ateatro 73.10
Il teatro e lo «Spirito della terra»
Un festival etno-ecologico per scoprire la Siberia e le periferie del teatro russo
di Mimma Gallina
 

E’ dal 1992 che non andavo in Russia. Un’assenza lunga dopo una frequentazione intensa nel periodo della ‘perestroika’ (quell’era della trasparenza che sembra chiusa – temo definitivamente – dall’ultimo Putin). Negli anni a cavallo del ‘90 ho collaborato ai primi scambi teatrali intensi fra Italia e Unione Sovietica. E’ stata – per i molti che hanno lavorato sui due fronti a questo incontro – un’esperienza mitica, esaltante e faticosa; per noi italiani, una full immersion in un paese che emergeva, si apriva a vie artistiche e organizzative nuove, risucchiato continuamente verso il basso da un passato troppo ingombrante, che pesava sulle cose e sulle persone in ogni momento della vita e del lavoro. Era anche un paese alla fame. Incerto sul suo futuro. Nel giro di pochi mesi, nel 1991, sarebbe successo di tutto: il tentativo di colpo di stato, Gorbaciov cadeva, sorgeva l’astro di Eltsin, l’URSS si disgregava, con distacchi più o meno cruenti (la Lituania, l’Ucraina) e poi mancati distacchi, più cruenti ancora (la Cecenia, la questione del Caucaso).
Da allora, dalla Russia è arrivato in Italia molto teatro, molto importante e possiamo dire di conoscere bene le punte di qualità di quella tradizione e la sua vitalità.
Da parte mia, in questi anni ho frequentato molto l’Europa dell’Est, inclusa qualche ex repubblica sovietica, Ucraina, Moldova, ma ho colto per la prima volta quest’anno l’occasione di un ritorno nella grande federazione russa. L’opportunità è davvero stimolante: teatrale, e non teatrale, unica per scoprire nuovi territori e misurare il cambiamento della Russia, non dalle sedi di rappresentanza, ma dalle estreme periferie e proprio là dove l’anima slava si incontra con quella asiatica
Si tratta della seconda edizione del Festival Teatrale internazionale Etno-Ecologico ‘Tchir Tchayan,’ (ovvero Spirito della Terra) che si svolge ad Abakan, la capitale della Repubblica di Khakassia in Siberia, nella prima metà di agosto.

A MOSCA
Volo Alitalia da Malpensa. Italiani e russi siamo più o meno fifty/fifty, a colpo d’occhio, ma noto molte coppie miste con bambini: italiano il padre/russa la madre.
Inizio finalmente a riordinare le idee: mi sono portata Kapuscinski che trovo sempre formidabile (Imperium e Lapidarium), attacco Russia di Enrico Franceschini: che è chiaro e affettuoso: io penso che il giornalismo di viaggio debba essere scritto con il cuore, e per fortuna c’è una guida Lonely Planet: Russia asiatica..
Giulietto Chiesa l’ho lasciato a casa (è così chiaro che credo di averlo ben chiaro) e purtroppo non ho trovato Terzani, Buona notte signore Lenin – pare sia da non perdere ma è in ristampa.
Arrivo a Mosca: non sembra cambiato un gran che, almeno alla dogana. Due ore due di coda: sotto organico? disorganizzazione? ostentazione di potere? Tutto questo credo e altro (ma il terrorismo non centra): sono arrivati molti voli contemporaneamente (è possibile che i turni non ne tengano conto? ovviamente sì), i moduli della dichiarazione doganale sono equivoci e c’è chi chiede spiegazioni, chi deve rifarli, ogni tanto qualche addetto abbandona la postazione, nessuno sa se ritornerà e quando: ordinaria amministrazione (a proposito: i passaggi sono gli stessi dell’era sovietica, con lo specchio inclinato un po’ sopra la nuca dei passeggeri tanto da consentire al doganiere di vederli giù, fino ai piedi: mi sembrava già allora che facessero tanto guerra fredda).
Irina mi aspetta da due ore e altri ospiti del festival in arrivo dalla Repubblica Ceca da solo un po’ meno: è previsto un minibus che porta tutti in centro.



Voglio presentarvi Irina Miagkova, cui devo l’invito a questo festival: è presidente dell’associazione dei critici di teatro di Mosca e traduttrice dal francese, ha superato i sessanta e sa tutto del teatro russo, anche delle più remote periferie (e molto del teatro francese), oltre a questo è una donna molto simpatica e energica.
Attraversamento di Mosca: è domenica, una bella giornata, le 18 circa poca gente in giro ma caffè con tavoli fuori, molta pubblicità, vetrine lussuose, colori, macchine occidentali. Nel ‘90 c’era la coda per alcuni generi alimentari (e molto ne mancavano), i ‘berioska’ per i turisti (dove si trovava di tutto a prezzi stratosferici), apriva il primo MacDonald (mi ricordo la coda: c’è ancora! vistosissimo con la sua inconfondibile scritta ma in cirillico, primo di una lunga serie: "Mai come a Milano" mi dice Irina, che è stata di recente a un paio di festival italiani ed è passata in corso Buenos Aires). Sulla via dell’aeroporto ho visto un Ikea (l’inconfondibile cubo blu: e mi immagino che anche i russi ora abbiano librerie billy e materassi divan), un paio di centri commerciali color pastello, un distributore Agip (bene, ci siamo anche noi!): è la globalizzazione, baby!
In centro molte nuove costruzioni: un tentativo di architettura che non rinnega lo stile staliniano (i famosi palazzoni sono stati del resto molto ripuliti): una certa monumentalità, costruzioni su più livelli, un accenno di pinnacoli. Anche i palazzi storici sono stati in molti casi restaurati, le cupole delle chiese ortodosse sono ancora più brillanti. Tutto è un po’ meno grigio. Pare che la gente sia più allegra.


MOSCA/ABAKAN

All’aeroporto in metro e bus. Irina da pensionata passa senza biglietto (al rientro leggo sui giornali italiani di questi stessi giorni che è proprio uno dei privilegi che hanno tolto in una ‘riforma’ di agosto molto pesante che ridimensiona il welfare un po’ a tutti i livelli): c’è la coda allo sportello, allunga qualche rublo alla donna all’ingresso e passo con lei (senza biglietto, come una vera pensionata russa). Commentiamo: una ‘corruzione’ spicciola (io la percepisco come tale), del tutto normale, Irina non si stupisce che mi stupisca (ha frequentato molti francesi) ma questo non le impedisce di considerarmi ingenua, e un po’ idiota.
Aeroporto nazionale: scritte e annunci solo in russo, affollamento. La nostra è la linea area di ‘Novosibirsk’, il volo è diretto appunto al capolinea est della federazione, con scalo a Abakan. La vecchia gloriosa Aeroflot si è disintegrata in una miriade di compagnie locali: trovarle e organizzare un viaggio articolato dall’Italia è pressoché impossibile. Quasi 5 ore di volo, 4 ore di cambio fuso: normale in questo paese immenso. Siamo partiti nel primo pomeriggio e arriviamo alle 2 di notte. Ci sono alcuni componenti delle compagnie e tutti gli ospiti del Festival su questo volo (che poi sono francesi, cechi, turchi e moscoviti): ma non riesco a fare nessuna conoscenza perché siamo strettissimi, pigiati su un apparecchio molto piccolo (per una volta sono contenta di essere piccola anche io).
Ad Abakan ci fanno un’accoglienza molto festosa, ai piedi dell’aereo (giù dalla scaletta: come nelle foto degli anni ‘50): fiori a ciascun ospite, ragazze con costumi locali (della Kakassia) offrono la bevanda tradizione locale in ciotole di ceramica (è un succo un po’ acido, non alcolico), poi all’interno dell’aeroporto discorsi (fra gli altri c’è la signora ministro della cultura, il direttore dell’aeroporto e lo sponsor: la compagnia russa dell’alluminio!) e champagne (quello russo naturalmente: una terribile alternativa elegante alla vodka): calore, ospitalità e ufficialità che ben ricordo.
Comincio a identificare gli organizzatori e gli ospiti. In primo luogo il direttore artistico e regista del teatro nazionale delle marionette ‘Skaska’, che organizza il festival, Eugeni Ibragimov, e Svetkana Okolnikova, il direttore generale.



