ateatro 80.20
Marco Paolini: una scheda
da "Hystrio" 1.2005 Dossier "Teatro di narrazione"
di Oliviero Ponte di Pino
 

A segnare la svolta determinante nella carriera di Marco Paolini, nato nel 1956 a Belluno e cresciuto a Treviso, è stato Il racconto del Vajont (1994), spettacolo-manifesto di un «teatro civile» di fortissimo impatto spettacolare, politico e mediatico, con impressionanti dati di audience in occasione della diretta su Raidue il 9 ottobre 1997: oltre tre milioni e mezzo di spettatori. A quel successo Marco Paolini, interprete fino ad allora di lavori da poche decine di spettatori a replica, non ci è arrivato certo per caso, anche se la sua carriera – come quella di molti altri straordinari autori-attori della sua generazione, da Toni Servillo a Sandro Lombardi, da Marco Baliani a Paolo Rossi – aveva fino a quel momento seguito vie in qualche modo oblique, imprevedibili, al di fuori di ogni curriculum programmabile e tuttavia lungo un percorso in qualche modo necessario e logico – almeno con il senno di poi.
Per cominciare, c’è una formazione che passa anche per la commedia dell’arte rivisitata dal Tag Teatro: perché Marco, come un altro veneziano di pianura, Silvio Castiglioni, è uno straordinario «Arlecchino naturale», che ha i geni terragni e contadini, potenzialmente eversivi, di un Ruzante. Questa auto-formazione passa poi per un gruppo del nuovo teatro, seppure per certi aspetti eccentrico, come il Teatro Settimo di Gabriele Vacis, che non a caso sarà suo complice come autore e regista proprio del Vajont. Nei lavori di Settimo in quegli anni Ottanta è centrale il tema del progetto, intimamente affine a quello della narrazione, con il tentativo di portare in scena materiali non teatrali, dalla tavola degli elementi chimici (Esercizi sulla tavola di Mendeleev, 1984) a un romanzo come Le affinità elettive (Elementi di struttura del sentimento, 1985) e a un film come Riso amaro (1987), per poi approdare a un bizzarro Romeo e Giulietta (1991), dove la vicenda veniva narrata dai superstiti dopo la morte dei due amanti – con Paolini a fare il sopravvissuto Frate Lorenzo e insieme, in un flashback, il giovane Romeo – e alla Trilogia della villeggiatura goldoniana (1993) condensata da Vacis in un’unica serata.
Nella preistoria del Vajont – uno spettacolo nato fuori dai teatri, in prove aperte e repliche nei centri sociali, negli ospedali, in circoli culturali e politici, nelle scuole, nelle parrocchie – c’è anche l’incontro con un altro veneto dell’entroterra, Luigi Meneghello, e con il suo Libera nos a Malo, che non a caso diventa uno spettacolo-laboratorio, Libera nos (1989). Meneghello significa la riscoperta delle radici, di una lingua inscritta nella realtà, nella memoria e nella carne, e del suo rapporto con l’italiano e con la modernità. Il suo libro, a metà tra la linguistica e la storia, tra l’autobiografia e l’antropologia, con il suo potente impatto poetico, dà all’autore-attore Paolini una nuova consapevolezza esistenziale, la possibilità di scavare nel profondo della propria identità e della parola.
Ancora, prima del Vajont c’è soprattutto la straordinaria esperienza degli Album, l’autobiografia di un alter ego immaginario – il piccolo Nicola, ispirato al «Petit Nicholas» di Goscinny – condotta attraverso quattro trascinanti monologhi messi a punto nell’arco di (quasi) un decennio, seguendo le vicende del protagonista-narratore dai primi anni Sessanta al fatidico 1977. Anche qui, però, il percorso è obliquo: perché la prima tappa di questa tetralogia, Adriatico (1987), nasce come spettacolo per ragazzi. Solo in seguito, nel corso degli anni e con l’accumularsi degli spettacoli, gli Album assumeranno il tono e il valore di una autobiografia generazionale, un romanzo di formazione dal respiro a tratti epico.
E’ nel complesso lavoro sull’autobiografia individuale e sulla memoria collettiva, sull’identità e sul racconto, sulla recente storia d’Italia e sul suo rapporto con il presente, che si affinano gli strumenti che permetteranno a Paolini di misurarsi – più di trent’anni dopo il disastro – con una delle maggiori tragedie collettive della storia italiana: una catastrofe dimenticata, o meglio rimossa, con processi trascinati per anni nei tribunali di tutta Italia.
