale dell’attore, denominato “Epidemie”, promosso dal Teatro Rasi nel 2004. Lavorando con loro, Marco Martinelli scrisse il testo, lo confezionò addosso a ciascun attore come se facesse un abito di scena, come se prendesse a prestito parole, inflessioni vocali, atteggiamenti, conformazioni fisiche. A tentoni, muovendo dal vuoto di quel non sapere, accettando l’ansia di un esperimento che non aveva traccia, usando la curiosità e il divertimento, sperimentando un’inventiva senza freni, si definirono personaggi, si crearono situazioni, si appresero linguaggi. Nel programma di sala di Salmagundi Cristina Ventrucci definisce il tragitto “l’acquisizione di un sapere scenico che mantiene intatta la grazia dell’invenzione libera”.
A Livorno abbiamo invece iniziato all’inverso, con il libro in mano già scritto e pubblicato. Abbiamo iniziato leggendo, Martinelli teso a riconoscere, in ognuno di noi, gli attori “veri”, i ravennati, per intenderci... Più tardi anche noi ci saremmo ritrovati a sfangarcela in un’operazione di riconoscimento analoga.
Il tempo di salire sul palco e l’usuale modo di procedere del Teatro delle Albe ci ha catturati. E’ un continuo intreccio fra teoria e prassi, una progettualità che subito si converte in realizzazione. E’ allegria, gioco di squadra; è scambiarsi e rovesciare ruoli, fra maestri e allievi; è solidarietà che ha l’intensità del patto d’onore. E questo è quello che voglio testimoniare: il lavoro e i metodi trascinanti di Marco Martinelli... Quando da un sogno e da un’esperienza condivisi prendono forma testo e spettacolo. Quando il teatro si lega ai pensieri e ai desideri dei corpi vivi, si interroga sui propri compiti, riflette sul reale, lo critica, lo ama...
Salmagundi esprime fastidio per la trionfante stupidità, e però anche la consapevolezza di condividerne gran parte. Vi si racconta la favola patriottica di un Paese di Bengodi dove da trent’anni nessuno s’ammala più; l’Istituto Nazionale per la Prevenzione delle Epidemie, diventato ente inutile, non ha altra occupazione che produrre uno smisurato sciocchezzaio, affaccendarsi in manovre di basso potere, organizzare il “Varietà Scientifico del Venerdì”, ballare il tip-tap. Finché un neo-laureato in medicina scopre che il cuore di suo zio si sta trasformando in un salame cotto: la storia umana di dolore-malattia-morte si riapre.
Il testo scritto, sebbene divertente, rischia di tracimare per eccesso di vitalità. Una fantasia iperattiva produce a getto continuo gags, battute, situazioni comiche. Soprattutto nella seconda parte, la struttura non ce la fa più a sostenere il gioco mutevole, l’equilibrio si incrina. Lo spettacolo invece funziona, eccome! Il pericolo dello sbilanciamento è arginato con scintillante abilità, i cedimenti d’assetto sono compensati dal ritmo indiavolato, l’opera si arricchisce di continue azzeccate invenzioni. Coerenza e armonia, salvaguardate, poggiano sui consueti punti di forza del Teatro delle Albe. La bravura degli attori (la parte storica della Compagnia è rappresentata da Luigi Dadina e Maurizio Lupinelli; gli altri interpreti sono i corsisti di “Epidemie”); la gestione dello spazio scenico - qui ristretto, affollatissimo, vociante – a rappresentare un’infelice claustrofobica ossessiva condizione; le luci di Vincent Longuemare, creativo collaboratore del Gruppo.
Accanto alla sapienza tecnica, la regia mette a frutto una cultura multiforme. Ondate di buio arrestano il tumulto delle azioni; sciabolate lucenti squarciano l’oscurità e restituiscono tableaux vivants, quella stasi che s’ispira alla pittura più che al fermo immagine cinematografico. Si susseguono scene d’interni gremite, allucinate, ispirate alle sequenze teatrali e visionarie dei dipinti di Goya. La luce decisa, tagliente, una suggestione caravaggesca, prorompe da un’unica fonte, imprime un avvolgimento unidirezionale. Coretti demenziali e inni assurdi vengono intonati con puntualità zelante da tutti i personaggi: personalità di potere, gente comune smaniosa di notorietà, perfino i morti (curiosi e avidi), che spiano la vita di chi sopravvive. E nella scioccheria canora, di tanto in tanto, fascinoso e imperativo, esplode il barocco di Haendel e Lulli. La musica di corte: a sottolineare quanto la stupidità dilagante sia da considerare fenomeno antropologico che fonda le identità individuali e cementa le coesioni pubbliche.
Gli iscritti al seminario livornese, elettrizzati infine dalla loro performance, organizzano un tour a Ravenna, dove Salmagundi andava in scena al Rasi (6-9 aprile). Lì avviene l’agnizione. Ognuno ha trovato il suo alter ego “professionale” nell’attore che interpretava il medesimo personaggio. E come Freud racconta del bambino che scopre la propria immagine nello specchio, il riconoscimento è stato commovente inquietante giubilante.
Il teatro, si sa, è un fantasmagorico gioco di riflessi: lo abbiamo sperimentato con emozione a Ravenna, ritrovando gesti, toni di voce, vita che i personaggi di Salmagundi avevano preso a Livorno. Oppure scoprendo le differenze, le possibilità diverse, impensate, per incarnare lo stesso ppersonaggio.
L’incontro fra le due troupes è avvenuto in una stanza di specchi, nella quale un mago e i suoi adepti hanno fatto vivere i loro sogni. E se li sono trasmessi, li hanno condivisi. Hanno insegnato e hanno appreso di quanto entusiasmo sia produttiva la partecipazione delle fantasie, delle illusioni – del teatro. E chi lo specchio, chi il mago se non Marco Martinelli, coreuta di quel gioco fantastico e ameno.
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