Noto subito che nessun indigeno parla nessuna lingua che conosco: quelli che se la cavano meglio sono i turchi (del teatro nazionale di Ankara), perché il kakassiano, come la maggior parte delle lingue delle regioni siberiane, è di ceppo turco e fra loro si capiscono benissimo (molto più che, ad esempio, fra le diverse lingue slave). L’Hotel Abakan (il migliore della città) è carino e la mia camera è grande. Di fronte c’è una discoteca ancora funzionante (sono le 3 circa).

ABAKAN e il FESTIVAL

LE COLAZIONI

Ovvero: la rigidità dell’homo sovieticus è felicemente sopravvissuta.
La prima colazione (molto importante qui) all’Abakan si fa nel ristorante annesso, aperto anche all’esterno, il nostro coupon prevede un ‘complex’ consistente in: uno zuppone molto ambito (non proprio il classico ‘Kasa’, che sembra un po’ il porridge), un dolce con molta crema, un piatto forte che la prima mattina altro non è che una grande fetta di pizza, naturalmente ‘ciai’ (the: come in quasi tutta l’Asia) o caffè. Vi assicuro che non sono particolarmente delicata: ma un complex dell’Hotel Abakan mi basterebbe per due giorni, in compenso non contiene niente che consideri commestibile di prima mattina. Il primo giorno me la cavo con ciai e dolce (cercando di togliere un po’ di panna). Il secondo provo a sostituire il tutto con uno yogurt: la ragazza mi fa capire che non ce l’ha; allora con un succo (soc: una delle poche parole russe che so), mi fa capire che va pagato a parte. La terza mattina Irina fa uno ‘scandalo’ e riesco a ottenere per noi (altri occidentali sono in imbarazzo analogo) un succo e un microscopico panino in sostituzione dell’ambito ‘complex’. L’ultimo giorno comparirà lo yogurt. Irina mi spiega che in Russia la rigidità/apatia o burocrazia si vince (tuttora) o con scenate o con pazienti aggiramenti: pratiche in cui – lingua a parte – è meglio che noi non ci azzardiamo neanche e in cui invece lei eccelle. Comunque imparo la lezione.

L’INAUGURAZIONE, LO SCIAMANESIMO
Il festival parte con una ‘vera’ inaugurazione, un coinvolgimento reale della città a diversi livelli: chiunque organizzi un manifestazioni di qualità, ma che si ponga come obiettivo anche il rapporto con la gente e con il territorio, sa che questo momento è un problema. Gli amici di Skazka si sono un po’ scaricati la responsabilità e il risultato non è esteticamente eccezionale, ma decisamente di massa: uno spettacolo folcloristico con bambini e ragazzi in abiti tradizionali (un po’ falsificati e poveri, ma che rivelano molto forte la componente orientale), organizzato da dipartimenti comunali e dalle scuole, una parata dal parco al teatro cui partecipa molta gente, assieme ai ragazzi precedentemente coinvolti e alle compagnie già presenti ad Abakan, infine un rito sciamanico e molti discorsi ufficiali (autorità e sponsor), opportunamente ridimensionati dalla presentazione una a una delle compagnie ospiti (qualche battuta, brevi scene, qualcuno in costume) e del logo del festival, molto bello, ispirato alle incisioni rupestri della zona (e riprodotto su magliette, bandane, pass, nella migliore tradizione dei festival internazionali).



E’ una giornata splendente, circa 25 gradi (dato sufficiente da queste parti per essere felici), e il centro della città – con le sue architetture anni 50/70 – appare abbastanza ben tenuto e gradevole. Gli abitanti di Abakan – soprattutto i bambini e le ragazze, soprattutto gli indigeni (con fattezze asiatiche) e i sangue misto – sono molto belli.



Il rito sciamanico (che caratterizzerà con forme diverse altre occasioni nei giorni successivi) è officiato da una sciamano donna, con alcuni assistenti, e consiste in una serie di invocazioni ai diversi spiriti, con richiesta di benevolenza, assecondate da movimenti ondulatori e una breve processione che si conclude intorno al fuoco, il tutto accompagnato da percussioni. A tutti si chiede di bruciare un nastrino nero (che simboleggia il male che viene così eliminato) e annodare a un albero tre nastrini colorati (volendo si può esprimere un desiderio: come quando cadono le stelle, in questi casi io sono sempre presa alla sprovvista).
(Chiedo sinceramente scusa agli esperti e appassionati di ritualità e teatro rituale per la probabile banalizzazione di questa descrizione; sono davvero ignorante in materia, e in questo primo impatto l’ironia ha il sopravvento e mi impedisce forse di cogliere sfumature importanti, ma posso certificare che l’effetto di insieme è abbastanza spettacolare e coinvolgente).



Lo stesso nome del festival ‘Tchyr Chajan’ (Spirito della terra) si richiama alla tradizione panteistica locale. E mentre sulla definizione di ‘etno-ecologico’ ci saranno alcune discussioni, sullo ‘spirito della terra’ sembriamo tutti allineati sulle posizioni sciamaniche: cioè ci prestiamo volentieri ai riti propiziatori! (rientrando a Milano mi sono accorta che mi era rimasta una combinazione di nastrini e mi sono affrettata a bruciare quello nero: non si sa mai)
(Nota di colore: la signora Sciamano la sera a cena si trova al tavolo degli ospiti turchi con cui può comunicare e, toccando la mano di un rappresentante del teatro di Ankara e guardandolo negli occhi, gli dice di stare molto attento al fegato e di essere moderato. Cinque giorni dopo il poveretto non riesce a partire con noi in battello perché – non essendo stato propriamente moderato – è colpito da una colica fulminante e ricoverato d’urgenza. Per fortuna la sciamana, chiamata al telefono, comunica subito all’ospedale diagnosi e cura.)
Mi sembra degno di riflessione questo revival dello sciamanesimo dopo la durissima repressione sovietica. Gli sciamani ereditano i propri poteri (nel senso che potrebbero avere – ma non necessariamente avranno – le stesse capacità e poteri dei genitori) e sono di diverso tipo: assimilabili a sacerdoti, ma anche solo assistenti, musicisti, guaritori o medici (la conoscenza e l’utilizzazione delle erbe ricopre un ruolo importante anche nei riti) e molto altro ancora.
Saremo nuovamente coinvolti in un rito sciamanico passando il confine fra il territorio di Abakan e quello di Krasnoyarsk: un benvenuto officiato appositamente per noi attorno a un totem, in un punto sacro, segnato dalle continue cerimonie rituali, e ancora nella prima giornata al parco nazionale, ma soprattutto ne troveremo traccia dappertutto intorno agli innumerevoli monoliti e ‘kurgan’ (steli o monumenti funerari) sparsi nella steppa (risalenti a qualche migliaio o anche un centinaio di anni fa): le cose per secoli non devono essere cambiate molto da queste parti, si sono solo interrotte per un’ottantina d’anni.
Al di là del sospetto che qualcuno degli organizzatori locali ci creda davvero (allo spirito della terra, perlomeno), lo spazio dedicato a questi riti corrisponde all’intenzione di richiamare le origini, le caratteristiche della cultura locale: una riscoperta delle ‘radici’ cui si collega la ‘sincerità’ degli spettacoli e che dà un senso al tema del festival (tanto per quanto riguarda il lato ‘etnico’ e, in questo caso, anche ecologico).



Cinque giorni di spettacoli

Il festival è organizzato dal Teatro Sakkza (che vuol dire racconto, fiaba): è il teatro nazionale di marionette della Khakassia, esiste dal 1979 ma solo recentemente ha ottenuto il riconoscimento di ‘teatro nazionale’ (non solo formale: scatto salari eccetera). Naturalmente il termine ‘marionette’ è riduttivo: il teatro utilizza una varietà di tecniche che raramente ho visto padroneggiare da una stessa compagnia – marionette a filo, burattini, pupazzi, di piccole dimensioni o enormi (anche per parate/spettacoli di strada), animazione su nero, ombre, bunraku, semplice uso di maschere e altro – gli animatori sono attori di primissima qualità, una quindicina in tutto, e quasi tutti anche ottimi musicisti. Il teatro nel suo complesso ha un attività molto intensa (30 spettacoli in repertorio dei 100 prodotti nei suoi 25 anni di vita, numerosissime rappresentazioni in due diverse sale, progetti di impegno sociale: da segnalare il lavoro nelle carceri, sostenuto anche da ‘Open found’) e considerando tecnici, personale di sala, amministrativo eccetera può contare su circa 60 dipendenti (ma su pochissimi soldi). Forse troppi, certo (per fortuna anche un po’ della protezione del lavoro dell’ex URSS è rimasta in vigore), ma è inutile sottolineare ancora una volta che da queste macchine un po’ burocratiche che sono (o sono stati) i teatri del centro e est Europa, e che dalla solidità e continuità operativa che hanno garantito è uscito un grande teatro: quale teatro di figura da noi può contare su un organico simile? e quale teatro, avendolo, continuerebbe a produrre anche spettacoli molto semplici, dove la semplicità – e la ricerca della semplicità – non è una condizione economico-organizzativa ma un punto di arrivo, una scelta artistica?