L’imprevedibile successo del Racconto del Vajont non era affatto scontato, anzi. Quella sera – per uno strano caso del destino, proprio quel giorno Dario Fo vince a sorpresa il Premio Nobel – nessun giornale ha osato annunciare che ci sarà uno spettacolo teatrale in diretta: qualcuno ha scritto «documentario», qualcun altro «sceneggiato», qualcuno preferisce glissare sul genere. Ma quell’attore sospeso su una diga tra i monti, con l’aiuto solo di un tavolino e di una lavagna (con l’inserimento di qualche filmato di repertorio), che parla per tre ore di litri e metri cubi, di ingegneria civile e di migliaia di morti in pochi terribili minuti, conquista milioni di spettatori, che a loro volta diventeranno spesso dei propagandisti del Vajont, quando racconteranno la loro esperienza ad amici e colleghi, nei giorni seguenti.
Con quello spettacolo si afferma una nuova figura. Non è solo un attore, perché Paolini è anche autore dei suoi testi (oltre che inventore del proprio personaggio scenico e pubblico). Non è solo un autore e un attore, perché si fa anche portavoce di una memoria collettiva, che i mass media hanno occultato o trascurato. La sua non è solo memoria, o meglio non certo è la memoria pacificatrice e consolatoria del revival: la sua è anche una coscienza civile, il suo spettacolo assume un immediato significato politico, evoca una diversa consapevolezza del nostro passato prossimo e chiama all’azione. E’ lo stesso Paolini a sottolineare questo aspetto, quando replica per anni il suo Vajont il 12 dicembre, e per un anno il 12 di ogni mese, come memoriale della strage di piazza Fontana.
Da allora – ed è passato più di un decennio dalle prime prove aperte del Vajont – Paolini ha seguito varie direzioni di ricerca. Da un lato ha approfondito la riflessione, anche attraverso il serrato confronto con la poesia (trascinanti, memorabili le sue interpretazioni di Calzavara e Zanzotto), sulla lingua e sul suo rapporto con la musica (pare ineludibile la necessità dei moderni attori solisti, a un certo punto della loro carriera, di appoggiarsi alla musica) e insieme con la propria terra, quel Nord-Est in prodigiosa modernizzazione ma anche strappato alla propria identità. In questo ambito, oltre ai vari Bestiari, il lavoro più compiuto è Il Milione (1997), dove la riflessione sul suo rapporto di veneto dell’entroterra con la metropoli lagunare (e con il suo mito) diventa l’occasione per una riflessione sugli intrecci tra storia e geografia, tra Europa e Oriente, con una vena di malinconica ironia.
Sull’altro versante prosegue la rivisitazione «civile» di alcune pagine drammatiche della recente storia italiana, ma avvertendo sempre il rischio di trasformarsi in un «poeta delle catastrofi» e dunque centellinando questi spettacoli-denuncia. Ecco allora i grandi monologhi su Ustica (I-TIGI canto per Ustica, 2001, scritto con Daniele Del Giudice e portato in scena con le musiche di Giovanna Marini e presentato in occasione dell’anniversario della strage della stazione di Bologna) e sul petrolchimico di Marghera (Parlamento chimico, 2002), oltre al ritorno in televisione con i cinque monologhi realizzati nel 2003 per la trasmissione Report. Anche in questo caso è significativo il metodo di lavoro: perché i monologhi, che devono introdurre le inchieste curate dall’équipe di Milena Gabanelli ma senza mai illustrale pedissequamente, vengono per prima cosa scritti con Francesco Niccolini e Andrea Purgatori, che s’incaricano del lavoro di ricerca e documentazione, riprendendo gli obiettivi e i metodi del teatro-documento; i testi vengono poi «rodati» in alcune anteprime «live», di fronte a un pubblico teatrale, quasi a cucirseli addosso, prima di essere «narrati» e registrati nel Teatro di Schio, questa volta senza spettatori. E’ la ricerca di un difficile compromesso tra l’aspetto teatrale e quello cinematografico-televisivo del lavoro, tra le esigenze artistiche che prevedono la collaborazione del pubblico nella messa a punto di tempi e ritmi e le necessità di una produzione tv.
Dopo oltre vent’anni di carriera, quello di Marco Paolini è e resta soprattutto un work in progress, che sfugge formule e ruoli di comodo, refrattario alla facile gestione del successo televisivo. Lo stesso genere del «teatro di narrazione», di cui è stato tra i creatori e maggiori esponenti, lo ha declinato ed esplorato ogni volta in forme e toni assai diversi, fino al recente Il sergente, adattamento dell’autobiografico Sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, nell’inverno 2004. Questa costante ricerca ha trovato riflessi anche nella sua attività in televisione e con il video: non solo nella messa a punto di nuovi moduli formali ma anche nell’incontro con lo spettatore, che può essere agganciato con modalità diverse, dall’esibizione teatrale dal vivo alla trasmissione nella tv generalista alla cassetta video o al dvd. Anche in questo sta l’affascinante paradosso di Paolini e dei suoi racconti: nella sua capacità di reinventare una forma di comunicazione antichissima, che tuttavia si trova a suo agio con le moderne tecnologie e modalità di comunicazione, scoprendo una efficacia e un’immediatezza che altre forme di comunicazione teatrale, in apparenza più moderne, non riescono ancora a trovare.


 
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