ateatro 77.4 Un punto di vista sul teatro dell'Europa dell'Est Il festival Divadelna Nitra di Mimma Gallina
Nitra, in Slovacchia è una città piccola, con un centro storico carino che non è più in centro, un centro vero anni Cinquanta-Sessanta (tutto negozi, grandi magazzini e ristoranti Italia e Venezia, oltre a qualche ristorante slovacco naturalmente, non eccezionale, ma decisamente a buon mercato), e una periferia moderna, non bella, ma non troppo degradata. Ha parecchio verde e un fiume (le città divise da un fiume si interpretano meglio e ci si passeggia più volentieri), un’attività economica che si sta spostando dall’industriale (dopo la chiusura dell’industria automobilistica) al terziario e che non ho capito bene ora su cosa si regge (ma regge perché in una dozzina d’anni gli alberghi sono passati da 2 a 6 o 7: e il luogo non è turistico, a meno che non lo si consideri un punto di partenza per i Carpazi).
E’ a 80 km. circa da Bratislava (una piccola capitale che vale il viaggio!) e un paio d’ore di auto da Vienna: la Slovacchia è un paese poco conosciuto, ma molto a portata di mano.
Qui a Nitra, dal 1991 (quando ancora esisteva la Cecoslovacchia), per 5/6 giorni verso la fine di settembre, si svolge un festival internazionale, «Divadelna Nitra», decisamente interessante come punto d’osservazione sul teatro dell’est, soprattutto dei paesi ormai europei a tutti gli effetti (ma non manca di solito un’ospitalità dalla Russia) e occasione di confronto fra est e ovest.
L’ho frequentato per parecchie edizioni, fino al 1999 e ci sono tornata ora, incuriosita dal programma e dai possibili cambiamenti di questi anni.
Darina Karova, critica e drammaturga che l’ha fondato e tuttora lo dirige alla guida di un’équipe di esperti, critici, consulenti internazionali e di uno staff giovanissimo (circondato da simpatiche volontarie volonterose e caotiche), sottolinea la continuità della missione storica: il festival si propone dalle origini di mettere a confronto la produzione slovacca e quella europea, «focalizzandosi in particolare su un teatro non tradizionale, innovativo, provocatorio, polemico», e dedicando in conseguenza molta attenzione a registi giovani.
«Divadelna Nitra» ha sede presso il Teatro Andrej Bagar (che oltre a essere un teatro regionale – pubblico – di produzione, naturalmente, è un edificio monumentale fine anni Settanta, molto indicativo della funzione che nel bene e nel male i paesi dell’est attribuivano all’attività teatrale) ed è operativo anche presso il Vecchio Teatro, con altre tre sale. Negli anni ha offerto un grande spazio alla produzione slovacca (molto calata in questa edizione), tanto quella delle istituzioni che dei pochi gruppi indipendenti (che pochi sono rimasti, anzi sono meno di dieci anni fa), garantendo parallelamente la presenza regolare e selezionatissima di spettacoli soprattutto cechi, polacchi, ungheresi, rumeni, baltici, russi e aprendosi di anno in anno a una rosa di proposte occidentali (molto frequenti quelle francesi, tedesche, svizzere: un po’ per scelta, un po’ perché – si sa – questi paesi sostengono di più il loro teatro, anche in sedi non proprio, o non ancora, di rappresentanza).
«Divadelna Nitra» ha resistito e si è rafforzato (se pure fra mille difficoltà), mentre il sistema spettacolo cambiava radicalmente in Slovacchia, con il passaggio alle regioni e ai comuni delle competenze prima statali, e una forte pressione verso il mercato (soprattutto sotto i governi di destra, che si sono alternati con una certa regolarità a quelli di sinistra): anche qui insomma è scoppiato il musical (se pure non con effetti ungheresi). Il festival si è presentato quindi negli anni come un’occasione abbastanza rara di riflessione sull’eventuale minimo comune denominatore delle scene dell’est, all’indomani del crollo del muro, e sulle specificità, e identità nazionali, offrendo anche spunti di confronto con punte avanzate della scena occidentale.