Il repertorio di Skazka – con spettacoli anche molto recenti e uno prodotto per l’occasione – ha una parte molto importante nel programma del festival, ed è per me una autentica rivelazione (da solo vale i viaggio). Penso che sia la consapevolezza della qualità – per certi versi della eccezionalità – del proprio lavoro che ha la comoagnia spinto all’organizzazione del festival, che da un lato consente di proporsi agli altri teatri russi come elemento catalizzatore, dall’altro favorisce l’apertura e i contatti internazionali.
Il regista Eugeni Ibragimov e i suoi collaboratori catturano lo spettatore – adulto o bambino: ma la maggior parte delle produzioni sono per adulti – con immagini, storie, personaggi, in apparenza naïf, in realtà di notevole complessità estetica, filosofica, tecnica. La precisione, la raffinatezza dei movimenti non insegue tanto il realismo – ovvero la massima possibile affinità con il comportamento umano (come nelle nostre tradizioni marionettistiche più blasonate – quanto la «verità» del personaggio, che a volte risulta davvero indimenticabile.
Eugeni è sulla quarantina, circasso (caucasico quindi), piccolo, vitalissimo e di grande comunicativa (del genere che supera le barriere linguistiche – infatti non parla nessuna lingua occidentale – e pare lo renda eccezionale nei laboratori: questo mi dicono gli amici francesi presenti). Dopo innumerevoli vicissitudini e mestieri, quinti piuttosto tardi (ma la vita per un caucasico è un po’ più difficile che per gli altri nella nuova Russia, e certo andrà peggiorando), è arrivato all’Istituto superiore di Marionette di Pietroburgo (il migliore di tutta l’area ex sovietica) e ad Abakan è approdato nel ‘98. Oggi è amato in tutta la Russia (e conosciuto in Polonia, nella Repubblica Ceca, in Francia).



Le sue origini segnano molto – e molti – spettacoli, ma si contaminano volentieri con altre tradizioni e culture, tanto nella scelta dei testi e dei temi che a livello visivo e musicale (da quella classica russa – colta e popolare – a quella ebraica, dalle suggestioni locali di una antica terra di confine che si riconosce oggi nelle repubbliche di Khakassia, Tuva, Altaj a una evidente curiosità e conoscenza dell’arte visiva del Novecento), il tutto produce una varietà di stili, anche grazie alla collaborazione di scenografi diversi (Ibragimov non crea personalmente i suoi pupazzi), ma una sintesi molto personale (sostenuta anche da una competenza tecnica e tecnologica rara e non ostentata: luci e movimenti così perfetti che non te ne accorgi).



Jacob Jacobson è una fantasia muta, con musiche dal vivo, tratta dalla commedia di Aaaron Zeitlin: una storia privata – amore, gelosia, abbandono – si svolge fra i diversi piani di un transatlantico, ai primi del novecento; una crociera simbolica, che riunisce classi diverse e diversi tipi umani che navigano verso la rovina, fra naufragi reali o sognati, fino a un immaginifico happy end: un epilogo in cielo, in cui la creazione del mondo riparte (forse si può rifare tutto, forse un mondo migliore è possibile). Marionette a filo e pupazzi mossi su nero si muovono su più piani e sono di almeno tre dimensioni, il che non consente solo effetti prospettici suggestivi, ma un’alternanza serrata, senza alcun rallentamento tecnico (lo spettacolo è coprodotto dal francese Théâtre de la Manifacture).
Anche La coppa d’oro parla della creazione, ma a partire dalla tradizione epica della Khakassia; la scena, le maschere e i pupazzi (in questo caso di dimensione umana), utilizzano elementi visivi dell’arte rupestre e dei reperti delle diverse stratificazioni preistoriche e storiche, la vicenda scarna riprende frammenti di leggende turche, tutto è dominato da suggestioni della tradizione sciamanica. Soprattutto nella componente musicale – che in questo caso sovrasta qualitativamente quella visiva – ed è basata sulla tradizione folk di Khakassia e Altay, con strumenti originali e quell’incredibile accompagnamento vocale ‘di gola’, che quasi non sembra umano, che di solito si connette alla tradizione di Tuva (solo un po’ diversa).
Il tema della storia del mondo e dell’uomo e dei nostri torti verso la natura, è molto caro a Ibragimov e al Teatro Skaska ed è al centro anche dell’ultima produzione, quella appositamente realizzata per il festival, di cui abbiamo visto un’anteprima (adattamenti e tagli sono annunciati), caratterizzata da un indicativo titolo provvisorio: Athanatomania (dal greco, anche nel titolo russo, cioè: la mania dell’immortalità). In una serie di brevi quadri, commentati da diapositive/citazioni particolarmente efficaci, si percorre la storia dell’uomo, dalla creazione, al diluvio, su su fino alle scoperte scientifiche, alle guerre recenti, alla caccia, allo squilibrio dell’ambiente. Ma anche in questo caso il finale è luminoso: un mondo migliore è possibile, sta a noi. Un po’ didascalico – perché no? – lo spettacolo è visivamente splendido: uomini, animali, oggetti sono in questo caso di piccole dimensioni, inquadrati, quasi schiacciati dalla scatola nera-mondo che si illudono di dominare. Una commedia umana (molti i passaggi spiritosi) e assieme una ‘tragedia dell’uomo’ (e ricorda infatti in alcuni passaggi l’opera di Imre Madach).



Pupazzi piccoli, piccoli e visione ravvicinata e raccolta, anche per lo spettacolo forse più unitario visivamente (ma molto ‘parlato’): Giuda Iscariota. Il traditore, adattamento di Ibragim Chauokh (il drammaturgo del teatro) del romanzo di Leonid Andreev. Esterni, interni e personaggi di una minuscola Palestina color ocra, illuminata da drammatiche luci di taglio, per una lettura non ortodossa del personaggio di Giuda: in questo caso il discepolo che più ama Gesù, il più buono e il più forte, l’unico che potrà portare a termine una missione così terribile. La costruzione dei personaggi in questa scala, e la forte componente testuale, valorizza al massimo la qualità degli attori-animatori.
Parlati certo, ma molto più accessibili, due spettacoli per bambini e per tutti.



Dove il mare è più blu si basa sulla Favola del pesce e del pescatore di Puškin: un racconto filosofico sull’incapacità di accontentarsi di quello che si ha: etica e ecologia anche in questo caso, con due pupazzi teneri e prepotenti.
Il vecchio e la lupa (che vedremo all’aperto nella seconda parte del Festival) è invece una favola circassa, ricostruita secondo la tradizione caucasica del carnevale folk ‘Jegu’: i pupazzi (di grande espressività in sé, essendo minime le possibilità di movimento) sono mossi da semplici bastoni grezzi e la qualità interpretativa degli animatori-attori è fondamentale. Nell’accompagnamento musicale dal vivo che da allo spettacolo un ritmo serrato, prevalgono le percussioni – tradizione circassa anche in questo caso. Qui Eugeni è tornato alle radici, e ha fatto uno spettacolo modernissimo.



Non parlerò di tutti gli spettacoli del festival ma di quelli che per diverse ragioni (non solo estetiche), mi sembrano più interessanti.

