ateatro 75.80 Per una microfisica del teatro (dal catalogo di "Teatri 90", seconda edizione, 1998) di Oliviero Ponte di Pino
a Eugenio Barba
Nell’attuale orizzonte della comunicazione
e della cultura convivono due tendenze apparentemente divergenti. Da un
lato una atomizzazione dei gusti, delle affinità e degli stili di
vita individuali, giudicati equivalenti dal punto di vista morale ed estetico;
e dunque una accettazione delle differenze e spesso una ricerca ostentata
della singolarità, della peculiarità (con tutte le illusioni
di autentico e liberatorio che questo può comportare). Dall’altro
– in quella che possiamo definire "semiosfera" – una feroce omologazione
su scala planetaria attraverso i grandi conglomerati dell’informazione
e dell’intrattenimento, la creazione di una neolingua fatta di Hollywood
e pop-rock, di Olimpiadi, Walt Disney e Nintendo, Microsoft e cnn, United
Nations & United Colors, McDonald’s, Nike e Coca Cola, Papa e Che Guevara,
delle griffe della moda e dell’oligarchia della finanza e delle mega agenzie
di pubblicità, delle grandi reti tv e delle multinazionali dell’editoria
e della telefonia, che negli ultimi anni sono stati oggetto di un frenetico
balletto di fusioni e integrazioni.
Sul fronte della polverizzazione si crea una
infinità – almeno tendenzialmente – di microculture "su misura".
Su quello della globalizzazione – altrettanto tendenzialmente – si trasmette
una mitologia emotiva onnicomprensiva, in grado di imporre all’intero genere
umano un terreno comune (se non di valori almeno di icone e gesti riconoscibili).
Da un lato il caos, un pulviscolo ingovernabile e centrifugo, dall’altra
l’ordine assoluto, un blocco monolitico e omogeneo, monitorato da implacabili
sondaggi e indagini di mercato. La loro sovrapposizione, che determina
il nostro stile di vita e il nostro modo di vedere il mondo, tende a produrre
una società insieme disarticolata e monolitica, schizofrenica e
paranoica, anarchica e iperdeterminata da poteri invisibili – o meglio
astratti e intangibili perché paiono procedere secondo leggi trascendenti.
Tuttavia questi due universi compresenti hanno
un elemento comune: al loro interno, paiono in qualche modo omogenei, uniformi.
Non ammettono singolarità, grumi, coaguli (se tutto è devianza,
nulla è più devianza). Non conoscono un centro. Sono due
universi ugualmente pervasivi, totalitari, dominabili dal puro consumo.
Non prevedono eccezioni e conflitti, se non quelli creati dalla loro soggettiva
volontà di potenza. In questo spazio isotropo, molto difficilmente
il teatro può dare una prospettiva, un punto di vista; oppure trasmettere
un sapere, una tradizione. E nella società dello spettacolo che
si celebra di continuo e nel contempo si auto-demistifica (spesso con ironia
o autentica forza poetica), anche questo gioco – la rappresentabilità
del teatro della vita – rischia di perdere la sua forza eversiva e rivelatrice.
Naturalmente questo mondo (im)perfetto e perfettamente
omogeneo è solo una caricatura. Può esistere solo nei romanzi
di fantascienza, o nelle utopie di un direttore marketing (o di un manager
politico) con qualche perversione filosofica. Naturalmente questa uniformità
viene di continuo attraversata da faglie, fratture, tensioni, vischiosità.
Che creano così linee di resistenza, aprono linee di fuga, liberano
energie.
In un universo che non conosce più centro,
queste alterazioni dell’equilibrio diventano il loro stesso centro. Costituiscono
un punto d’attrazione che sfugge tanto all’atomizzazione quanto al conglobamento,
all’irrigidimento.
È intorno a queste irregolarità
e turbolenze del tessuto comunicativo, intorno a questi picchi e avvallamenti
del campo energetico, che si addensano e sedimentano microculture, come
quelle che possono essere vissute, create ed espresse da una compagnia
teatrale. Le culture del teatro si alimentano di questi scarti di energia
tra regioni diverse della semiosfera. Usano questi differenziali per raccogliere
individualità disperse e per mettere in circolazione il surplus
di consapevolezza che esse producono collettivamente.
Ma da cosa possono essere determinati questi
addensamenti, questi coaguli? In sostanza, da tutto quello che non entra
in questo quadro. Tutto quello a cui in questo contesto non è data
parola. Ciò che sfugge al puro consumo.
In primo luogo ci sono naturalmente le vischiosità
e i residui di un passato non ridotto a museo o accademia, ma in grado
di mobilitare energie e nuovamente riempiti di valori e significati. Questo
vuole anche dire (o può voler dire) i classici da rivitalizzare,
una tradizione che non ha perso la sua forza (sia la tradizione colta,
per riscattarla dalla banalità scolastica in cui viene relegata,
sia le tradizioni antagoniste e popolari, per evitarne l’oblio).
