ateatro 80.37
Riflessioni 2005
In occasione della nona edizione di "A teatro nelle case"
di Stefano Pasquini
 

Il 4 marzo 2005 parte la nona edizione di A TEATRO NELLE CASE Rassegna di primavera. Una edizione che abbiamo interamente dedicata al Teatro delle Ariette, a noi stessi. Si chiuderà l’11 giugno e si svolgerà interamente alle Ariette, a casa nostra, il cuore di questo progetto di TEATRO NELLE CASE che in nove anni, oltre ai nostri spettacoli (ne abbiamo prodotti 12 per 150 repliche in sede), ha portato ben 80 spettacoli di altri artisti e compagnie per 130 repliche toccando 50 luoghi non teatrali diversi in un territorio, quello della Valle del Samoggia, sulle prime colline a cavallo tra le province di Modena e di Bologna nei comuni di Bazzano, Castello di Serravalle e Monteveglio che assieme si avvicinano ai 15000 abitanti.
Dietro a questo progetto e a tutto questo lavoro sta, oltre alla normale e sempre benvenuta componente di casualità, un pensiero sulla pratica e la necessità del teatro che si manifesta sia nei modi organizzativi che produttivi e creativi della nostra compagnia.
Scelte di carattere estetico, riflessioni sul ruolo dello spettatore (che in diversi casi abbiamo fatto diventare coorganizzatore), relazioni tra produzione teatrale, culturale e territorio, rapporto tra città e provincia, ricerca di un teatro vivente, sono il pane quotidiano della nostra attività.
Il tentativo di sottrarre dal teatro il “teatrale” con i suoi paludamenti, le sue consuetudini, i suoi conformismi accademici per portare il teatro incontro agli uomini, ai cittadini, restituito in tutta la sua umana necessità è sempre stato il centro del nostro lavoro.
Rendere il teatro invisibile per restituirgli finalmente tutto il suo splendore.
Perché chiunque possa riconoscerlo come cervello e cuore di una comunità.
Così anche il nostro teatro ha cercato di rendersi invisibile per parlare a noi uomini soltanto di quello che siamo, o potremmo, o vorremmo essere.
Ma se un teatro è invisibile non significa che non sia teatro e forse ora, dopo nove anni, è giunto il momento di dire qualcosa, qualche piccola cosa.
Non l’abbiamo mai fatto, non è nella nostra abitudine e facendolo avremmo rischiato di perdere l’invisibilità. Questo rischio ce lo prendiamo ora che il frutto è maturo e, se nessuno lo mangia perché non lo vede, potrebbe marcire.
Al di là della materia che caratterizza il nostro teatro, degli elementi bassi, le verdure, le tagliatelle, del malinteso autobiografismo, della terra che coltiviamo, la nostra azione parla al teatro, si interroga sulla contemporaneità dell’evento teatrale fuori dai cliché delle tendenze.
Il cibo per esempio, nel nostro teatro, è qualcosa che obbliga le azioni e le rende sacre perché involontarie, così come obbliga la drammaturgia. Il sacro è l’involontario, l’involontario è l’essenza dell’umano.
Liberare le azioni da qualsiasi scelta estetica, restituirle al territorio della necessità, essere messaggeri, camerieri, servitori e cuochi, questo cerchiamo di fare. La drammaturgia vegetale è la drammaturgia della linfa che scorre dentro, che attraversa.
C’è una dimensione della nostra ricerca che ora, con TUTTI A CASA? si pone nella sua semplice evidenza.
Tutti i nostri lavori, dal 2000, proposti a casa nostra, la nostra sede, al Deposito Attrezzi, il teatro che ci siamo costruiti, nel luogo dove questi lavori sono stati concepiti e generati mostrano i fili che legano i gesti conseguenti di un pensiero sulla vita e sul teatro articolato nelle modalità produttive materiali ed economiche, nella autonomia della autogestione e nel nocciolo della sua forma estetica-etica.
C’è la consapevolezza del rifiuto degli “elementi teatrali”, c’è una discesa nell’umano piuttosto che nel tecnologico, c’è l’insofferenza per la “forma spettacolo” e c’è pure la scelta di non scrivere note di regia o programmi di sala come manualetti di istruzioni per spettatori affrettati.
Siamo convinti che l’unica verità dell’evento teatrale sta nel suo farsi presente e solo nel suo farsi presente stanno i fili che lo lanciano fuori, lo legano al mondo, rimandano ad altre opere, altre arti, altri teatri, altre vite.
Sarebbe un po’ troppo semplice accondiscendere alla tentazione diffusa di liquidare come “esotico”, “originale” o “curioso” tutto quello che non rientra negli schemi consolidati della consuetudine teatrale.
La ricerca di “originarietà” va ben oltre questi problemi.
L’unica verità dell’evento teatrale è il suo farsi. Tutte le indicazioni e le istruzioni per l’uso esterne al farsi dell’evento teatrale io non le prendo in considerazione, sono solo un gioco a nascondino inutile e dannoso.
Se ho dei chiarimenti da fare, delle cose da dire, delle domande da condividere li metto nell’opera.
Credo nell’evidenza del mistero o, se si preferisce, nel mistero dell’evidenza.
Ma l’esercizio forsennato della funzione critica del consumatore ci ha resi ciechi e sordi di fronte a questo mistero.
La vita non è un giochino con cui trastullarsi in cerca di soluzioni e spiegazioni.
La vita non è un campionario di etichette da appiccicare.
Con questo non voglio, e so che non posso, sottrarmi al ruolo che il mondo decide di vedermi giocare.
Credo che ci sia una certa pigrizia e un certo conformismo nelle posizioni accademiche che guardano il mondo da solide basi. Il mare bisogna guardarlo mentre si naviga, senza punti fissi, senza certezze e troppo spesso quando osserviamo una cosa sappiamo ancor prima di vederla cosa ci aspettiamo da lei.
Il teatro è necessario se vive nel cuore degli uomini.
Il teatro è teatro quando è invisibile, quando non ci sono numeri per giudicare, quando non ci sono generi per catalogare, quando non ci sono parole per spiegare.

Le Ariette 1 febbraio 2005


 
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