Restano nell’ambito del teatro ‘di figura’ voglio segnalare un’altra opera notevole, tanto più in quanto ‘opera prima’ di una giovane scenografa, artista visiva: Dopo la pioggia (Una storia familiare per adulti, si precisa quasi come un sottotitolo) di Tatiana Batrakova. E’ la storia molto delicata di un amore impossibile, o che semplicemente non c’è stato: un vecchio gattone malandato, un po’ gentiluomo di campagna (un po’ Oblomov), e una capricciosa vecchia barboncina, ritornano col pensiero ai gesti non fatti e non colti, fantasticano su quello che avrebbe potuto essere e cercano tardivi e comici recuperi (come quando il gatto porta in dono all’anziana amica un topolino ucciso). In uno spazio piccolissimo ma colmo di oggetti minuscoli, con due case/gabbie distanti e vicine e una terra di nessuno dedicata al ricordo e al sogno, i due animatori muovono i pupazzi a vista, e seguono con la mimica la loro storia (muta) assecondati da uno struggente accompagnamento musicale classico. Uno spettacolo cechoviano, con echi della grande narrativa, della distanza, della malinconia, dell’inverno, della incapacità di agire: il più russo che ho visto. La compagnia è il Teatro di Marionette della Repubblica di Mari El e anche questo mi sembra interessante: quanti di voi l’hanno sentita? Era territorio militare, praticamente tagliata fuori dal mondo.
(Negli anni in cui l’URSS si stava disintegrando, «Cuore» – credo – aveva pubblicato un’intera pagina con i nomi dei popoli sovietici. Forse qualcuno lo ricorderà: il lettore doveva indicare VERO o FALSO , fra circassi, ingusci, ceceni – oggi noti – e i meno noti yakuty, nivkhi, tungusi eccetera. Erano tutti veri!).

Anche nel teatro di solide tradizioni interpretative russe classiche, fondato nel 1930, di Komy-Permyastsky (non lontana dalla più nota Perm, a ovest degli Urali), è arrivata una piccola rivoluzione. Nel nostro villaggio, questa volta con attori in carne ossa, propone una favola-leggenda locale ‘a morale’ : nello scontro fra ricco e povero al cospetto di un ridicolo improbabile zar (nessuna allusione a Vladimir I naturalmente) vince l’intelligenza. La novità sta nel fatto che anche qui – nel cuore della Russia – è in atto un recupero della tradizione dei diversi popoli e il testo è recitato nella lingua locale, quella della minoranza-maggioranza, che è di ceppo ungro-finnico (un’isola etnico-linguistica persa nella steppa: chi sa, un gruppo rimasto indietro dalle grandi migrazioni).
Sarà la gioia di riappropriarsi delle proprie radici, la giovinezza della compagnia, il ritmo della storia (un po’ Bertoldo un po’ Il re è nudo): lo spettacolo del regista e scenografo Anatoly Popov, è davvero fresco, sincero, molto divertente (un grande successo ad Abakan, nonostante la differenza di lingua).
Personalmente trovo degno di nota che si abbia il coraggio di mettere in scena – per adulti – favole simili: del resto la semplicità, l’essenzialità dei temi, è una delle cose che il festival intende, e vuole valorizzare, come ‘etnoecologiche’.

Dal teatro di Orel – qui siamo a poche ore a sud ovest di Mosca (e potete facilmente trovare la città sulla carta geografica) – il festival ha deciso di invitare uno spettacolo che ha ormai dieci anni di successo in Russia, ma anche in California (dove ha debuttato): Zanna Bianca (un musical-parabola dal romanzo di Jack London), diretto da A. Michailov. La storia del famoso lupo, ma anche il rapporto simbolico fra uomo e natura, e l’evoluzione di un amore, sono realizzati con le tecniche tipiche del musical – coreografie, musica e una minima componente recitata – da una compagnia d’insieme, molto affiatata e molto professionale. Qualche cedimento al gusto americano nelle coreografie, non è comunque tale da compromettere l’originalità dello spettacolo, e si colloca in una linea di apertura e interesse internazionale di questo teatro (anche per l’Europa, quindi: l’Italia prossimamente).

Il teatro drammatico e musicale di Tuva, attivo a Kisyl dal 1936, ha colto invece l’occasione del festival per mostrare il meglio delle ricchissime tradizioni del territorio: musicali (le percussioni, le voci di gola) e di danza (decisamente di influenza orientale: mongola e cinese), legate allo sciamanesimo e al buddismo, violentemente repressi in periodo sovietico, e che stanno attraversando ora un grande revival (in parte sincero, in parte – mi sembra – orientato in senso commerciale/turistico). Lo spettacolo era un vero pasticcio, ma il virtuosismo vocale spiega il fanatismo degli appassionati di world music (provate a cercare in internet e ne avrete la prova).



(Sono stata a Kyzil e un po’ in giro per Tuva, credo che il fascino della musica, dello sciamansimo e del suo accostamento, e contaminazione, con il buddismo, non sia estraneo all’incredibile paesaggio collinare-desertico, incontaminato: siamo nel centro geografico dell’Asia, al confine con la Mongolia – recentemente riaperto – e Pechino è molto più vicina di Mosca).



Da Tuva, anzi proprio dal teatro di cui abbiamo appena parlato, arrivava anche Maxim Munzuk, l’indimenticabile protagonista di Dersu Uzala, il film di Akira Kurosava del 1975. A Munzuk è dedicata una mostra un po’ sintetica, che si propone però come prima tappa di un progetto franco-ceco, che vuole valorizzare il successo mondiale del film.

Tutti di buon livello, ma non particolarmente originali gli altri spettacoli russi. Limitate e amichevoli per ora (ma siamo alla seconda edizione e tutti sperano che il festival possa crescere), le presenze straniere: Estonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Egitto, Turchia.



Una scoperta per tutti è l’antico teatro turco delle ombre (risale al XXVIII secolo): con un laboratorio e uno spettacolo, l’istrionico Mustafah Mutlu, le sue storie e il suo personaggio Karagoz (che dà il titolo allo spettacolo) diventa un po’ la star del festival. Il recupero e il lancio internazionale di questa antica tradizione è opera del Teatro Nazionale di Ankara, ma Mustafàh fa davvero tutto lui: costruisce, anima e da voce a tutti i suoi personaggi, caratteri e storie popolari, naturalmente, col profumo di antichi bazar.
Da Ostrava e Tylova (Repubblica Ceca), due giovanissime compagnie propongono a loro volta la loro ricerca sulle tradizioni popolari (la ritualità, il carnevale): spiritosa la ricostruzione delle diverse versioni della Leggenda di Santa Dorotea.



E una singolare sintesi di tradizione vocale popolare fra Europa centrale e Russia asiatica, ci arriva da Eva Kanalas: Eva ha viaggiato a lungo in tutta quest’area, dall’Ungheria, alla Moldova, all’Altay, ha a studiato e fuso con pazienza e passione le differenti tradizioni vocali, le tecniche di respirazione. Il suo concerto (molto semplice, ma molto teatrale) è una sorta di esperanto della vocalità, oltre il quale sembra di ritrovare i rumori della natura, i richiami degli animali, il vento.


INTORNO AD ABAKAN

Ma Abakan non è solo teatro (e credo che neppure voi sareste venuti qui solo per gli spettacoli). La città è al centro di un territorio bellissimo: una prima escursione, ci porta fino a 60 km. circa dal centro, ed è alla scoperta di alcuni dei principali monoliti e monumenti megalitici (simili a quelli bretoni o scozzesi), steli funerarie, totem, percorsi e recinti sacri imponenti e un po’ misteriosi, così persi nella steppa. Pare che qui in Khakassia ce ne fossero migliaia.
La steppa è un prato incolto, un altopiano ondulato a perdita d’occhio. Qua e là qualche cavallo selvaggio e qualche cascina con recinti per il bestiame. Osservando meno distrattamente, l’erba è piena di piccoli fiori: fiori del freddo, come i nostri d’alta montagna, bianchi o di un azzurro intenso, o fucsia. Siamo in piena estate ma si può intuire il freddo e si può immaginare il paesaggio bianco a perdita d’occhio, con 35/40°C sotto zero per molti mesi l’anno.