Dopo anni di frequentazione del teatro di questi paesi ho messo a fuoco una probabile banalità: se un minimo comune denominatore c’era, anzi c’è ancora, non è politico, esistenziale, o legato a qualche identificabile filone tematico, ma è stilistico. Ed è il più ovvio che ci si possa immaginare. E’ scritto su quasi tutti i programmi dei teatri e se chiedete a un attore o a un regista di descrivere il genere di teatro che fa (da Budapest a Brno, da Varna a Bratislava, da Perm a Lubiana, da Tallin a Sarajevo), ciascuno vi risponderà – con infinite sfumature, certo – che segue l’eredità, la scuola, il metodo Stanislavskij (in nome del quale si possono fare autentiche porcherie, e comunicare emozioni sublimi). Stanislavskij come Lenin, insomma (e come un Lenin di importazione), solo che i monumenti non sono stati affatto abbattuti. Nessuno che operi professionalmente prescinde da questo punto di partenza. E la trasgressione più vera, le innovazioni più riuscite, muovono sempre da lì.
Non a caso Cechov – fonte prima della scuola psicologica, e della sua negazione – non è mai mancato a Nitra, con due, tre edizioni l’anno, a volte memorabili, come in questo 2004 a mio parere.
Il gabbiano, ovvero Cechov secondo Arpad Shilling (foto di Ctibor Bachraty).
Dichiara lucidamente questa matrice il regista ungherese Arpad Schilling, trentenne già piuttosto noto in Italia, che commentando il suo Gabbiano, insiste – non distanziandosi troppo del resto dal percorso dei suoi maestri del Teatro Katona di Budapest – che gli unici passi avanti possibili sulla scena ungherese (dove opera ormai stabilmente con un suo gruppo, il Teatro Kretakor, con sede nella capitale) partono dall’approfondimento, ovvero dall’esasperazione, del ‘metodo’ per eccellenza.
Il gabbiano (foto di Ctibor Bachraty).
L’originalità della sua scelta e della sua ricerca nel caso di questo Gabbiano sta nel portare pubblico e attori a condividere lo stesso angusto spazio (lo stanzone di un palazzo ottocentesco in questo caso, con pubblico a ferro di cavallo e balcone sulla parete libera), le stesse luci, a guardarsi negli occhi in un gioco di complicità che non teme di accostare effetti di straniamento (favoriti dai meccanismi del teatro nel teatro del primo atto, ma anche dai continui a parte degli attori, che giocano apertamente con il pubblico) con momenti di totale immersione emotiva.
Il gabbiano (foto di Ctibor Bachraty).
E se Shilling insiste che per interpretare Cechov un attore non deve sentirlo, ma solo capirlo, l’identificazione perfino imbarazzante degli attori con i personaggi, la contemporaneità un po’ trasandata dei comportamenti, e soprattutto la prossimità complice, fa di questa consapevolezza (ancora più percepibile seguendo il testo in una lingua straniera e così ostica) una sorta di trappola emozionale, che accorcia le distanze e coinvolge gli spettatori in una tragedia a portata di tutti (ma Kostia – unico tradimento del testo – non arriverà a uccidersi realmente: semplicement Shilling a domanda risponde che non crede in quel suicidio, così privo di senso).
L'immancabile Rodrigo García, questa volta in salsa est-europea (foto di Ctibor Bachraty).
