ateatro 79.11 Libri & altro: Amleto e Antigone per piantare gli occhi in faccia alla vita Fernando Mastropasqua, Teatro provincia dell’uomo di Anna Maria Monteverdi
Mi piace pensare che si vada a teatro per piantare gli occhi in faccia alla vita.
Il teatro non ha volto, ha maschere.
Fernando Mastropasqua
Il nuovo volume di Fernando Mastropasqua (edito da Federico Frediani-Arti Grafiche, Livorno, 2004) è una piccola summa del pensiero dello studioso di teatro, oggi docente di Antropologia teatrale al Dams di Torino, che ripercorre alcune delle costanti di una ricerca originale, che da sempre mostra i profondi legami tra i greci e (alcuni) maestri della scena moderna e contemporanea: Craig, il Living Theatre, Carmelo Bene.
Il tema della maschera primitiva e di quella greca, manifestazione dionisiaca, permea gran parte del volume, declinandosi in diverse e multiformi apparizioni: da Sileno a Amleto ad Antigone e in ulteriori mascheramenti (l’Antigone livinghiana da Brecht, l’Amleto di Laforgue-Bene). Sono passaggi sull’invenzione del teatro come sguardo sulla «vita perduta e rifiutata, un invito alla metamorfosi contro la stabilità innalzata una volta per sempre, contro l’omologazione del mondo».
Perché «maschera» e perché questo è il nodo centrale dell’epifania del teatro?
«Maschera e skené sono forme di passaggio che abbracciano l’intera attività dionisiaca, non al fine di condurre a perfezionare la persona, ma per plasmarne una nuova, straniera al mondo. Non avviene un processo di evoluzione ma di trasformazione: mistero, komos, teatro, sono fasi diverse di questo viaggio».
Quale il significato della parola theatron? Contrapposta a skené è l’azione del vedere qualcosa che si tenta di celare: sguardo e velo. In cosa consistevano queste rivelazioni a teatro tanto pericolose da dover essere occultate?
«La possibilità di interrompere il ciclo – di spezzare dunque i ceppi della vita prescritta – qualificava come illegale e pericolosa la riunione a teatro. Sottrarre la visione allo sguardo significava denunciare la miseria delle cose. Il teatro parlava di libertà contro necessità: rimetteva in questione ogni credenza, ogni sistema, ogni legge».
Se il teatro è sin dai primordi luogo di negazione del mondo come immutabile, la sua funzione dovrà essere quella di mostrare la potenzialità del gesto come puro atto, non come mimesi di un «già fatto». Teatro come contrapposizione al mondo così com’è, come luogo di un’antistoria: «La storia», avverte Canetti, «presenta tutto come se niente si fosse potuto svolgere altrimenti. Invece si sarebbe potuto svolgere in cento modi. La storia si mette dalla parte di quel che è avvenuto costruendo solide connessioni. Tra tutte le possibilità si basa su quella sola che è sopravvissuta. Così agisce sempre la storia, come se fosse dalla parte dell’avvenimento più forte, cioè di quello realmente avvenuto: non sarebbe potuto rimanere non avvenuto, doveva avvenire» (Elias Canetti, La provincia dell’uomo).
Due sono le immagini scelte da Mastropasqua per definire questa dimensione del teatro che non ripete la vita, che si sottrae all’«effettivamente accaduto» e che rivela un’alternativa «possibile» fuori dalla storia, per affermare un «gesto nuovo», fondatore.
La prima è quella tratta dall’Amleto, la momentanea sospensione del gesto di morte di Priamo da parte di Pirro in quella finzione teatrale che inchioda il colpevole:
«Il teatro che apparentemente racconta le storie dei re, racconta in realtà, a chi sa guardare, le storie degli Amleti che hanno orrore di ripetere il gesto dell’omicidio, che si pongono fuori dal mondo e quindi dal gesto inevitabile, e dunque sono pazzi e sono "nessuno", perché non condividono il "teatro del mondo"».