Una seconda escursione, più impegnativa, ci porta fino a un parco regionale, naturalistico e archeologico, a 150 km circa a nord-ovest (oltre Abakan, nella regione di Krasnojarsk). Si costeggia a lungo lo Jenissey:, si intravedono grandi complessi industriali, in un caso almeno molto ben tenuti e relativamente recenti (è la Compagnia dell’Alluminio, il nostro sponsor: che pare brilli per correttezza ambientale e efficienza!), altri, vistosamente obsoleti. Immense tubature corrono lungo la strada e attraversano la steppa e mi chiedo e chiedo se trasportino gas metano e dove: è una delle grandi ricchezze della Siberia, che nasconde nel suo sottosuolo petrolio, carbone, oro, diamanti (in misura superiore ai territori del Golfo i primi e al Sudafrica i secondi), una ricchezza straordinaria, che fa della Russia il paese forse più ricco di materie prime del mondo. Ma nessuno me lo sa dire con precisione; del resto qui nessuno parla – a noi almeno – della crisi (dai contorni non chiarissimi) del colosso petrolifero russo di cui i giornali italiani, vedo al rientro, scrivono ampiamente Una ricchezza immensa è un immenso pericolo: certo la Cina verrà qui a prendere il suo petrolio (sono i giacimenti più vicini), speriamo pacificamente, e speriamo che il nuovo giro di vite di Putin contro l’autonomia delle Repubbliche non urti troppo le suscettibilità locali, dove in gioco non c’è qualche sciamano e la lingua kakassa, ma l’oro nero (anche le repubbliche autonome della Siberia centro meridionale, queste ai confini con la Mongolia – si vedranno infatti nominare da Mosca i loro governatori).
A un’ottantina di km. da Abakan il paesaggio diventa più marcatamente collinare ed è coltivato (grano e cereali), le cascine sono più frequenti, si vede anche qualche piccolo agglomerato. Poi boscoso. La nostra meta è il villaggio di Kazanovka dove inizia il parco: fra colline, fiume e bosco, le rocce nascondono incisioni rupestri che andiamo a scoprire con la guida di un simpatico giovane archeologo (i percorsi non sono segnalati per timore di vandalismi e saccheggi e in effetti non sarebbe facile trovare i reperti da soli): peccato che le spiegazioni siano in russo, con traduzione in turco e rari riassunti in francese (di Irina quando ne ha voglia). Risalgono da 3.000 a 500 anni a.C.: animali domestici e selvatici, di significato probabilmente rituale, ma che raccontano una vita non molto diversa da quella che contadini e allevatori conducono in parte tuttora. Il territorio è costellato da totem (tuttora sacri, di inconfondibile forma fallica) e steli funerarie. Se i pezzi scolpiti sono nei musei, ha un grande fascino trovarli così, persi nella natura. Ai bordi del parco archeologico (è stato ricostruito (anche per ospitare gli escursionisti) un villaggio di ‘jurte’: le classiche capanne siberiane, vaste strutture ottagonali di legno (tronchi grezzi o un intreccio di pali) coperte di feltro.
In uno di pochi momenti non programmati, mi spingo non lontano da Abakan, nella cittadina di Minusinsk, che conserva una chiesa abbastanza antica e un museo, all’interno di un bell’edificio ottocentesco., che pare sia il più ricco della ragione. C’è un po’ di tutto: reperti preistorici, soprattutto dell’età del bronzo, elementi di arredo, vetrine dedicate alla storia recente:il periodo sovietico inclusa guerra in Afganistan, la (prima) guerra in Cecenia, e anche all’artigianato e all’industria locale. Niente sui gulag, niente di niente.
Il tutto è molto polveroso e povero, ma sembra sia davvero il meglio che possano permettersi e il meglio della zona.

ABAKAN e la sua GENTE
La città di Abakan è recente, non credo di aver visto edifici precedenti gli anni ‘30 (il teatro Skaska risale agli anni ‘70 e l’enorme teatro drammatico è di poco precedente), fatta eccezione per qualche vecchia casa in legno, in tipico stile russo (finestre decorate e colorate, recinti e orti). Lo sviluppo – come per la maggior parte delle città siberiane che non si trovano sul percorso della transiberiana – risale alla grande colonizzazione, la spinta staliniana verso est, verso le miniere e comunque una qualche prospettiva di sopravvivenza dopo la crisi agricola e alimentare degli anni trenta. La città è stata ben concepita, viali grandi, molti giardini. Il parco centrale ospita una gigantesca statua di Lenin, una delle poche – mi dicono – in cui è seduto.



Per inciso: è probabile che in occidente non si sappia con chiarezza che Lenin – abbattuto nelle ex repubbliche sovietiche- in Russia è ancora l’indiscusso padre della patria (mi chiedo ad esempio: quando Berlusconi incontra il suo amico Putin è al corrente di quanto ancora sia leninista?). Ne parlo un po’ con gli amici russi: Lenin forse ha fatto qualche errore, ma non era consapevole, contrariamente a Stalin. E gli stermini in Caucaso ancora lui vivente?: quella era guerra civile. Vero, probabilmente. Inutile approfondire e sono troppo poco informata per introdurre i distinguo che penso ci vorrebbero. Non è facile parlare di storia, figuriamoci di politica: rispetto ai primi anni novanta – quando la gente parlava, parlava, parlava molto volentieri – mi accorgo che le mie domande irritano (se pure non – non ancora almeno – come quando rispondere poteva essere fatale). Parlando in un gruppetto di democrazia, sento un’efficace, scherzosa definizione: ‘la Russia è una monarchia burocratica’. Altrettanto scherzosamente gira la voce che un certo funzionario è lì a osservarci in quanto agente dell’(ex) KGB : ancora nei primi ‘90 gli agenti erano spesso gli interpreti stessi (che francamente mi mancano un po’: forse è per questo tipico accostamento che si studiano così poco le lingue?). Eppure la leadership Putin non sembra proprio messa in discussione: perfino Irina, che di certo ne coglie tutti i limiti, mi dice che è il primo politico russo di cui non si vergogni: parla una lingua correttissima e con scioltezza, non fa gaffes, non beve. E Gorbacev allora?: era un uomo del partito, molto più assimilabile alla vecchia nomenclatura, leggeva i suoi discorsi etc. Povero Gorby, così fondamentale e così poco popolare: potremo magari pensarci come sindaco per Milano...

I grandi edifici a 4/5 piani ricordano lo stile – e il degrado – moscovita: il problema della manutenzione e della pulizia degli spazi collettivi acquista in Russia, secondo Kapuscinski – e tuttora mi sembra – significati che vanno molto al di là del dato pratico, o del rapporto con la proprietà, investe l’idea che l’individuo ha di sé, del suo rapporto con la collettività. Abakan però come le altre città siberiane che ho visitato – è abbastanza pulita, nell’architettura non manca qualche originalità locale (nei balconi in legno, negli infissi etc.), qualche segno di decorazione tardo liberty, qualche ardita ‘modernizzazione’ (degli ingressi dei negozi al piano terra).



