ateatro 75.15
Una tecnica del destino
Prefazione a Anna Maria Monteverdi, Il teatro di Robert Lepage, Edizioni Biblioteca Franco Serantini, Pisa, 2004
di Oliviero Ponte di Pino
 



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Era una notte d’ottobre, fredda e umida. Una notte d’inverno milanese. Fuori dal capannone dell’Ansaldo era scesa la nebbia, il gelo penetrava nelle ossa. Su quella tribuna tremavo, malgrado la coperta in cui mi ero infagottato, come gli altri eroici spettatori. Eravamo lì da sei ore, e non ce ne andavamo. Perché di fronte a noi stava accadendo uno di quei miracoli che capitano ogni tanto agli spettatori di teatro.
Avevamo ormai perso la nozione del tempo, ci lasciavamo trascinare da quel fiume di parole, corpi e immagini, con qualche rara pausa per sgranchirci le gambe e provare a scaldarci con una tazza di tè bollente. Ci stavano raccontando una storia complicata e lontana, una vicenda che attraversava l’intero Novecento, i destini di tre generazioni di immigrati in varie città del Canada. Persone e luoghi per i quali non avremmo dovuto provare alcun particolare interesse: invece eravamo lì da chissà quanto, rapiti, stregati, attenti, malgrado il freddo e la stanchezza.
Davanti a noi non c’era quasi niente. Un rettangolo di sabbia, un gabbiotto di legno, un lampione, un pugno d’attori a dar vita a decine di personaggi, e pochi oggetti d’uso quotidiano, come quelle scarpe (tantissime scarpe...) e quelle scatole – anche se poi si sarebbe scoperto che in quel modo di raccontare gli oggetti avevano un’importanza fondamentale, così come le luci, modulate con grandissima efficacia.
Quello spettacolo era La Trilogie des dragons e il miracolo si era già ripetuto in altri teatri e festival in giro per il mondo, lanciando Robert Lepage nell’olimpo dei grandi inventori del teatro contemporaneo, da inseguire appena possibile in tutte le sue apparizioni. Era un prodigio di semplicità e di complessità, di naturalezza e di sofisticazione: sia nell’intreccio e nella profondità dei temi affrontati (la storia del Canada, l’incontro tra culture), sia nella forma dello spettacolo. Non era così evidente, in quell’occasione, un altro aspetto fondamentale del lavoro del regista canadese: i risvolti autobiografici, che hanno un ruolo centrale in molti dei suoi spettacoli, da Vinci a Le Poligraphe e La face cachée de la lune.
A colpire in quel kolossal povero ma travolgente era in primo luogo la straordinaria capacità di invenzione drammaturgica. Quella di Lepage è sempre una drammaturgia viva e dinamica, materialista e poetica, profondamente innervata nell’essenza del teatro. Parte spesso da un gesto o da un oggetto, che hanno un sempre valore insieme concreto, letterale («Una scarpa è una scarpa è una scarpa...») ma anche metaforico, perché ogni oggetto può essere anche mille altre cose: basta saperlo guardare e mettere in moto l’immaginazione. Dunque il racconto in teatro può procedere in vari modi: letterariamente, diciamo, quando qualcuno ci racconta come avanza la vicenda, o se i personaggi compiono una determinata azione, ma anche – in maniera più palpabilmente teatrale – perché quell’oggetto diventa metafora di qualcos’altro e ci porta all’istante in un altro luogo e in un altro tempo, come in quelle illusioni ottiche in cui si vede un animale che corre e un attimo la stessa figura diventa una bella ragazza che ci sorride. Non è un caso che Robert Lepage sia partito nella sua formazione proprio dal mimo, ovvero dalla capacità di far vedere e sentire l’invisibile, di farci percepire quello che non si può né vedere né sentire.
Il suo è un lavoro creativo che parte spesso da un oggetto, dalla sua materialità, dalla sua forma, dalle sue funzioni, dalla catena di associazioni che evoca. Ugualmente importante – e strettamente legata alla concretezza dell’immaginazione, al flusso continuo delle associazioni, al condensarsi di un sentimento in un oggetto o in una immagine – è la tecnica del montaggio, di cui Lepage è senz’altro un maestro. Nei suoi lavori ci sono sempre una fluidità e una leggerezza che sbalordiscono chi è abituato a confrontarsi con la materialità del teatro, e dunque con la sua pesantezza, con la sua inerzia. Nella sua libertà sintattica, come nell’alternarsi di tragico e comico, di ironia e di dramma, sembra prendere a modello un autore che ha spesso portato in scena, William Shakespeare (che però nei suoi testi non ha mai avuto la minima tentazione autobiografica).
I racconti teatrali di Lepage hanno il ritmo del cinema e del video, la stessa capacità di sintesi e di scarto. Ne usano spesso e con assoluta naturalezza le tecniche (flashback, zoom, campo e controcampo, carrellate, persino dolly...), anche se preservano sempre una palpabile qualità poetica: esemplari in questo senso restano l’oblò-lavatrice-utero di La face cachée de la lune e il muro di Le Poligraphe, oggetti intorno ai quale è possibile sviluppare un intero universo di situazioni e metafore, tessere un plot e costruire una mitologia. E forse non si è sottolineata a sufficienza la complicità creativa che questa lingua teatrale richiede allo spettatore, che diventa in qualche modo autore-creatore grazie alla sua capacità di immaginazione. Sempre dal cinema e soprattutto dal video pare arrivare anche quella capacità di scrivere con la luce e con le ombre, magari con l’uso sapiente delle retroproiezioni, che è un po’ la firma stilistica del regista canadese.