La seconda è quella tratta da Antigone nella versione del Living Theatre (da Brecht): è il momento in cui Antigone, che si rifiuta di obbedire ai decreti di Creonte, seppellisce il fratello con la terra e contemporaneamente si nutre di quella stessa terra:
«Se nel testo sofocleo il gesto di Antigone è il primo gesto di ribellione, prima della rivolta di Emone e del popolo tutto, in Brecht è il gesto derivato da quello di Polinice (il quale, a differenza della versione sofoclea, è generale dello stesso esercito del fratello ma ha disertato e viene ucciso in quanto traditore della patria, n.d.r.). Antigone ripete il suo gesto (...) Colei che nutre è colei che è stata nutrita. Ricopre, cibandolo di terra, quel cadavere che l’ha cibata con il gesto, pagato con la vita, di una civile coscienza».
Particolarmente originale la verifica della derivazione della «maschera» di Amleto (il fool) da quella di «Ognuno» (Everyman-Mankind) delle moralità medioevali e in particolare da quella del folle Nessuno (Nobody) di cui viene data documentazione iconografica:
«La natura più profonda di Amleto, in quanto maschera, è che egli non è altro che nuovo tipo di una delle figure che contraddistinguevano un genere teatrale. Ricordando la sua discendenza da tali archetipi Amleto è il risultato di un’operazione non diversa da quella compiuta da Eduardo o da Goldoni rispetto alle tradizioni precedenti del teatro di maschere sulle quali la loro tecnica drammatica si era esercitata e affinata. L’attenzione di Shakespeare si rivolge soprattutto a Everyman in virtù della sua peculiarità di maschera dell’uomo condannato a nascere per morire. Tale condizione fa di lui un folle perché follia è questo stare nel tempo. E’ tutt’altro che stravagante che Amleto-Ognuno indossi la maschera del suo stato infelice, la maschera del folle. Ma la sperimentazione shakespeariana è ancora più sottile in quanto le allusioni di Amleto e il suo atteggiamento rimandano a una particolare forma di follia, a un tipo di folle ben noto dal XV secolo: il folle Nessuno con il dito sulla bocca che invita al silenzio. Perciò l’intuizione di Shakespeare crea un felice oxymoron poetico e drammatico: Ognuno (Somebody) assume il volto di Nessuno (Nobody). L’Essere si dichiara Non-Essere».
L’ultima e più corposa sezione è dedicata invece a Hommelette for Hamlet di Carmelo Bene (1987) – con trascrizione integrale e ampia analisi critica – in cui viene drammaticamente messa in scena la distanza tra creazione letteraria e finzione teatrale:
«A differenza delle poetiche fondate sull’entusiasmo per la regia, non si tratta qui di polemica tra ossequio al testto e autonomia ma tra ossessione filologica e delirio del poeta-attore. Si leva in tal modo dal piano della scena una visione che è propria del corpo-mito di colui che "sta" sul palco (...) Naturalmente per Carmelo Bene il suo corpo-mito non è mediazione coreutica fra mito e spettatore ma piuttosto, oltre e contro i principi della coerenza narratica e dell’azione in scena, epicentro di un terremoto dell’animo, perturbato da una malinconica "mnemotecnica". La memoria dell’attore non dà vita che a un sogno solitario. Ma i miti che la nutrono appartengono a tutti...».
Fuori dal teatro, al risveglio, scuotono le menti liberate dal torpore domande circa il senso delle maschere che popolano il nostro devastato mondo.
Fernando Mastropasqua ha proposto la tematica della maschera quale «forma liminale», «senza tempo, per annunciare un tempo nuovo, la cui radicalità sta nel proclamarsi non-tempo, non-mondo, non-ognuno», oltre che nel fondamentale volume Metamorfosi del teatro (Esi, 2000), in Maschera e rivoluzione (BFS, 2000), nella rivista «Scena», diretta da Antonio Attisani, e in «Critica d’arte».
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