Si nota anche uno sviluppo recente: qualche edificio quasi nuovo in centro e una crescita della periferia (inclusa una recentissima chiesa in stile ortodosso classico), dove noto molte case unifamiliari in costruzione, di dimensione consistente, segno inequivocabile di sviluppo di una classe media.
La persona più intraprendente che ho conosciuto è il fondatore/proprietario del recentissimo ristorante-night club ‘Cosmos’ dove gli ospiti del festival cenano: è un uomo sui 35 anni, fattezze russe, del genere ‘duro’, le sue ambizione sono di avere tanto una clientela giovane, che di nuovi ricchi, e magari di stranieri: ma di stranieri per ora ad Abakan non se ne vedono, e del resto non si capisce perché ci dovrebbero venire. E’ praticamente uno sponsor del festival e comunica volentieri – è lui che mi accompagna al museo di Minusinsk – ma tramite la giovane segretaria: lui non parla una parola di inglese, come quasi nessuno ad Abakan (neppure in albergo).
A questo proposito faccio degli esperimenti coi giovani per strada chiedendo semplici indicazioni stradali (per il teatro, per la stazione, per il mercato): nessun ragazzo parla inglese, i maschi non si sforzano neppure di capirmi e aiutarmi, le ragazze, dopo il primo stupore, decifrano e danno indicazioni in russo e a gesti (più avanti, proseguendo il viaggio da sola, verifico che le donne della mia età – solidarietà? – sono quelle che si sforzano di più di aiutarti).
Un ragazzo francese ospite del festival – Lorent – riesce a stabilire qualche rapporto in più, da coetaneo: qualcuno trova alla fine qualche parola. Arrivano a scambiare informazioni sul servizio militare. Ne parliamo coi colleghi russi: mentre noi lo stiamo abolendo, mentre l’armata rossa (o rotta) è sempre più a pezzi, per i ragazzi resta un fondamentale rito di passaggio verso la maturità, i corpi e le facce cambiano, dopo, si ostenta durezza.
I giovani la sera si riuniscono in piccoli capannelli davanti alle rivendite di alimentari e alcolici (solo raramente davanti a veri e propri bar e solo in pochi all’interno dei locali) che sono aperte fino alle 23 e qualcuna anche 24 ore: acquistano birra in bottiglie grandi e passeggiano sorseggiandola. Tutti i ragazzi (e quasi tutte le ragazze) fanno lo struscio con in mano la bottiglia (maschi con maschi e femmine con femmine, rare le compagnie miste), qualcuno si infila in una sala giochi. Gira anche qualche bottiglia di vodka che, suppongo, d’inverno sostituirà la birra, disponibile in tutte le marche, nazionali ed estere, da 10 a 30 rubli: è notorio che la Russia vanta il primato mondiale per alcolismo, e mi sembra già di vederne qualche traccia nelle facce di questi ragazzi (ma dove si vedranno d’inverno poverini?). La campagna contro l’alcool, si sa, è stato forse il principale errore di Gorbacev, come può un uomo russo non bere?
Le ragazze sono vestite come le nostre ragazze (cioè in modo un po’ provocante: sempre che si considerino provocanti per esempio l’ombelico in vista e le magliette strette sul seno spesso prosperoso) e sono molto truccate (come del resto le loro mamme e nonne): ma me le immagino, poverette, infagottate per proteggersi dal freddo dieci mesi l’anno e penso che sia veramente il minimo. Del resto sono anche spesso molto belle, più dei ragazzi. Si individuano subito i russi-russi e gli indigeni (con fattezze mongole: se pure non così numerosi come a Tuva, dove sono la maggioranza).
Cos’hanno questi ragazzi della profonda provincia russa di diverso dai nostri (di una profonda provincia italiana)? Sono molto simili certo, queste sere d’estate sono un sabato del villaggio globale, ma temo siano più lontani dal mondo: pochissimi i punti internet ad esempio (e come navigare del resto senza inglese?). Girano pochi quotidiani, la televisione ricorda la nostra peggiore televisione: i telegiornali hanno un taglio decisamente locale, e il mondo passa attraverso X Files o Sonia Braga (che doppiata in russo è ancora più improbabile del sergente Moulder). Come potranno, questi ragazzi, accorgersi o reagire di fronte alle censure all’informazione, ad una prossima chiamata in Cecenia, o all’ultima riforma (che rende le elezioni una farsa)?
Cosa potrà importare loro di tutto questo, se non sanno neppure che – o perché – sta fallendo la compagnia del petrolio che potrebbe essere la loro ricchezza?
Gli spettatori del festival, davvero molto numerosi, confrontati con la ‘strada’ sono probabilmente un élite, un po’ più ‘borghesi’ (vestiti della festa, ma malissimo: è quello che passa il convento nei negozi locali, forniti, ma a modo loro, soprattutto con prodotti nazionali in cui per le donne dominano i tessuti sintetici). A teatro si va spesso tutta la famiglia: è periodo di vacanza, gli spettacoli sono – anche – per ragazzi, i prezzi bassi: il festival è un’offerta opportuna e gradita. Come è nella tradizione russa singoli spettatori portano spesso fiori agli attori: e anche i marionettisti qui sono vere proprie star (quelli del Teatro Skaska: del resto se lo sono conquistati, sono conosciuti e se lo meritano). Gli applausi ritmati – sono di solito molto caldi.
Il festival ha anche un altro sponsor individuale (oltre al proprietario del Cosmos): è Natasha, una signora quarantenne gentile, non bella ma vestita meglio della media anche quando è in tuta (di marca), che mette a disposizione il suo lavoro (accudisce maternamente gli ospiti, senza parlare nessuna lingua oltre al russo e li scarrozza con un macchinone di sua proprietà), e paga anche qualche conto per il teatro, per pura amicizia (naturalmente tutti la coccolano). Da dove arrivino i suoi mezzi, non so, ma certo una figura impensabile in periodo sovietico.
A qualche km. dalla città, nella collina che domina il fiume Abakan, c’è la zona delle dacie: come a Mosca, come dappertutto: anche qui la dacia non è tanto un luogo di riposo, quanto di secondo lavoro, è l’orto familiare (da qui verdura e sopravvivenza, e mantenimento del legame con la terra). Alcune sono villotte, altre poco più che capanni per gli attrezzi, più o meno ben tenute, non riscaldate (me le immagino in pieno inverno sommerse dalla neve).

DOVE SONO I GULAG?
Si stima che in Siberia, nel periodo stalinista, abbiano pero la vita 20 milioni di persone. I campi più duri e la maggiore concentrazione era più spostata a nord est e nella zona delle miniere, ma anche qui dovevano essercene molti (tuttora ci sono prigioni importanti, naturalmente per reati comuni). Irina ha un ricordo simpatico legato a una conferenza tenuta in zona nei primi anni ‘60: ricorda di essere capitata per caso a mangiare nell’unico possibile locale di Minusinsk: un postaccio, ma con un menù sofisticato, in francese, a prezzi bassissimi: incuriosita ordina tutto quello che può: una specie di pranzo di Babette; scopre poi che il cuoco è un ex deportato che non sa dove tornare e nella sua vita precedente era stato un grande chef (ristoranti, ambasciate, forse al Cremino!).
Chi sa quanti, dei pochi scampati, saranno rimasti.
Ma i campi, dove sono? Un po’ saranno state catapecchie non in condizione di stare in piedi. Un po’, quelli legati alle strutture produttive, saranno stati riconvertiti, e avranno subito lo stesso degrado. Ma possibile che non si sia pensato di tenerne in piedi uno?
O a un monumento al deportato. O a un museo. ALLA MEMORIA insomma?
(A Kysyl/Tuva entro nel piccolissimo ‘museo dell’oppressione’ – o della repressione – e mi aspetto di trovare qualche traccia: ma no, si riferiscono all’oppressione di buddisti, sciamani e indigeni in genere).
Forse da qualche altra parte nella grande Siberia ci sono tracce più conservate: forse, come suggerisce Kapuscinski, bisogna cercare le tombe collettive lungo la transiberiana. Certo, fra non molto la gente di qui – i giovani soprattutto – non ne saprà nulla. Non è un dettaglio come sa chi è stato a Auschwitz-Birkenau o anche solo alla Risiera di San Sabba. Non posso fare a meno di pensare che non sarà così difficile rifarne di nuovi.

LE CENE AL COSMOS
La prima cena al Cosmos è un ricevimento alla grande, come me ne ricordo a Mosca, del genere a buffet. Spicca il pesce affumicato (di fiume), aringhe, un ottimo salmone. Fra le verdure funghi soprattutto (e una specie di vol-au-vent con crema di funghi), naturalmente gli immancabili cetrioli, pomodori, cavoli, poi riso. I vini rossi vengono dal Sud America (commenti con i francesi), ma per fortuna ci sono vodka e cognac (ottimi). Le cene successive saranno tipiche russe: insalate ‘russe’ appunto, zuppe di cavolo o di carne, carne grassa con verdure. Il tutto è un po’ invernale. Però il pane nero è ottimo!
Le cene al Cosmos, che si articola in due piani aperti per cenare e ballare e dispone di un medio palcoscenico, si chiudono con numeri di cabaret: giovani attori legati al festival, qualche attore ospite, niente di speciale, ma un’atmosfera davvero festosa (ideale per fare tardi: se si potesse davvero comunicare!).


VERSO LA RISERVA NAZIONALE
FESTIVAL IN TRASFERTA
Dopo la prima fase ad Abakan il festival si sposta nel parco/riserva nazionale lungo il ‘mare Sayan’ (Sayano-Sushensko Reservoir): ci siamo tutti: gli organizzatori, le compagnie, gli ospiti, oltre a qualche funzionario del ministero della cultura e addetti al parco (ecologi o semplici guide): l’obiettivo è fraternizzare, discutere, fare escursioni e anche qualche spettacolo. Il tutto per 4 giorni. Un’idea molto bella e un’occasione unica.