E se la maggiore sorpresa per il pubblico locale (entusiasta) arriva da Ronald, il pagliaccio di McDonald’s di Rodrigo García, ormai lanciatissimo a livello europeo, per noi osservatori occidentali del teatro dell’est, la vera rivelazione viene da un altro Cechov, Tre sorelle e dalla regia del rumeno Radu Afrim. Del testo è rimasto il primo atto integrale (quello del compleanno di Irina) mentre il resto, i famosi monologhi, le disperazioni, le partenze, si concentrano in un caotico andirivieni intorno a un affollatissimo letto, un balletto frenetico, quasi una comica finale con improvvisi rallentamenti e malinconie. Ma in questa sintesi niente è andato perduto del senso autentico dell’opera: la noia infinita della provincia, la passione come ansia di trasgressione, le aspirazioni e i fallimenti, l’angoscia del tempo che scorre senza scampo. L’abbandono infine, la solitudine e la minaccia totale, con l’esercito che si è spostato chi sa dove, in luogo di guerra e le tre ragazze che indossano una animalesca maschera antigas. E se il Gabbiano di Shilling è una ricerca formale ineccepibile, ma in fondo internazionale, un po’ Vanja sulla XXII – nel senso che non la colleghiamo se non per la evoluzione interpretativa, alla tradizione dell’est – questo ribaltamento deliberatamente parodistico del naturalismo (in cui pulsa un amore per Cechov ancora più viscerale), ma soprattutto il senso profondo di isolamento, la frustrazione dell’esser tagliati fuori dal mondo, e pure di essere irrimediabilmente minacciati: tutto questo è molto corrispondente, credo, alla percezione della propria condizione che domina questi paesi: oggi, non nell’euforia del dopo muro, non nel sogno effimero di consumo e mercato, in un’impotenza verso se stessi e verso il mondo, se possibile ancora un po’ più impotente della nostra.
Sentimenti analoghi permeano L’Europa centrale ti ama, il provocatorio titolo che il Teatro SkRAT di Bratislava (uno dei pochi indipendenti, erede del glorioso Teatro Stoka, pioniere sul finire degli anni Ottanta di una ricerca molto visiva, legata agli oggetti, emozionale e non narrativa) propone per uno spettacolo divertente e amaro, costruito in équipe (Vit Bednarik, Ingrid Hrubanicova, Vlado Zboron, Dusan Vicen), attraverso i meccanismi dell’improvvisazione e splendidamente interpretato.
L'Europa centrale ti ama (foto di Ctibor Bachraty).
Nel dialogo annoiato di una coppia sopra i quaranta, le aspirazioni e il sarcasmo verso un Europa da rotocalco, si intrecciano con nostalgie di un’altrettanto usurata tradizione panslava e spiritosi intermezzi nazionalisti (con immagini idilliache della campagna slovacca). La visita di un vecchio amico che torna dall’estero sembra poter rompere la routine, ma alla fine ha la meglio una rassegnazione ciabattona, scandita dal mugugno, ravvivata dal rito periodico del filmetto porno. Un autoritratto duro ma sempre giocato sul filo dell’ironia.
Nei primi anni Novanta, la ricerca di un’identità nazionale si muoveva su binari del tutto diversi: fra gli spettacoli più interessanti, molti prendevano ispirazione da una tradizione letteraria verista assai vivace (da noi poco o per niente conosciuta), comune alla cultura slovacca, ceca e morava. Fattacci di cronaca e di sangue, ma anche di riscatto femminile, e soprattutto la rappresentazione di comunità rurali solide e solidali, tradizionali e generose: un modo di valorizzare assieme una lingua, e una identità sociale forse non più vitale, ma certo alla base di una cultura soffocata, e ansiosa di trasmettere e riscoprire valori. Di questa linea di ricerca – di cui vorrei ricordare le notevoli regie di Maus Ohla presentate a Mittelfest – è rimasto nel repertorio dello stesso Teatro Andrj Bagar Marisha diretta da Jan Antonin Pitinski, uno dei massimi registi cechi ma attivissimo in Slovacchia.
Una proposta esteticamente e idologicamente diversa, ma che sonda la stessa profonda provincia centroeuropea, ci arriva dal Teatro Na Zabradli (la famosa Balaustra) di Praga, ad opera del nuovo direttore artistico, il giovane regista Jiri Pokorni.
Eva (foto di Ctibor Bachraty).
Eva di Gabriela Preissova (più nota da noi come librettista) è un testo di fine Ottocento che rivolta come un calzino il mito della provincia solidale e comprensiva, offrendo a Pokorni materiale vivo e crudele, personaggi forti, situazioni tragicomiche che consentono al teatro praghese di confermare lo stile grottesco che lo ha caratterizzato sotto le diverse direzioni, e spunti per una critica sociale che non sembra troppo invecchiata.