Tuttavia ogni prospettiva "neoclassica" pone
due problemi. Il primo, e più banale, è che questo legame
con la storia può passare per una riterritorializzazione, cioè
per il radicamento in un luogo. Non a caso, quando ci si muove in questa
direzione, si parla spesso di "teatri nazionali" – una promessa d’identità
e continuità, ma anche tutti i rischi di una chiusura localista
e provinciale.
Il secondo è che quasi inevitabilmente
questa tradizione – ridotta alla sua natura profonda – presuppone un’opzione
umanistica: un soggetto forte in grado di offrire una prospettiva e un
punto di vista. Ma siamo ormai approdati – è inutile ripeterlo –
a un mondo irrimediabilmente post-umanista, e ogni richiamo alla tradizione
rischia di contraddire questa consapevolezza. Sarebbe dunque patetico praticare
un impossibile ritorno all’umanesimo. Su questo versante, si tratta piuttosto
di affrontare, con radicalità, questo nodo nelle sue ambiguità
e contraddizioni. Esplorare i confini di un vuoto: il cratere lasciato
dalla scomparsa dell’uomo così come lo concepiva e plasmava l’umanesimo.
Anche da qui emergono probabilmente la fascinazione per i marginali e gli
irregolari, in un ambito sia letterario-artistico sia sociologico-storico;
e il richiamo delle origini, il momento in cui la tradizione umanistica
gettava (forse inconsapevolmente) le proprie fondamenta. Ecco anche il
perseverare inevitabile di una estetica del frammento e del margine – ma
in rapporto a un centro e a una identità perduti. E una pratica
che tende a lavorare più sui flussi che sui segni.
A queste resistenze si intrecciano le energie
messe in moto da quelle che si possono definire "linee di faglia" (che
spesso coincidono con i limiti e i fondamenti del soggetto, che la storia
della filosofia ben conosce, e che la scena pratica da sempre). Una delle
più frequentate è il confine tra l’animato e l’inanimato,
tra il corpo e la macchina, partendo dal presupposto che il corpo non è
"naturale" ma culturalmente e storicamente determinato, e dunque che è
necessario comprendere come venga socialmente determinato. Un’altra
linea di faglia è il rapporto con il linguaggio, su un doppio versante.
Da un lato il confine io-linguaggio; e dunque anche il corpo come segno,
o come campo in cui inscrivere segni. Dall’altro quello tra linguaggio
e mondo (anche qui, il presupposto è che il linguaggio sia strumento
di comunicazione collettivo, e dunque la sua funzionalità vada verificata
in una dimensione sociale). Altre si possono individuare, altre ancora
si potranno trovare – man mano che emergono e vengono consapevolmente indagate.
Spesso sono linee di faglia imposte da un travolgente sviluppo tecnologico,
che a sua volta impone il proprio ritmo anche all’evoluzione con i nuovi
media della semiosfera e dunque della percezione di sé e del mondo.
In questo scenario anche la logica della spettacolarizzazione
subisce uno slittamento. Lo spettacolo non appare più il meccanismo
privilegiato per affermare liricamente una soggettività ridotta
a pura apparenza; non è più visto come linguaggio onnicomprensivo
con cui mimare e comprendere l’intera realtà (è proprio questo
processo di filtraggio della realtà e la sua proiezione nel virtuale
che ha portato al trionfo della semiosfera, dove tutto si trasforma prima
in spettacolo e poi in merce).
Lo spettacolo – il teatro – diventa a questo
punto lo spazio in cui sperimentare, formalizzare ed esprimere le ossessioni
di quel microcosmo che è una compagnia teatrale. In questo ambito,
la tendenza più avvertibile – ancora una volta – non è dunque
verso la ricostituzione di un centro, ma piuttosto verso la consapevole
radicalizzazione della propria eccentricità, verso la sperimentazione
di forme estreme, verso la vertigine e gli stati alterati di coscienza,
verso la provocazione e lo shock percettivi.
Va tuttavia ribadito che quella che si mette
in gioco in quello spazio di relazioni che è il teatro non è
mai una soggettività (o un’assenza di soggettività) puramente
autoreferenziale. Non è una diversità che vuole semplicemente
affermare se stessa. E’ una soggettività che in qualche modo chiede
di essere riconosciuta come tale, in uno spazio collettivo. Questo accade
anche a quelle esperienze che traggono il loro surplus di energie dal piacere
e dall’ansia del nuovo, da una spinta vitalistica dalle connotazioni spesso
giovanilistiche, adolescenziali. Proiettate alla ricerca di un riconoscimento
in questo spazio collettivo, innescano una dialettica che sfugge rapidamente
alla pura affermazione di sé.
Il paradosso, se si vuole, è che non
esiste più un centro: né per quanto riguarda l’organizzazione
della società, né per quanto riguarda la costituzione del
soggetto. E tuttavia continuano a esistere dei margini, percepibili ed
esplorabili. La scena non può più arrogarsi la funzione di
centro (se non in una dimensione esistenziale, personale). Ha piuttosto
la vocazione, e forse il dovere, di esplorare questi confini, di perdersi
su queste linee al limite del nulla. E’ proprio perdendosi in questa orma,
in questa ombra, che il teatro può ritrovare e ritrova la propria
forza e la propria necessità.
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