LA DIGA
La guida Lonley Planet parla poco di questa riserva, credo perché non è semplicissima da visitare (guide, permessi). Punto di partenza è la portentosa diga Sayano Shushenskaia, il bacino idroelettrico di Sayanogorsk, dove arriviamo dopo due ore di bus . E’ la più grande diga di Russia e la quarta del mondo per emissione di energia, immensa quanto eccessiva, impressionante però e molto reclamizzata dalla grandeur sovietica: può produrre molta più energia di quanta se ne possa utilizzare/incanalare a lunghe distanze e del tutto superflua a livello locale (eppure ci sarà stato un piano?!). Gli impianti a valle sembrano infatti degradati/sottoutilizzati.
L’impresa ha creato un vero disastro ecologico, anche se è in questo disastro che ora noi ci godiamo i 4 veri giorni siberiani.



IL MARE DI SAYAN: LA TUNDRA!
Il fiume Jenissey ha creato quello che giustamente chiamano ‘mare di Sayan’, molto più di un lago, che si addentra nei monti Sayan fino alla Repubblica di Tuva. Per percorrerlo fino al campo base ci mettiamo più di 10 ore e ce ne vogliono altre 2 o 3 per arrivare all’estremo sud. Non sono stati distrutti villaggi o culture, ma si sono completamente squilibrati flora, fauna, clima: si è creato un vero e proprio microclima, molto più umido. In compenso il paesaggio è grandioso, selvaggio: navighiamo per 10 ore fra due pareti di boschi fitti (è la tundra), a volte il corso è largo e complicato da diramazioni, altre chiuso da rocce scoscese (al rientro vedremo in alto numerosi stambecchi, e sappiamo che ci sono orsi, perfino qualche leopardo delle nevi). Naturalmente si intravedono pesci (e qualcuno pesca).
Però l’effetto più vistoso del paesaggio acquatico è l’enorme quantitativo di tronchi galleggianti (e i tronchi che marciscono producono altre alterazioni chimiche nell’acqua), in alcuni punti sono recintati da cavi e boe, ma molti sono liberi tanto che, all’inizio del percorsi soprattutto, il battello naviga a vista: è comunque molto rinforzato a prua e mi immagino di essere su una di quelle mitiche rompighiaccio sovietiche che arrivavano a salvare le nostre incaute spedizioni al polo!



Questi tronchi non sono lì da poco, ma da quando è stato creato il bacino (una trentina d’anni). Recuperarli sarebbe costosissimo (anche se poco dopo la diga abbiamo visto le cataste di tronchi freschi e la fabbrica che li trasforma in carbone, molto contrastata dagli ecologisti) e non è stata accettata un’offerta giapponese, di recuperarli a proprie spese, e pagarli anche. L’informazione mi sembra suggestiva ma non del tutto convincente, come la spiegazione di Irina: orgoglio e grandeur sovietici non avrebbero permesso che un paese straniero interferisse nella zona. OK, allora, ma ora? Anche ora: non è questione di soldi, l’orgoglio nazionale è più forte (‘siete del tutto idioti in questo, voi queste cose della Russia non le capite’). Irina, e gli altri che la spalleggiano, non approvano questi difetti nazionali – i soldi dei giapponesi farebbero molto comodo al paese – a c’è ancora molto, comprensibile orgoglio nei confronti della grande ingegneria sovietica (certo se tutte queste capacità e ricchezze fossero state investite meglio!).
Ma la verità è anche che Irina (e gli altri russi che si occupano di teatro, fa eccezione un po’ l’ecologa), non capiscono bene perché faccio tutte queste domande cretine, perché mi interesso tanto a questi dettagli (il recupero dei tronchi, se là c’è stato un incendio, se c’erano villaggi sotto) e non mi godo la grandezza del paesaggio.
La foresta è mista: ai tronchi chiari delle betulle si alternano conifere (larici, credo) e un sottobosco molto fitto. Sono belle le striature bianco-argentate, pennellate sottili, che illuminano il verde cupo. Fra andata e ritorno vedremo questo paesaggio (12 ore di paesaggio apparentemente identico) in tutte le sue sfumature, con sole e cielo blu, cielo livido, pioggia e in tutte le ore del giorno. Credo di non essermi mai misurata con una situazione naturale simile (unico paragone possibile – ma su piccola scala – l’Islanda, forse, o certi paesaggi alpini) .

I BATTELLI/L’EQUIPAGGIO
Siamo ben 4 battelli (che ovviamente non possono comunicare fra loro durante il viaggio, se non ogni tanto superandosi/ raggiungendosi, con grandi saluti, come una gita scolastica). Compagnia simpatica, all’inizio si fa festa, si canta. Nel nostro gruppo ci sono i responsabili del centro nazionale per il teatro (due signore e un giovane molto compassati e controllati), gli ospiti francesi (la simpatica direttrice del centro di teatro di figura di Charleville-Mezières, Lucille, con il candido compagno Philippe, e il giovane Lorent, che è venuto da queste parti sulle orme di Dersu Uzala), una giovanissima e simpatica compagnia teatrale ceca (6 o 7 ragazzi molto motivati: e che almeno parlano inglese, oltre che russo), una giovane documentarista norvegese (silenziosa e molto ingombrante con la sua pur piccola telecamera), un pianista egiziano (Muhamed, che ha studiato a Pietroburgo, è molto ben informato, e per niente musulmano almeno a giudicare dalla vodka). Ma la vera anima del viaggio si rivela l’attore-animatore turco Mustafah, che sembra non uscire dai suoi personaggi: canta, balla e continua a farne tutte le voci, non sembra particolarmente afflitto perché la delegazione ufficiale del teatro nazionale sia rimasta ad Abakan (per l’indisposizione di un funzionario: tanto non è niente di grave), riesce anche ad insegnare qualche canzone in turco ai cechi e a Irina che è una gran festaiola.



Poi il tempo peggiora, ci si annoia un po’. Si mangia in continuazione (colazione, pranzo, cena) e si beve ciai. La nostra cuoca – l’equipaggio in genere – è simpatica e anche molto brava. Il bello di comandante, mozzo e cuoca è che sono di ottimo umore e sembrano contenti come noi, anche se non così sbracati.

AL CAMPO
Il nostro campo è oltre una specie di porto naturale, si apre all’improvviso e sono già le 22 passate. Ha piovuto e non si possono usare le tende. Dormiremo in alcune case (3) realizzate per gli ospiti (nuove, belle e ben equipaggiate) e, i più giovani (non io per fortuna) nelle cabine dei battelli, dove torneremo anche a mangiare.
La mattina presto tento un’escursione (sono molto contenta di aver portato gli scarponi anziché il computer: per tutti e due non c’era posto) ma poco fuori del campo i sentieri non sono segnati: qui ci si muove via acqua, le vie alte sono per gli animali. Dall’alto vedo una specie di villaggio, dove ci porteranno nel pomeriggio con uno dei barconi: è un vero vecchio villaggio contadino con orti (un orto con verdure e girasoli c’è anche al nostro campo), integrato da casette per gli operatori ecologici e dalle attrezzature per le osservazioni metereologiche; ci sono anche una quindicina, di splendidi cavalli selvaggi ed è qui che facciamo il bagno (in pochi per la verità) nell’acqua verde del mare di Sayan (ovvero del fiume Jenissey): fredda ma sopportabile con il sole fuori, densa come un liquido amniotico, avvolgente, molto gradevole. Al campo del resto faremo (il giorno dopo) un’esperienza altrettanto fisicamente gratificante la ‘BANJIA’: la vera sauna russa: FANTASTICA! In questo caso (ce ne sono di più grandi e industriali: ne parla con vivacità Franceschini e le abbiamo viste in molti film) è una casetta di legno con una grande vecchia stufa a legna che viene portata a una temperatura altissima, gettando acqua sulla stufa si alimenta il vapore e si alza ulteriormente la temperatura. Ci si frusta a vicenda con rametti di betulla (siamo fra signore) o altre piante, appositamente e non casualmente scelte (ci sono teorie e una letteratura in proposito), si interrompe versandosi addosso acqua gelata da un grande pentolone. Tutto ciò a più riprese, riposandosi per qualche minuto all’esterno. La tradizione – e l’uso maschile della banjia – prevede che nelle interruzioni si mangi e si beva vodka.
Ecco una cosa di cui avevo sentito parlare ma che non avevo mai fatto: forse non ho reso l’idea, ma è gradevolissimo. Capisco – e spero – che sia una di quelle abitudini/tradizioni legate al clima e non solo che nessuna Jacuzzi potrà sostituire.
Così paonazza potrò godermi meglio la festa finale, così come la sera prima – rinfrancata dal bagno nel fiume – lo spettacolo serale nella grande jurta: si tratta di un grande spazio poligonale di legno, semiaperto, con panche intorno e con focolare al centro.