Incredibilmente più lontano mi pare il testo di fresca importazione Notte araba di Roland Schimmelpfenning, uno dei giovani drammaturghi tedeschi emergenti, proposto dal Teatro Nazionale Slovacco di Bratislava e diretto da Martin Cicvak, non ancora trentenne.
Notte araba (foto di Ctibor Bachraty).
Un testo e un autore interessanti certo, prontamente tradotto e messo in scena, ma al di là dell’apprezzabile considerazione che il Teatro Nazionale conferma ai giovani registi, non ho compreso le motivazioni che hanno fatto confluire su questo spettacolo la quasi totalità dei premi nazionali assegnati dalla critica (attesi e ambiti) che vengono consegnati in occasione e nel quadro del festival. Ci dicono che l’anno teatrale slovacco non ha offerto di meglio. Ancora più deludente mi è sembrata infatti la messa in scena di alcuni atti brevi del polacco Vilquist da parte del Teatro Andrey Bagar.
Certo la scoperta di quell’identità di campagna che aveva caratterizzato la Slovacchia fresca di indipendenza, non poteva che costituire una vena passeggera, ma forse l’importazione affrettata di testi corrisponde a un bisogno un po’ naif di sentirsi europei a tutti i costi: dalla Germania di Schimmelpfenning (che negli stessi giorni andava in scena alla Biennale di Venezia) alla vecchia Bratislava c’è una distanza che più che colmare è forse importante capire. C’è una strada ancora da trovare.
In mezzo, c’è una drammaturgia nazionale abbastanza interessante – si sono visti negli anni testi significativi – e ottimamente promossa dall’Istituto per il Teatro di Bratislava Divadelny Ustav): sono già 5 i volumi pubblicati in traduzione inglese.
E a proposito di identità europee orientali, mi ha sopreso l’attenzione internazionale per Oxygen del russo Ivan Vyrypajev diretto da Viktor Ryzakov. Il tema è, forse, quello che noi vogliamo sentire della degradata Russia: una storia di ubriachezza e degrado metropolitano, trasgressione e buoni sentimenti, urlata al microfono, da una coppia molto composta ma perversa, a ritmo di rap. Personalmente temo che il degrado della Russia sia ben altro, e spero che qualcuno possa riuscire (e venire) a raccontarcelo. Contenuti a parte, l’operazione non convince, troppo soft per spacciarsi per dura, troppo parlata, per dichiararsi musicale, troppo teatrale, per essere da discoteca. Ma a livello esportazione sta funzionando.
Ho perso purtroppo Dea Loher con Innocenza: l’autrice contemporanea tedesca era messa in scena da Pawel Miskiewicz, il migliore allievo di Kristian Lupa, per lo Stary di Cracovia (che sta tornando ai suoi tempi migliori). E non entro nel dettaglio – per quanto mi sia molto piaciuto: ma il mio obiettivo era soprattutto parlavi di Slovacchia – di un Koltes molto poco Koltès (la prova che è ormai a tutti gli effetti un classico): Negro contro cani, in un’edizione della Volkbuhne di Rosa Luxemburg Platz (Berlino), tutta incentrata sul razzismo, con la regia di Dimiter Gotscheff. E altro ancora.
Per saperne di più vi suggerisco la lettura del prossimo numero di «Hystrio» (gennaio), dove del festival e degli spettacoli scrive – da critico – Massimo Marino.
Mi resta da riferire delle innumerevoli occasioni di incontro: un convegno sulle politiche culturali europee in rapporto ai ‘nuovi’ paesi (comprensibilmente assai delusi), un confronto sulle modalità di diffusione della drammaturgia all’estero, una riunione di critici, gli incontri con i gruppi (molto affollati), le azioni di teatro di strada, e ancora proiezioni, mercatini e un rumorosissimo ma molto simpatico dopoteatro dove si può far tardi fino alle 3 (sempre che vogliate perdervi X Files in slovacco, Soros alla CNN, il canale tematico pornosoft: tutto quello che potete imparare di un paese – e dell’omologazione e della globalizzazione – dalla sua televisione).
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