Non è un caso che questa drammaturgia concreta e dinamica si condensi al termine di un lungo percorso laboratoriale, e che gli spettacoli di Lepage continuino a cambiare e crescere per mesi dopo il debutto, replica dopo replica, per trovare una versione definitiva (se la trovano) solo dopo mesi o addirittura anni di repliche; e che la stesura del copione – il «testo», le parole che vengono dette sulla scena – costituisca l’ultima fase del lavoro, una sedimentazione possibile e legittima solo quando lo spettacolo non si replica più, quando è stata esplorata e fissata l’intera gamma delle possibilità.
Questa dimensione programmaticamente anti-letteraria caratterizza peraltro l’intera esperienza del teatro moderno. Proprio il rapporto di Lepage con l’esperienza del teatro del Novecento è uno dei nodi problematici che Anna Maria Monteverdi affronta da un punto di vista sia storico sia teorico. Proprio evidenziando le continuità e le discontinuità rispetto a esperienze analoghe (a cominciare dal nuovo teatro americano, il punto di riferimento più immediato) – e rispetto alle radici visionarie del teatro novecentesco (ovvero i teorici d’inizio secolo, e in particolare Edward Gordon Craig) che le avanguardie teatrali degli anni Sessanta e Settanta sono finalmente riuscite a mettere in pratica – è possibile illuminare l’idea del teatro e dell’uomo che sottende il percorso artistico di Lepage.
In secondo luogo – e questo è il nodo centrale della tesi di dottorato da cui è nato questo libro – al centro della ricostruzione e della riflessione di Anna Maria Monteverdi ci sono l’uso e il ruolo della tecnologia sulla scena. Le magie macchinistiche e scenotecniche di allestimenti come Les Aguilles e l’Opium o Le Poligraphe, rispetto all’essenzialità funzionale del copione scritto, hanno sconcertato più di un critico (anche se probabilmente hanno spiazzato più i critici del pubblico), che ha giudicato i suoi spettacoli «ipertecnologici» e dunque troppo lontani dall’autenticità «naturale» (o umanistica) del teatro, e dunque dalla sua specificità, che dovrebbe contrapporlo ai media più moderni.
In questo senso l’argomentazione di Anna Maria Monteverdi è sottilmente illuminante. In primo luogo fa piazza pulita di alcuni fuorvianti luoghi comuni, riconducendo l’uso della tecnologia alle origini del teatro, alla maschera, e dunque all’essenza profonda del fatto teatrale, alla sua dimensione rituale. Al tempo stesso riconduce (con il sostegno di Lepage) l’invenzione della tecnologia alle origini dell’umanità: perché, riprendendo il filo del ragionamento del regista, troviamo il fuoco alle origini tanto della civiltà quanto del teatro. Dunque, con paradossale ironia, scopriamo che questo teatro «modernissimo» (ma non «postmoderno») nasce dalla necessità di misurarsi con problemi antichissimi, fondanti.
Partendo dallo strettissimo intreccio tra maschera e techne, Anna Maria Monteverdi illustra le diverse funzioni che la tecnologia assume via via nel teatro di Lepage e nel suo rapporto con lo spettatore. Sul primo versante, il nucleo centrale è la relazione con l’Altro, uno dei temi chiave della sua opera, esplorato sulla scena in una duplice declinazione: quella politico-sociale, con le problematiche del multiculturalismo; e quella psicologica, con testi popolati di coppie di fratelli o di alter ego del protagonista-narratore (perché il Doppio è l’incarnazione più inquietante dell’Altro, quella più vicina a noi e dunque più inquietante). Nei confronti del pubblico, assimilando alla scena quello che la tecnologia porta all’interno dell’orizzonte contemporaneo, Lepage gioca sul doppio versante della fascinazione e della demistificazione, del virtuosismo sorprendente e dell’ingegnosità del bricolage. Offre così una riflessione sul suo valore e sul suo effetto sulle nostre vite e sul nostro immaginario. Ma sempre tenendosi lontano da ogni ideologismo, e verificandone l’impatto sulla propria pelle di autore e di attore, perché spesso Lepage è il primo interprete dei suoi spettacoli, ed è lui stesso a collaudarne le complesse (e a volte pericolose) macchine sceniche.
Qui è possibile cogliere una delle possibili chiavi – certamente non l’unica – che permette di leggere l’intera opera di Lepage, nella sua profonda relazione con l’essenza del teatro. Spettacolo dopo spettacolo, sta sedimentando una affascinante mitologia personale, che nasce spesso dalla sua esperienza e da un doloroso percorso di autoanalisi, oltre che dalle sue riflessioni sulla funzione dell’arte e sul ruolo dell’artista. La sua scommessa di umanista nell’era del trionfo della tecnica, così prepotentemente affascinato da Leonardo da Vinci, è che sia possibile trovare un equilibrio tra l’uomo e i suoi «prodotti»: la tecnologia, naturalmente, ma anche la storia, che a essa è intimamente legata. In questo difficile equilibrio – sembrano suggerire alcuni dei suoi spettacoli più riusciti – è possibile scoprire quel filo misterioso che chiamiamo destino. Forse è solo un’illusione, ma permette di inventare un grande teatro, un teatro necessario.


 
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