SPETTACOLI E INCONTRI

In realtà lo spettacolo serale sono i russi: ci sono tutte le compagnie ospiti, che sono per la quasi totalità provenienti dalla grande periferia russa. Credo che i luoghi comuni e la retorica siano una maledizione, anche per questo paese. Ma questa gente che si riunisce e canta (in attesa del vero spettacolo), trovando subito il terreno culturale comune (le canzoni popolari che sanno tutti) e l’accordo vocale giusto, formando con naturalezza un coro perfetto, da cui emergono, neanche si fossero accordati, le voci soliste), questa gente E’ ‘la grande anima russa’: un misto di allegria e malinconia, sentimentalismo e sofferenza, la durezza sparisce anche dalle facce, e la dolcezza della lingua cantata, intorno al fuoco, è quasi ipnotica (noto che Philippe – non teatrante, lavora nella telefonia, ma viaggiatore molto ricettivo – è davvero commosso: ‘inoubliable’ continuerà a dire di questa serata e del nostro viaggio). Al canto spontaneo segue – nella jurta- un concerto dimostrazione con strumenti originali della zona e accompagnamento vocale (di gola e non) I musicisti – che sono poi componenti delle compagnie – sono serrati in uno spazio piccolo-piccolo, davanti al fuoco.. E’ quasi impossibile che attori occidentali (italiani almeno) sappiano cantare, suonare e ballare come gli attori russi (e in genere dell’est): in questo continuano a darci molti punti!





Gli spettacoli più impegnativi, per quanto semplicissimi, si svolgono di giorno all’aperto (fra questi, bellissimo, ‘IL vecchio e la lupa’ di cui ho detto), come all’aperto è stato il rito sciamanico di inaugurazione: un po’ più complesso che a Abakan, ritmato da sapienti percussioni e con invocazioni alla madre tundra, al padre fiume e nostra partecipazione diretta.



Tutti abbiamo l’aria un po’ divertita e ironica – che più che meno – ma ci prestiamo senza problemi: mi sembra di capire che la maggior parte dei russi presenti sono tuttora atei (Irina per esempio, che ce l’ha con la Chiesa Ortodossa, ma quando ne parla male – in russo e francese è molto attivamente spalleggiata dagli altri). E’ forse proprio l’ateismo che rende lo sciamanesimo accettabile: in fondo è un gioco che esalta la tradizione e i valori della natura .
Nelle discussioni sul senso del festival (etno-ecologico), colgo che è proprio questo, senza grandi riflessioni, che ai responsabili interessa: recuperare originalità (etno), sincerità e semplicità (una sorta di ‘ecologia’ teatrale). Non si tratta tanto (soltanto) di affrontare temi legati alla natura e all’ambiente. C’è consapevolezza dei rischi impliciti nell’enfatizzazione delle specificità delle culture regionali (di chiusura verso le altre cultura, rifiuto della modernità, ma anche nazionalismo etc.) sono intuiti ovviamente, ma si preferisce non approfondire, almeno per ora. La realtà è che tutte le repubbliche periferiche hanno più o meno avuto le loro tentazioni di indipendenza, nessuna ha più alcuna speranza/velleità in proposito, importante è quindi che almeno non perdano/recuperino, le loro lingue e culture: lo stato centrale (Mosca) fa solo in apparenza e certo non abbastanza questa politica , mentre è da questo patrimonio che può arrivare alla cultura e al teatro russo un po’ di vitalità e ‘sincerità’. Tanto Svetlana, la direttrice del teatro e del festival, che Irina, ritengono che il teatro russo sia afflitto da cupezze, contorsioni false e poco espressive: la verità, l’immediatezza di comunicazione, la semplicità è stato il criterio per selezionare gli spettacoli.
Quanto alla coscienza ecologica (e alla consapevolezza delle problematiche ambientali) è in realtà molto superficiale (per quanto poeticamente sentita, come in Eugeni Ibragimov). Quando in un incontro fra teatranti e ecologi (cioè addetti del parco) chiedo conferma al fatto che la Russia non ha ancora ratificato in protocollo di Kyoto, solo gli ecologi sanno a cosa mi riferisco.
Faccio presente in una specie di assemblea conclusiva (dove si aspetta molto il nostro parere di stranieri), che – visto che il tema del festival si articola su due linee (eco e etno) intrecciate – la linea intrapresa/le scelte sono probabilmente corrette a livello russo, ma se si vuole che il festival diventi davvero internazionale (e non mi risultano altri festival focalizzati su una tematica così forte, significativa a livello mondiale, attuale etc.), tema e obiettivi vanno un po’ precisati/ teorizzati tanto nella direzione della funzione del teatro nella sensibilizzazione ambientale, che sul significato di ‘etnico’. Se no, dall’Italia, ad esempio, potranno arrivare tarantelle e mandolini, o al massimo commedia dell’arte (niente di spregevole, intendiamo, ma forse si può dare al tema un taglio più contemporaneo).
Vedo espressioni di consenso fra gli attori mentre Irina – che mi traduce dal francese in russo – è decisamente arrabbiata con me: la tesi dell’’etnosincerità’ è soprattutto sua e lei è pur sempre la presidente dei critici di teatro di Mosca (i russi quindi hanno difficoltà a contraddirla: ma siccome è una donna abbastanza eccezionale, oltre che aperta e molto preparata, sono certa che il suo nervosismo si trasformerà in riflessioni interessanti, forse qualche polemica sulla via del ritorno). Mi rendo conto di non essere stata cerimoniosa, come ci si aspetta in questi casi: cerco di rimediare, smusso il mio pensiero complimentandomi per la qualità – reale – degli spettacoli ‘etnici’ (che poi, in sintesi, hanno utilizzato testi in lingue originali, o modi-temi locali), e soprattutto ringrazio e lodo sinceramente l’idea e l’organizzazione (davvero complessa) del festival, oltre all’opportunità unica che mi è stata data. Penso davvero che potrebbe diventare un importante evento/appuntamento internazionale. .

PREMI PER TUTTI
Il soggiorno al parco nazionale termina con una grande festa in cui – anche con ironia verso i festival russi che sono di norma finalizzati alle premiazioni – vengono ‘premiati’ e ringraziati tutti, chiamati uno a uno, con diplomi personali e regali (dalle compagnie agli ospiti, agli sponsor, ai comandanti dei battelli). Naturalmente si fa festa con buffet, vino, vodka, cognac, canti e danze; per fortuna: la temperatura è scesa a livelli da (nostro) inverno o forse è l’umidità (e la banjia di poco prima) che me la fa percepire vicina a zero. Il processo di ‘fraternizzazione’ sembra funzionare, soprattutto fra i russi – che in gran parte non si conoscevano prima – molta cordialità, nonostante la difficoltà di comunicazione, anche con noi occidentali, con grandi sorrisi da parte degli uomini e abbracci dalle donne .
La giornata di ritorno è un po’ dura, piovosa fino al pomeriggio, la navigazione sembra lentissima, ma trionfale alla fine con un sole e una luce che allevia le stanchezze e ci riporta tutti sui ponti dei barconi.
Per 4 giorni i cellulari sono rimasti muti e non abbiamo aperto il portafoglio etc.
Ore 22: arrivi, addii (io riparto al mattino, quasi tutti partono per Mosca con l’aereo delle 01), molta cordialità, scambio biglietti da visita.
Irina sembra preoccupata per il mio viaggio, di cui peraltro ha autorevolmente approvato il piano. La delegazione moscovita – signore molto sedentarie che balbettano un po’ di inglese – si chiede cosa diavolo vado a fare a Kyzyl e come farò con la lingua. Me lo chiedo un po’ anch’io. E’ dal 1° agosto che parlo prevalentemente francese (con qualche raro intermezzo di inglese), il mio russo è rimasto fermo a «karasciò» e «spasiba», in compenso gesticolo come Pulcinella! Quindi me la caverò di sicuro.
Proseguirei volentieri, ma ora di teatro non c’è proprio più niente da raccontare.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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